La Grosse Koalition è una

"soluzione" del tutto provvisoria.

Ancora una volta la sinistra socialdemocratica ha aperto la strada a soluzioni di destra. La reattività dei proletari tedeschi è riuscita a frenare, almeno in parte, l’avanzata, data per travolgente, della Cdu-Csu e dei suoi sponsor confindustriali. Ne è venuto fuori un compromesso che difficilmente potrà durare. Il padronato tedesco e quello internazionale richiedono infatti alla Merkel misure di "risanamento" più drastiche di quelle messe in cantiere dal nuovo governo di "grande coalizione".

Il proletariato tedesco è chiamato a far muro contro di esse riconquistando la propria compattezza e autonomia di classe, senza farsi attrarre e deviare dalle sirene social-scioviniste che con Oskar Lafontaine (e la destra neo-nazista) hanno già cominciato a lusingarlo. Una vicenda, questa, che avrà

Cosa è successo in Germania, alle elezioni e dopo, è noto. Doveva essere un cappotto social-cristiano alla social-democrazia, che non c’è stato. Poteva esserci, sulla carta, un governo di sinistra o di centro-sinistra, che non c’è stato. La social-democrazia l’ha escluso a priori con ribrezzo. Ne è venuta fuori una "grande coalizione" tra social-cristiani e social-democratici. Il suo compito, un compito affidatogli non dagli elettori che votano ogni 4-5 anni, bensì dai mercati che, Soros docet, votano ogni giorno, sarà quello di cancellare il più possibile quel tanto di "sociale", di "garanzie" per il lavoro salariato (è questo il solo vero elemento sociale nell’economia di mercato, per essenza privata) che tuttora permane nella legislazione e nel sistema contrattuale tedesco.

Senonché il governo Merkel non ha fatto neppure in tempo ad entrare in carica che già nei piani alti della economia mondiale (finanza, borse, corporations, etc.) si scalpita. In Germania si è fatto tardi. Bisognerebbe fare molto più in fretta, e invece c’è il rischio di accumulare altro ritardo. A far cosa? È evidente, no?, a prendere a sciabolate il proletariato tedesco. Incombenza non facilissima, ma ineludibile poiché non potrà esserci un vero rilancio dell’accumulazione capitalistica in Europa, e non potrà esserci un generale coinvolgimento dei suoi stati e dei suoi lavoratori nelle guerre in corso e in quelle "programmate" dagli Stati Uniti, senza avere prima sbaragliato la resistenza che i proletari tedeschi stanno opponendo, in modo aperto o sordo, alla demolizione dello "stato sociale" e alla fine della "non belligeranza" della propria nazione. Ancora una volta la Germania è un campo decisivo per lo scontro di classe, anche perché il proletariato "tedesco" (oggi multinazionale) è un osso duro per la borghesia. E, giova ricordarlo, non da ieri.

Occupazione, divisione, "cogestione"

Il proletariato della Germania si attestò all’avanguardia del proletariato europeo dal lontano 1848 all’"assalto al cielo" del primo dopoguerra fino alla resistenza contro la marea montante del nazi-fascismo. Memori di ciò gli Stati Uniti, i veri vincitori della seconda guerra mondiale, efficacemente coadiuvati dalla Russia stalinista, mirarono ad impedire che nella Germania, cuore d’Europa, si ripetesse lo scenario del primo dopoguerra, che vi si sviluppasse un movimento rivoluzionario proletario (essi miravano anche, nello stesso tempo, ad impedire la rinascita di una Germania grande potenza borghese). A questo scopo occuparono militarmente il territorio tedesco dividendolo in due diversi stati anzitutto per dividerne il proletariato. Ebbero successo. Non ci fu un secondo 1918-1919. Né un secondo spartachismo. Il movimento operaio di Germania era stato disorganizzato a fondo dalla furia nazista, e la sua parziale riorganizzazione avvenne all’ovest a opera di un Kpd stalinizzato all’insegna del motto anti-rivoluzionario "Nessuna ripetizione degli errori del 1918". Cioè: nessuna prospettiva di tipo sovietico, il massimo obiettivo da proporsi sia "una repubblica democratico-parlamentare". All’Est, con i carri russi, arrivò in dono la paralizzante menzogna del "socialismo reale", contro le cui norme produttivistiche si sollevarono otto anni dopo gli operai berlinesi, "i valorosi lavoratori di mille lotte sindacali e politiche, i nipoti dei vecchi socialisti, i figli degli spartachisti di Carlo e di Rosa" (Il programma comunista, n. 12, 1953), venendo brutalmente repressi.

A metà anni ’50 l’ordine capitalistico regnava di nuovo in Germania ben puntellato dalle truppe di occupazione demo-"socialiste" alleate. Come premio per la rinnovata disciplina del lavoro cui li si chiamava, ai proletari furono promessi all’Ovest benessere, "proprietà per tutti" e sindacati liberi, "associati" alla gestione (Mitbestimmung) delle imprese e dell’economia nazionale.

In virtù di un ciclo di sviluppo formidabile la promessa degli Stati Uniti sembrò avverarsi. Anche attraverso la pressione esercitata dalla propria organizzazione sindacale, il proletariato tedesco ha potuto migliorare via via le proprie condizioni di vita e di lavoro. Riflesso di questa dinamica è stata la scomparsa, non solo per effetto della repressione capitalistica, del Kpd e la Bad Godesberg della socialdemocrazia (che Bertinotti ora prospetta come orizzonte avanzato per il suo partito e il movimento no global!). Abbandonato ogni riferimento (anche domenicale) al socialismo, la socialdemocrazia tedesca si prefisse di utilizzare l’intervento pubblico per far sì che lo sviluppo capitalistico ricadesse anche sulla classe lavoratrice favorendo così la coesione sociale del paese e la sua capacità competitiva. Questa situazione incanalò la resistenza del proletariato tedesco in una pressione o in una serie di lotte "quotidiane" per la sopravvivenza prima e poi, dagli anni sessanta in avanti, per il "benessere". Qualcosa di analogo nella sostanza accadde anche nella Germania Est, dove dopo la repressione della sollevazione proletaria del 1953 fu attuata una politica "riformista".

Con ciò i contrasti di interessi tra classe sfruttata e classe sfruttatrice non scomparivano; erano semplicemente incanalati nell’alveo della "cogestione", forma tedesca del "compromesso sociale" post-bellico generalizzato in Occidente. Entro queste maglie l’iniziativa operaia è rimasta confinata a lungo ai temi del salario e dell’occupazione. Ma nel 1973, l’anno del sessantotto operaio in Germania, emerse un fenomeno sociale e politico nuovo: il rifiuto di una parte della classe lavoratrice (metallurgici in testa) di sottostare ai deliberati padronali in fatto di tempi e ritmi di lavoro. Questa occasione di scontro vide anche un’altra importante novità: il protagonismo dei lavoratori immigrati, discriminati nella società, ma fortemente presenti nel cuore del proletariato industriale e dell’organizzazione sindacale. Da quel momento in poi la Mitbestimmung è stata il terreno di una contesa sempre più acuta tra capitale e lavoro specie da quando (1984) i lavoratori metalmeccanici e tipografici sono riusciti, con una lotta serrata, a conseguire, per primi in Europa, le 35 ore.

 

Fine della divisione Fine della "cogestione"

La borghesia tedesca ha potuto reggere ad un simile incremento del costo del lavoro, oltre che per l’esemplare livello di organizzazione delle sue unità produttive, per i favorevoli sviluppi della situazione internazionale. Prima il successo della Ostpolitik, con la crescente apertura ad ovest del "blocco socialista". Poi la riunificazione del paese e il successivo sfondamento nei Balcani e nell’est europeo. In entrambi i casi il grande capitale tedesco ha acquisito un forte ampliamento del suo mercato sia esterno che interno, per i suoi investimenti e le sue merci e, fatto ancor più vitale, ha allargato a dismisura il proprio esercito industriale di riserva. Ciò gli ha permesso di cominciare a ricattare in modo sistematico i "costosi" e "pretenziosi" operai tedeschi, i quali nei decenni passati avevano gettato sì in un canto la loro organizzazione politica "classista", non però l’intenzione di far valere collettivamente i loro interessi immediati.

A livello politico questo doppio sfondamento all’esterno ha corrisposto prima al passaggio delle consegne alla socialdemocrazia e poi al duraturo ritorno al governo della Cdu-Csu. Prima con la delega politica a Kohl e C., espressione del "modello" capitalistico vincente, poi con scioperi e dimostrazioni, i proletari dell’Est hanno manifestato e fatto valere la propria aspettativa di ottenere un’equiparazione della loro condizione a quella dei connazionali dell’Ovest, formando per anni un nuovo argine all’assalto neo-liberista in pieno corso in tutta Europa. Si deve anche a loro se nel 1993 e nel 1996 i due tentativi del governo Kohl di abbattere i servizi sociali e iniziare a ridurre i salari furono contrati in modo abbastanza efficace, e se –soprattutto- per le prime volte nel dopoguerra il movimento sindacale tedesco si presentava in campo non per una vertenza aziendale o di categoria, ma per delle iniziative di lotta contro l’intera politica padronale e governativa dall’evidente significato politico. Negli anni ’90 il proletariato tedesco ha fatto qualche passo in avanti sul cammino della propria ri-unificazione, e questo ha avuto il suo peso nel pensionamento del trionfatore dell’89. "Kohl se ne deve andare", "Basta con il governo delle ingiustizie", "Giù le mani dal futuro dei nostri figli" gridavano a Bonn minatori ed edili nella primavera del 1997, "assediando" addirittura il Bundestag (v. che fare, n. 43).

Kohl è stato mandato a casa, è arrivato il governo "rosso-verde" e le cose sono sembrate cambiare in meglio. Fino a tutto il 2000 Schroeder ha potuto beneficiare dell’onda lunga dello slancio della riunificazione; nei primi anni del suo governo i salari hanno tenuto e la disoccupazione è diminuita di un punto. Ma quando questo slancio si è esaurito (anche per i costi imposti dal proletariato dell’Est) mentre per contro partiva al di là dell’Oceano, col varo della "guerra infinita", una ripresa trainata da una gigantesca spesa bellica e dalle relative "imprese", è risultata evidente al cancelliere socialdemocratico l’impossibilità di andare avanti lungo la linea del liberismo moderato, della concertazione con la Dgb di tagli al welfare progressivi ma estremamente graduali, e dello stesso "neutralismo" sull’arena internazionale. Di qui la sua svolta, in quanto "cancelliere del centro", condensata nei provvedimenti dell’Agenda 2010, la decisione di entrare in conflitto aperto col suo stesso partito, di accentuare il carattere produttivo (e non redistributivo) della spesa statale, e infine la cauta preparazione dell’ingresso della Germania nelle missioni militari internazionali "di pace" (cominciando dall’Afghanistan).

Lungo questo medesimo tracciato Schroeder era stato, però, già ampiamente sopravanzato dalle direzioni aziendali e dalla Cdu-Csu. Dalla metà degli anni ’90 un numero crescente di imprese, inclusa la Volkswagen a prevalente partecipazione statale (il cui dirigente Bernhard ha prospettato tagli del costo del lavoro dell’ordine del 40%), vista la difficoltà di battere in campo aperto intere categorie di lavoratori, hanno optato per lo svuotamento di fatto dei contratti nazionali o uscendo dalle associazioni di categoria, o pretendendo dai sindacati aziendali deroghe speciali, fino ad arrivare negli ultimi tempi, soprattutto negli stabilimenti dell’Est, all’allungamento unilaterale senza contropartite degli orari di lavoro. Per parte loro anche i social-cristiani hanno spedito in soffitta la "economia sociale di mercato" che era stata un loro parto, per sposare un liberismo accentuato con punte reaganiane (sul tipo della flat tax) e un riavvicinamento alla politica internazionale degli Stati Uniti.

Un voto polarizzato

Risultato complessivo: i tre pilastri del "modello tedesco", lo "stato sociale", la "cogestione" ed il cosiddetto federalismo solidale in via di demolizione; salari al palo; utili aziendali, plusvalenze e avanzo commerciale in impennata, mentre nel mercato del lavoro disoccupazione e precarietà sono giunti ad un livello "brasiliano" (Beck). Tutto ciò, però, non basta. Il capitale mondializzato preme furiosamente per sfondare sul fronte europeo e il padronato germanico, facendo cambiare il fucile di spalla, ha incaricato la Cdu-Csu di accollarsi questo compito lanciandole alla grande la volata, dati i troppi impacci su questo piano dell’Spd.

Senonché la Merkel non ha ricevuto l’attesa investitura proletaria. Dalle urne è invece uscito un risultato polarizzato. Una polarizzazione capitalistica e dei ceti medi accumulativi a destra, con il suo centro territoriale nei land occidentali e in Baviera. Una polarizzazione dei proletari e dei salariati più attivi accorpati ancora una volta maggioritariamente intorno alla Spd (in rapida risalita nel rush finale, e primo partito all’Est) e, in piccola parte, ai verdi, con una forte avanzata della Linkspartei, la formazione più "a sinistra" dello schieramento parlamentare. La polarizzazione elettorale riflette quella sociale. È proprio per questa ragione che la formazione del governo di "grande coalizione" rappresenta una soluzione non risolutiva, già messa in discussione dal padronato tedesco e internazionale e incapace di soddisfare le attese della massa dei proletari che hanno votato contro la destra.

Le primissime misure del nuovo governo (nella cui formula di giuramento ha fatto reingresso "l’aiuto di Dio"…) sono state solo di assaggio, condite perfino da demagogiche rassicurazioni sul rispetto dei "valori dell’economia sociale di mercato". Tuttavia l’innalzamento dell’età pensionabile, l’aumento delle aliquote Iva, altri tagli all’indennità di disoccupazione, l’allungamento dell’orario dei pubblici dipendenti, la maggior facilità di licenziamento nei primi due anni di contratto per le imprese con più di 15 addetti, la privatizzazione delle ferrovie, la riduzione del budget sanitario, le tredicesime dimezzate, la contrazione del 2,5% dei pubblici dipendenti, sono misure a senso unico, quand’anche aromatizzate dall’aumento del prelievo personale sui miliardari. Il prosieguo sarà comunque più duro.

E ad esso si prepara la Spd con l’ennesima muta del partito in senso "post-socialdemocratico". Ciò sta a dire che (riprendiamo l’efficace commento di G. Ambrosino su il manifesto) il conflitto capitale-lavoro "scompare alla vista" della "nuova" Spd anche solo come vago orizzonte di riferimento, ed essa si riorienta sui "molti milioni di persone normali", i ceti medi, a cui prospetta come massimo traguardo possibile la "eguaglianza delle opportunità" nell’accesso all’istruzione. "Questa riduzione [del suo programma] alla salvaguardia degli accessi al sistema formativo equivale alla dichiarazione di fallimento di un progetto politico nato 140 anni fa con ben altre ambizioni: socializzare la ricchezza, anche se a piccoli passi, e con questa i diritti di partecipazione". È così. Cadono insieme le utopie social-cristiane e social-democratiche di un capitalismo in qualche modo "sociale", ma già la destra estrema, al momento fuori dai giochi parlamentari (sulla quale torneremo quanto prima sulla base di un’adeguata documentazione), e la Linkspartei si candidano ad occupare tale vuoto con l’unica proposta borghese realistica: l’aggressivo rilancio di un polo imperialistico europeo con asse sulla Germania che si ponga in competizione con gli Usa, nel quale i lavoratori tedeschi sono chiamati ad arruolarsi per dargli quel nerbo che i borghesi tedeschi non hanno, ricevendo in contropartita una lepeniana "precedenza" sui lavoratori immigrati. Un progetto ancora abbastanza grezzo, poiché se riedita la vecchia metodica (hitleriana, e ci spiace se il paragone parrà insultante) dei due bersagli opposti, il parassitismo finanziario da un lato e il parassitismo degli stranieri (ieri gli ebrei, oggi i turchi) dall’altro, non si pone però neppure il problema, ineludibile per chi voglia far concorrenza vincente agli Stati Uniti, di un "diverso" rapporto con i popoli oppressi dall’imperialismo. E tuttavia, come già abbiamo scritto a proposito dei Le Pen, dei Bossi, degli Haider, se non si rimette in discussione il capitalismo in quanto tale, ciò da cui Lafontaine, Gysi e C. si guardano bene, la via del socialsciovinismo aggressivo -di destra o anche "di sinistra"- resta la sola via praticabile per i partiti borghesi.

E ora?

I lavoratori tedeschi sono dunque sotto attacco concentrico interno ed internazionale, pressati per giunta da un esercito di riserva esterno ed interno sempre più ampio. Non saranno eventuali nuove elezioni o abili giochi di interdizione parlamentare da parte dei dissidenti Spd o della Linkspartei a salvarli, o uno scatto improvviso del vertice della Dgb sempre più incline, peraltro, ad assumere un "basso profilo" nelle questioni di carattere generale e ad accettare "deroghe eccezionali" nei singoli casi concreti. Potrà essere solo la capacità della massa del proletariato di fare muro contro i nuovi attacchi, ad iniziare da quelli già scagliati dal governo Merkel, compattandosi tra disoccupati e occupati, tra autoctoni ed immigrati, tra ovest ed est, e tendendo la mano (al modo degli operai della Renault) per una lotta in comune a quel proletariato "di riserva" del mondo slavo, a cui di nuovo si cerca di contrapporlo. Potranno essere solo la ripresa dello scontro in campo aperto, la "riscoperta" integrale del proprio programma e della propria grande tradizione di classe, la rinascita di quel partito di classe di cui si incomincia a sentire la mancanza e la necessità.

Il crollo delle utopie riformistiche non apre soltanto la strada alle soluzioni reazionarie più crude e al social-sciovinismo; rimette anche all’ordine del giorno la soluzione rivoluzionaria, che il proletariato non ebbe la forza di imporre nel primo dopoguerra e verso la quale, volente o nolente, è di nuovo sospinto dall’esplosività del proprio antagonismo al capitale. Per quanto lontano appaia (e sia) il "lieto fine", di questo si tratta, tanto per il proletariato tedesco che per quello internazionale, legati dalla medesima sorte e chiamati a collegarsi sempre più strettamente tra loro.