Ebrei, stato di Israele e Medio Oriente

di popoli liberi ed eguali

Lo stato di Israele deve la sua legittimità storica alla secolare, terribile persecuzione subìta dagli ebrei in Europa (in Europa!, non certo nel mondo arabo o nell’impero ottomano, dove per secoli hanno convissuto senza problemi con le popolazioni maggioritarie arabe, turche, etc.), per mano della chiesa cattolica (non di quella sciita!), dei signorotti feudali polacchi, ucraini, russi, etc., ed infine, sempre su pacifico suolo europeo, ad opera del regime nazista e del fascismo. L’enorme speculazione imbastita su questa tragica vicenda, in particolare sullo sterminio degli ebrei comuni nel corso della seconda guerra mondiale (è stato un ebreo statunitense, Norman Filkenstein, a denunciare la esistenza di una "industria dell’Olocausto"), o la stessa oppressione sistematica del popolo palestinese ad opera di Israele, non possono e non debbono farla, per reazione meccanica e cieca, dimenticare.

Il progressivo insediamento nei passati cento anni di gruppi di ebrei in Palestina è stato l’esito, per certi versi naturale, specie per gli ebrei senza riserve, delle persecuzioni da loro subìte (i ricchi finanzieri ebrei non sono mai stati sfiorati dalla "tentazione" di trasferirsi laggiù, e come si fa a non capirli?). Va ricordato che alle origini alcuni tra questi gruppi o comunità erano mossi perfino da ideali socialisti ed egualitari, e non nutrivano sentimenti di ostilità o superiorità razziale verso gli arabi (così come era vero anche l’inverso). Tuttavia il sionismo vincente, quello che ha impregnato di sé la nascita e la vita di Israele, come stato e come società, e li ha diretti dal 1947 ad oggi, ha fatto di questo stato e di questa società, più che il sicuro rifugio della massa degli ebrei sparsi per il mondo, l’agente primo della colonizzazione imperialista del Medio Oriente, trasformando quanti vi si sono rifugiati in altrettanti soldati in servizio permanente effettivo di una causa estranea e oggettivamente opposta a quella della creazione di un "focolare nazionale" intorno a cui riscaldarsi finalmente in pace. Questo tipo di deriva era largamente implicita nella stessa concezione dello stato ebraico ad opera del suo padre putativo, T. Herzl, che lo offrì alle grandi potenze colonialiste europee quale"un avamposto della cultura [europea] contro la barbarie [araba]", e non per caso lo concepì, al contempo, come uno stato in cui l’organizzazione del lavoro sarebbe stata "del tutto militare".

Ciò che ne è venuto fuori è uno stato certamente moderno e modernizzatore, in fatto di tecniche produttive anzitutto, tanto più se lo si mette a confronto con stati di tipo ancora semi-feudale quali le petrolmonarchie arabe, ma uno stato che in nessun campo è stato altrettanto moderno e razionale quanto nell’organizzazione della guerra, uno stato permanentemente militarizzato che, altrettanto certamente, si è specializzato nella distruzione spietata del "focolare nazionale" dei palestinesi, ha aggredito tutti i suoi vicini e si segnala per la progettazione, in proprio e in combutta con gli Stati Uniti (e l’Europa "pacifista"), di una serie di azioni di guerra e di guerre.

"Israele come stato ebraico costituisce un pericolo non solo per sé stesso e per i suoi abitanti, ma per tutti gli ebrei e per tutti gli altri popoli e stati del Medio Oriente e anche altrove": a scrivere queste sagge parole non è un qualche orrido "anti-semita", bensì Israel Shahak, un ebreo israeliano "nato in Polonia, deportato a Belsen e residente in Israele da oltre quarant’anni", dunque "un sopravvissuto dell’olocausto", che lo scrittore statunitense Gore Vidal definisce "l’ultimo dei grandi profeti" (il suo testo si intitola Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni, Centro Librario Sodalitium, 1997). Le scrive in quanto considera lo stato di Israele uno stato fondato sull’apartheid nei confronti della popolazione araba, uno stato razzista e discriminatorio nei confronti dei non ebrei in generale come pure degli ebrei che non si riconoscono nello "sciovinismo ebraico", uno stato fondamentalmente confessionale che ha nella "ideologia della Terra Redenta" un’ideologia utile ad espellere tutti i non ebrei dalla terra destinata a far nascere la "Grande Israele" entro non meglio precisati "confini biblici"; uno stato proteso, perciò, ad un indefinito processo di espansione e di colonizzazione. La sua severa conclusione è la seguente: "il corpo sociale ebraico-israeliano ha solo due possibilità di scelta: diventare tutto un ghetto chiuso in guerra perpetua, una Sparta ebraica, fondata sul lavoro degli iloti arabi e mantenuto in vita dalla condizione di poter contare sull’appoggio economico-militare dell’establishment politico degli Stati Uniti e dalla costante minaccia delle armi nucleari, oppure diventare una società aperta" (pp. 31-2).

A quest’obiettiva descrizione dello stato che "nessuno deve toccare" (nel quale vi è un livello di tutela ineguagliato altrove per le sette ultra-ortodosse e –tanto per toccare un tasto della propaganda antiaraba- il loro disprezzo per la donna) ci permettiamo di aggiungere solo: Israele è uno stato di classe che non "protegge" affatto tutti gli ebrei indistintamente, ma –come denuncia a suo modo, e del tutto inconseguentemente, lo stesso Peretz, il nuovo capo dei laburisti- toglie agli ebrei poveri per dare agli ebrei ricchi, investe sempre e solo nella guerra e nella espansione delle colonie in Cisgiordania (di cui quasi tutti si sono dimenticati nel mezzo del cancan sul ritiro da Gaza) nel mentre sta demolendo il proprio welfare per chi colono non è, ed è uno stato che pratica la gerarchizzazione etnico-razziale tra gli stessi ebrei israeliani con gli ashkenaziti preferiti ai sefarditi, e i russi preferiti ai falasha, veri e propri pariah neri, per non parlare poi del trattamento riservato agli immigrati non ebrei.

No, macché, non sono i malfìdi capi borghesi o semi-feudali arabi, tessitori di mille ed una trame di cointeressenza con Israele e con chi Israele protegge; non è l’anti-israelismo propagandistico di un Ahmadinejad e simili; non è l’anti-semitismo vero o presunto a mettere in discussione la legittimità dello stato di Israele; è lo stesso stato di Israele, divenuto sempre più pericoloso non solo per i palestinesi, gli arabi, gli iraniani e quant’altri, ma anche per il proprio stesso popolo, per la sua parte non sfruttatrice. Esso non ha rappresentato la soluzione della "questione ebraica", ma è divenuto parte del problema. Lo hanno cominciato a comprendere le centinaia di giovani refusnik, le decine di migliaia di lavoratori israeliani partecipanti agli scioperi generali che si sono susseguiti negli ultimi tempi, e gli ebrei che in numero crescente abbandonano questa "terra promessa".

Se ci fosse un nucleo comunista operante in Medio Oriente (e se c’è, non siamo in grado di dirlo, lo sta già facendo) non lascerebbe nulla di intentato per gettare un ponte nella loro direzione e per spiegare loro una semplice verità: non ci potrà essere mai pace in Medio Oriente, né per gli ebrei né per palestinesi e arabi, finché rimarrà in piedi un simile stato. Così come noi lavoratori non saremo mai liberi finché resteranno in piedi gli stati arabi poliziotti dell’imperialismo dei Mubarak, degli Abdallah, dei Saud, etc., che, al pari di Israele, fanno la fortuna solo e soltanto delle classi sfruttatrici, locali e internazionali. Uniamo le nostre forze per abbatterli tutti, per cancellare dalla "mappa politica" del Medio Oriente questi stati di kapò, e sulle loro macerie costruiamo una grande federazione sovietica di popoli, di lavoratori liberi che abbatta tutti i muri vecchi e nuovi che ci hanno finora resi nemici gli uni degli altri e perciò schiavi. In una Palestina, in un Medio Oriente di popoli liberi ed eguali che potrà dedicare tutte le sue risorse naturali ed umane al benessere delle proprie popolazioni, non ci sarà da buttare a mare altro che un passato di scontri sanguinosi e le classi sfruttatrici e parassitarie, interne ed esterne, che ce lo hanno costruito addosso. E vi fiorirà finalmente una vera civiltà umana.