Il congresso della Cgil e il (futuribile) governo Prodi
Un clima di attesa e di cauto ottimismo ha caratterizzato l’avvìo del congresso della Cgil. La Cgil è meno isolata di due, tre anni fa. Ha aumentato gli iscritti. Grazie anche alle sue lotte, il governo Berlusconi pare arrivato al capolinea. E per il dopo si prospetta un governo in qualche modo "amico", che potrà rimettere le cose a posto, ridando ai lavoratori, magari un po’ per volta, quel che è stato loro tolto. Questo sentimento di tanti iscritti del più importante sindacato italiano è comprensibile, ma se non vuol essere la premessa di amare delusioni deve fare i conti con la politica del gruppo dirigente della Cgil e con il programma, sempre più definito, del futuribile governo Prodi. E trarne le somme, per mettere quanto prima all’ordine del giorno il proprio, non delegabile "che fare".
Sono passati quattro anni dall’ultimo congresso della Cgil, e sono stati quattro anni difficili. Che si sono aperti con la stipula del patto separato tra il governo Berlusconi e Cisl-Uil finalizzato, in un modo fin troppo esplicito, a mettere in un angolo il sindacato che tradizionalmente ha raccolto e che raccoglie tuttora gli elementi più combattivi del proletariato. Più volte, nel corso di questi anni, la Cgil è stata messa nell’impossibilità di firmare dei contratti e pressoché sempre la sua voce è stata inascoltata dal governo e dal parlamento, risultando spesso sgradita anche alla stessa opposizione di centro-sinistra, o almeno alla parte più influente di essa (Margherita e maggioranza Ds). Per questo la Cgil è apparsa in questi quattro anni di dominio del Polo la sola reale forza di opposizione alla gragnuola di provvedimenti anti-operai scaraventati sulla testa dei lavoratori, dalla legge Biagi alla Bossi-Fini, dall’attacco all’art. 18 alle riforme Moratti, dal seguito di finanziarie taglia-spese sociali alle manovre taglia-pensioni. Ed anche sul versante del rifiuto della guerra all’Iraq la Cgil non ha fatto mancare la sua parola, per lo meno come presa di posizione ufficiale. Al suo interno è in particolare la FIOM che può vantare, e la vanta infatti anche attraverso i suoi emendamenti, qualche buona ragione per attribuire a sé il merito di una tale tenuta, ed insieme le sole singole iniziative di "controffensiva", dallo sciopero di Melfi ai pre-contratti. La Cgil ha resistito sulle sue postazioni, dunque. Anzi, affermano gli esponenti dell’area che fu di "Lavoro e società", ha perfino spostato il proprio asse a sinistra, sicché non è più il caso di andare al congresso con una mozione alternativa: meglio convergere su un documento unitario che assicuri maggior forza e compattezza al sindacato. Per dare insieme la spallata definitiva all’odiato cavaliere, e cominciare a raccogliere i primi frutti della difficile resistenza di questi anni.
Nei primi congressi ai quali abbiamo partecipato direttamente con i nostri compagni si è respirata questa aria. Perfino da parte di iscritti alla Cisl e alla Uil: è accaduto, ad esempio, alla Fincantieri di Marghera, con più di 700 operai (e impiegati) al congresso aziendale, che le tesi congressuali fossero votate anche dagli iscritti agli altri sindacati. In genere anche gli interventi critici sono stati ascoltati con interesse. Benché non si possa certo parlare di un’atmosfera di entusiasmo, e benché il quadro dei congressi di base sia disomogeneo, c’è però la sensazione e l’aspettativa abbastanza diffuse di essersi avvicinati all’uscita dal tunnel e di avere in una Cgil capace di rimorchiare di nuovo dietro di sé Cisl e Uil una guida adeguata alla bisogna, e nel governo Prodi alle viste un interlocutore più favorevole della banda Berlusconi. Si tratta di un’aspettativa comprensibile dopo tante batoste, in quanto esprime la volontà di essere in campo di tanti delegati e di tanti lavoratori, non soltanto della Cgil. Lungi da noi perciò, svilirne il significato propulsivo. E però per tenersi al riparo da sorprese sgradite, quanti la nutrono sono chiamati a guardar bene dentro la bisaccia dei propri referenti. Proviamo a farlo insieme, cominciando dalla politica della Cgil.
L’Italia al di sopra di tutto
Esaminare dei documenti congressuali per cogliervi il punto-chiave è sempre complicato. In questo caso lo è un po’ meno in quanto, come si legge sulla rivista dei Ds Gli argomenti umani (n. 9, 2005), il cuore della proposta della Cgil lo indica "lo stesso titolo del documento congressuale: riprogettare il paese". La Cgil "intende rivolgersi a tutto il paese, e si propone di attivare una collaborazione aperta con tutte le forze, anche imprenditoriali, che avvertono la stessa necessità di una svolta e di un rilancio delle nostre capacità produttive". Nel congresso sarà essenziale parlare "delle cose e non delle astrazioni", misurarsi "con la realtà" senza "accontentarsi di sventolare qualche bandiera", e porsi "dal punto di vista delle necessità complessive del paese, escludendo ogni chiusura corporativa" (p. 42). Il paese, dunque, la economia italiana va messa al di sopra di ogni interesse "particolare", corporativo per definizione, quindi anche al di sopra dei bisogni, delle necessità, dei diritti del lavoro salariato, che potranno avere spazio solo in subordine rispetto al rilancio delle capacità produttive della nazione.
Per la direzione della Cgil il richiamo all’Italia come stella polare della propria politica va di pari passo con quello all’Europa; il vero e proprio punto di riferimento di tutta la sua azione è, infatti, il "modello sociale europeo", capace in qualche modo di armonizzare gli interessi delle imprese con quelli dei lavoratori. Tale modello, si ammette nelle tesi, "oggi segna il passo anche in Europa, sotto i segni della congiuntura", ma è ben possibile, volendolo, rilanciarlo e valorizzarne le caratteristiche estendendolo anche al di fuori dell’Europa. È questa una prospettiva realistica o non costituisce piuttosto una ipotesi del tutto al di fuori della realtà, e per ragioni tutt’altro che congiunturali? La nostra convinzione è "la seconda che hai detto", e ci sembra abbia solide basi.
La crisi del "modello sociale europeo"
Infatti, l’epoca della ricostruzione dell’Europa e dei mercati assetati di merci, che è l’epoca entro la quale è nato, ha potuto nascere, il cosiddetto "modello sociale europeo", si è conclusa, e non da ieri. I mercati mondiali sono sempre più intasati e saturi, e le aziende sono alle prese con un complessivo eccesso di capacità produttiva. Rispetto al trentennio 1945-1975, la situazione si è rovesciata: sul mercato, e non a partire da quando Berlusconi è a palazzo Chigi, ma da molto tempo prima, non c’è più "posto per tutti". Anzi: c’è sempre meno spazio. Può affermarsi e sopravvivere solo chi riesce ad abbattere o a tenere bassi i costi di produzione e a praticare politiche aggressive sui prezzi: le risorse delle aziende e del "sistema paese" devono essere tutte concentrate su questo obiettivo. Il "modello sociale europeo" è saltato e sta saltando ovunque per questo "semplice" motivo: è troppo oneroso per il capitale, anche in quella Germania che resta la prima potenza economica dell’Europa e che per un lungo periodo è stata la sua roccaforte. L’attacco allo "stato sociale", alla contrattazione collettiva e a tutto quell’insieme di tutele che per decenni sono state più o meno garantite a vaste fasce di lavoratori costituisce una via obbligata per il capitalismo italiano ed europeo. Una via che è stata percorsa finora con un eccessivo ritardo rispetto ai tempi dettati dai mercati internazionali, e che proprio per questo potrà (e dovrà) registrare improvvise e brusche accelerazioni. E poiché il mercato urge con i suoi ferrei comandi, non ci sono calcoli elettorali che tengano. L’agenda 2010 di Schroeder, che ha messo il cancelliere tedesco in frizione con il suo stesso partito e con la Dgb e non gli è valsa certo una grande popolarità, è stata una di queste accelerazioni, e non si può considerare una scusa l’argomento-forte con cui egli l’ha sostenuta: "non ci sono alternative". Se non si afferma per davvero la "centralità del lavoro", delle vitali necessità, degli interessi di chi lavora, se si accetta che la priorità sia invece "il paese", la economia nazionale, è perfettamente vero: non ci sono alternative alla sequenza infinita dei sacrifici "necessari" per i lavoratori (a senso unico).
La direzione della Cgil ci propone di guardare con fiducia all’Europa. Ma per restare sul terreno delle "cose", come ci è stato prima raccomandato, qual è l’Europa reale che abbiamo di fronte? E’ quella della liberalizzazione dei licenziamenti, delle direttive enormemente peggiorative in materia di organizzazione e di orari di lavoro (la cui durata massima è portata a 65 ore la settimana), della tendenziale individualizzazione dei rapporti di lavoro, degli working poor, dell’innalzamento dell’età pensionistica e dell’abbassamento della copertura pensionistica, è quella della direttiva Bolkenstein sulla deregolamentazione dei servizi, delle leggi restrittive, selettive, repressive in materia di immigrazione. L’Europa dei Blair, dei Berlusconi, dei Sarkozy, delle Merkel. L’Europa dei capi confindustriali alla Bombassei che ci "chiede" di lavorare di più (dalle 150 alle 300 ore l’anno!) e di accettare salari inferiori per meglio competere con gli Stati Uniti e le nuove nazioni manifatturiere emergenti dell’Asia. Ora: quali margini di collaborazione possono mai esserci con questa Europa che si ispira, e non può fare niente altro se vuol arrestare il proprio declino, al "capitalismo selvaggio" statunitense? Siamo noi "sbandieratori" che non li vediamo, oppure sono davvero inesistenti? I volonterosi dirigenti sindacali della Cisl e della Uil ci hanno provato: con quali risultati? Per loro stessa ammissione, nulli. Ma, ci si può rispondere, è ben per questo che stiamo facendo di tutto per mandare a casa Berlusconi e per avere un governo di centro-sinistra che si muova lungo un diverso tracciato di politica economica e sociale. Ok, proviamo allora a vedere qual è il programma del governo che è previsto "in arrivo".
Il programma di Prodi
Questo programma pareva in via di perenne allestimento, ma più ci si avvicina alla fatidica primavera del 2006, più si diradano le nebbie intorno ad esso, meno c’è da stare allegri. Fassino ha rivelato che la legge Biagi, che ha implementato a dismisura la flessibilità, verrà solo emendata, non abrogata, come pure si era sentito dire. Forse, precisa Treu (nuovo ministro del lavoro?), toglieremo di mezzo, o regolamenteremo diversamente, il lavoro a chiamata e qualche altra cosina; il resto rimarrà, in nome della flexicurity, flessibilità più sicurezza del posto di lavoro, due termini, vedi Stati Uniti, antitetici. La direttiva Bolkenstein? E’ sbagliato criticarla, spiega Prodi: la competizione nei servizi è utile agli utenti (l’avesse detto Maroni, sarebbe stato neo-liberismo…). Le gabbie salariali? A Rutelli non piace il nome, screditato com’è dalle lotte operaie che le spazzarono via; sul contenuto, però, non ci piove: "è sacrosanto che ci sia una differenziazione" dei salari tra i differenti territori; e lo è pure il ‘ridimensionamento’ del contratto nazionale (musica per le orecchie di un Pezzotta, e soprattutto della Confindustria). Il deficit statale? Il centro-destra l’ha allargato, il centro-sinistra lo riporterà sotto controllo, assicura Visco (nuovo ministro del bilancio?): a spese di chi, se è esclusa finanche una differente tassazione delle rendite finanziarie? Anche la Bossi-Fini non sarà abrogata. Pure i Cpt resteranno aperti…
Prodi fotocopia di Berlusconi? Non è questa la nostra tesi. La nostra tesi è che una volta assunto a stella polare "il paese", una volta decretato che il lavoro è una variabile dipendente dell’economia nazionale, e cioè dell’economia capitalistica, dunque: del capitale, le possibilità di recuperi salariali e restituzioni di diritti su cui conta la massa dei lavoratori della Cgil si riducono, in un contesto internazionale qual è quello attuale, al lumicino; quale che sia il governo in carica e la sua volontà, posto che ci fosse, di voltare pagina. Del resto sia la conferenza programmatica della Margherita che quella dei Ds non si può dire che abbiano dato alimento alle attese di "recupero" dei lavoratori. Entrambe hanno sancito il riferimento al "modello danese", dando di fatto per esclusa la riedizione del vecchio "modello sociale europeo", non diciamo scandinavo, ma neppure germanico. Si tratta di ridurre ulteriormente le pretese, e "modello danese" significa, in concreto, una maggiore libertà di licenziamento per le imprese, ovvero un maggior rischio di licenziamento per i lavoratori. Vogliamo una Italia "più giusta", ha assicurato Bersani alla conferenza dei Ds, ma il contenuto reale di una simile rassicurazione è quanto mai impalpabile: "Non lacrime e sangue, ma rigore sì, spirito civico sì, fedeltà fiscale sì, sforzo collettivo e condiviso, reciprocità, concertazione" (L’Unità, 2 dicembre).
Insomma, se la classe lavoratrice vorrà cominciare a risalire la china su cui è stata costretta a scendere da due-tre decenni, farà bene a non contare sulla auspicata sponda del governo Prodi. Non si tratta di nostre deduzioni "estremistiche". Un sociologo di area ulivista, Aldo Bonomi, ha commentato così, il giorno dopo l’ultimo sciopero generale anti-Berluska, l’indirizzo politico dei Ds (e, diremmo, di tutta la coalizione): "Ho molto apprezzato l’invito di Piero Fassino ad ‘amare l’Italia’: è uno slogan che non promette reddito [c. n.], ma ridà senso alla nostra presenza, ridà un futuro" (L’Unità, 26 novembre).
Pace? oppure guerra?
Amare l’Italia, propongono i Ds. Amare l’Europa, aggiunge e ingiunge l’inquilino del Quirinale, che non ci lascia un solo istante liberi da questa parola "magica". Se non promettono reddito, cosa portano con sé questi "amori"? Ci portano senso, futuro. Quale senso? quale futuro? Un futuro di pace, di ripudio della guerra (anche correggendo su questo la Costituzione europea), rispondono le tesi della Cgil. Un’Europa "sociale e diversa", infatti, potrebbe agire da contrappeso moderatore rispetto alla politica statunitense, potrebbe e dovrebbe dialogare con i paesi del Sud del mondo prospettando ad essi un nuovo ordine mondiale "multipolare", più equilibrato e giusto. Una Europa più forte, pacifica, pacifista sarebbe in grado di allontanare da noi le minacciose nubi di guerra comparse a Londra e a Madrid. Anche ammettendo che ci sia piuttosto poco da aspettarsi sul piano materiale, però che almeno si rimanga fuori dalle guerre!
Questo bisogno è ben presente tra i lavoratori, e tra i lavoratori della Cgil in particolare, e quel che la Confederazione ha detto e, in piccolissima parte, fatto a proposito della guerra in Iraq ha di sicuro confermato la percezione di un sindacato votato ad una politica di pace, interlocutore di un governo a venire collocato anch’esso dalla medesima parte. È davvero così? Non esattamente.
Partiamo dal futuribile governo Prodi, e da Rutelli che con molto anticipo ne ha tracciato le linee guida in fatto di politica estera (D’Alema e il suo giornale Il riformista hanno poi gareggiato con Rutelli e Europa, il quotidiano della Margherita, in spirito bellicista). Eccole nell’intervista a la Repubblica, 25 maggio 2004: "Quando affermo che ci vuole una discontinuità, una cesura rispetto all’unilateralismo della amministrazione Bush, intendo dire che dobbiamo costruire un nuovo Occidente democratico. Che rifugga dall’uso solitario della forza, che privilegi il ‘potere morbido’, la cooperazione in luogo dell’egemonia unilaterale; ma consapevole che a questo fine la forza militare, lo hard power [ossia il potere di deterrenza], è indispensabile. L’Europa, oggi, questo potere non ce l’ha. Lo deve costruire e l’approvazione della costituzione [nella quale non è stato incluso il ridicolo ‘rifiuto della guerra’ scritto nella costituzione italiana –n.] è il primo passo. Finora la debolezza dell’Europa è stata una delle ragioni dell’America, che ha avuto buon gioco a dire: voi spendete per le pensioni e noi per la difesa. Vi permettete un bel modello sociale perché a proteggervi ci pensiamo noi. Un’Europa che vuol vedere affermati i propri valori e principi, che si considera difensore di un certo ordine morale, che vuole imporre il rispetto della legge internazionale [dei propri interessi in nome del diritto internazionale che protegge sempre gli stati più predatori –n.] deve assumersi le proprie responsabilità e l’onere che comporta la creazione di un suo hard power in alleanza con gli Stati Uniti. Deve superare le proprie divisioni, dotarsi di istituzioni efficienti, capaci di esprimere una politica estera. E poi [eccoci!] creare proprie forze armate", da usare alla bisogna, per ora su richiesta dell’Onu o anche "su nostra richiesta all’Onu", in seguito si vedrà.
I principi dell’Europa cui Rutelli si riferisce possono essere ridotti ad unum: l’aver diritto, come Europa, a partecipare alla "equa" spartizione del bottino neo-coloniale, di pace e di guerra, che non può andare, non è "morale" che vada tutto e solo a Washington (come è avvenuto per le guerre all’Iraq, ed è questa la reale ragione del dissenso ulivista verso l’amministrazione Bush), perché altrimenti i nostri "valori"… in Borsa se ne vanno a picco. Ma perché questa "equa spartizione" possa darsi, bisogna che l’Europa cessi di sperperare i suoi soldi in pensioni, e investa in eserciti. Con ciò chi volesse saperne un pochino di più sui progetti (solo rutelliani?) in materia di "modello sociale europeo", è servito. Ma avrebbero di che riflettere anche quanti prendono per buone le rassicurazioni "pacifiste" provenienti dal centro-sinistra che, peraltro, sono sempre più blande. Prodi ha fatto sapere in anticipo che le truppe italiane resteranno sia in Afghanistan che nei Balcani, ha manifestato l’intenzione di mantenere una loro presenza di tipo "umanitario" o "per la ricostruzione" a Baghdad (sarebbe il caso di chiedere ai serbi cosa significa tutto ciò); e nella vicenda iraniana se non lui, i suoi più stretti alleati hanno superato in oltranzismo perfino settori del Polo. Del resto è tutta questa Europa che gronda di una rivoltante retorica "di pace" ad essere sulla prima linea dell’aggressione al mondo arabo-islamico, sul fronte esterno e su quello interno; che fa massacri (per via diretta) in Costa d’Avorio e (per via indiretta) in Congo; che manda (il mitico Zapatero) la polizia e tiene in Marocco la legione straniera a sparare sugli immigrati; che affonda e lascia affondare "tranquillamente" decine di navi e imbarcazioni di immigrati nel Mediterraneo… E del resto, la sola possibilità che hanno gli stati capitalistici d’Europa di poter tornare a distribuire qualcosa in solido anche ai "propri" lavoratori sta nell’incrementare il saccheggio e lo sfruttamento dei popoli del Sud del mondo.
Se sono queste, e non ne conosciamo altre, l’Italia e l’Europa realmente esistenti, come possono i lavoratori prenderle a riferimento? E che senso hanno, allora, le proclamazioni "pacifiste" ed europeiste della dirigenza Cgil? Forse è il caso di ricordare come ai tempi del governo D’Alema, la Cgil non esitò a schierarsi dietro la foglia di fico della "contingente necessità" a favore dei bombardamenti devastanti sulla ex-Jugoslavia, bombardamenti che colpirono in particolare (fu un caso?) le sue grandi fabbriche e lasciarono senza lavoro da un giorno all’altro decine di migliaia di operai. Umanitarismo a favore dei kosovari? Chi può credere ancora ad una simile menzogna? Si trattò di appoggio alle imprese italiane, allo stato e all’esercito italiani nell’opera di distruzione e di diretta manomissione di questo paese per creare e conquistare nuovi spazi di mercato e nuovi lavoratori di riserva. Bisogna che i lavoratori ne siano consapevoli, e siano consapevoli del fatto che quella "contingente necessità" ci verrà di continuo riproposta: perché essere per "la ricostruzione e la rinascita dell’Italia", essere per un ruolo decisivo dell’Europa sulla scena internazionale in competizione con gli Stati Uniti e l’Asia, significa oggi necessariamente mettere in conto la guerra contro altri popoli, contro altri proletari.
Ad onta delle sue dichiarazioni formali a favore della "pace", il vertice della Cgil di questa non contingente necessità intende farsi carico. Quale altro significato ha la partecipazione di dirigenti della Cgil (e della Cisl e della Uil) alla dimostrazione (di chiaro contenuto pre-bellico) di inizio novembre a Milano per Israele e contro l’Iran? e che dire della manifestazione dei mesi scorsi a Bruxelles in cui Filtea-Cgil e tessili della Cisl, d’accordo con gli imprenditori del settore, hanno chiesto l’avvio di una vera e propria guerra commerciale con la Cina? Potrà sembrare strano ed "incredibile", specie a quanti sono convinti che negli ultimi anni la Cgil abbia svoltato a sinistra, ma quello che bolle in pentola sotto una superficie ancora tranquilla è un ulteriore passo della Confederazione di Epifani verso un maggiore e più aggressivo accorpamento agli "interessi nazionali". Ed il rischio molto concreto è che, invece di uscire dal lunghissimo tunnel dei sacrifici, ci infiliamo in quello ancor più pericoloso delle guerre commerciali e delle guerre guerreggiate contro altri proletariati e altri sfruttati.
La vera svolta che ci vuole!
Questo circa le prospettive. Ma va detto qualcosa anche in retrospettiva. Ed è che negli scorsi anni l’accettazione da parte della Cgil del primato degli interessi dell’Italia e dell’Europa su quelli della classe proletaria ha provocato uno svuotamento dall’interno delle stesse lotte che i lavoratori hanno condotto sotto la guida e, talvolta, l’incitamento attivo della stessa Cgil. Perché se è vero che la Cgil ha organizzato la protesta contro il governo Berlusconi e la Confindustria, essa però, anche nel momento in cui disponeva della massima forza (marzo 2002), si è guardata dallo spingere il confronto fino in fondo, fino alla caduta in piazza, e sarebbe stato possibile, del governo di destra. Negli anni successivi, poi, non ha mai provveduto, come avrebbe certo potuto, ad unificare le lotte contrattuali; e la stessa "battaglia" contro la legge 30 si è risolta in uno sciopero "di bandiera" di due misere ore, mentre in quasi tutti i contratti di categoria (da quello pessimo dei tessili a quello "garantista" dei bancari) se ne sono recepite in qualche modo le direttive. La medesima cosa vale per quel che concerne il federalismo. La Cgil ha sempre avuto un atteggiamento non favorevole al federalismo bossiano. Ebbene, il governo Berlusconi lo ha tramutato in legge senza che questo colpo secco inferto alla trama unitaria del proletariato ricevesse alcuna reazione di contrasto.
Gratuiti "regali" al cavaliere? No, e neppure semplici regali al futuribile governo "amico" affinché non salga in sella con una piazza calda e capace di dettargli alcune condizioni. Ovvero, l’una e l’altra cosa, ma entrambe le cose per una ragione di fondo che va al di là di esse: la subordinazione dei bisogni del lavoro salariato a quelli della nazione e del mercato, alle leggi della concorrenza capitalistica, che ha tolto efficacia anche alle mobilitazioni più riuscite. Questo bilancio non può e non deve essere evitato, come non può e non deve essere evitato il bilancio, deficitario, dei rapporti con i governi dell’Ulivo degli anni ’90, anch’essi contrassegnati da subalternità.
Noi siamo convinti, invece, che è proprio questa subordinazione che va messa in discussione e spezzata. Se è vero, e lo è, che la concorrenza asiatica, la presenza di una crescente manodopera immigrata praticamente senza diritti o con diritti limitati, le minacce e i rischi di delocalizzazione, oltre che la competizione con i pesi massimi del mercato mondiale, pesano come macigni su sempre più vasti settori operai, questa arma di ricatto dev’essere strappata dalle mani dei padroni proiettandoci verso gli operai spinti alla concorrenza con noi, battendoci insieme a loro per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nostre e loro, qui e in "quei" paesi e in "quelle" aziende di cui spesso sono proprietari gli stessi imprenditori di "casa nostra". È questa la svolta che ci vuole! È questa la sola rinascita, la rinascita di autonomia e indipendenza di classe, che ci interessa. Quante imprese ci siamo svenati per salvare, salvo restare prima o poi appiedati da loro stesse? Concentriamoci sulla sola "impresa" che possa essere realmente nostra: la nostra organizzazione di classe. Come?
Cominciamo, ad esempio, a imporre in prima persona nelle Camere del lavoro (o, se non vi si può, anche al di fuori di esse) dei comuni, veri organismi di lotta con i lavoratori immigrati, nei quali si assuma con coerenza la rivendicazione della pienezza dei diritti per loro. Organizziamo ove sia possibile coordinamenti di gruppo nelle multinazionali, di settore, etc., che vadano oltre i confini nazionali; facciamo in modo che tali organismi si riuniscano e discutano per davvero e si pongano l’obiettivo di azioni comuni di lotta.
Contrastiamo attivamente tutto ciò che va nel senso dell’erosione del tessuto unitario della classe lavoratrice (precarizzazione, federalismo, etc.), e affermiamo la necessità di tessere dei fili sempre più stretti tra "vecchio" e nuovo proletariato, per poter dare così concretezza alle attese di un "recupero" salariale e di un miglioramento delle condizioni proletarie, che resteranno dei sogni se continueremo a subìre le politiche padronali e governative di divisione e stratificazione del mondo del lavoro.
Iniziamo a porre in tutte le istanze la necessità di prendere le distanze e di contrastare l’intera politica estera del nostro stato e dei nostri governi, che con gli strumenti "puliti" dell’economia e con quelli bellici contribuisce a comprimere le condizioni di esistenza dei lavoratori in tre quarti del globo. Facciamo vivere anche nel congresso della Cgil la spinta ad un rilancio del movimento contro la guerra all’Iraq, all’Afghanistan e quella in preparazione all’Iran.
Non mettiamoci in attesa passiva del futuribile governo di centro-sinistra, non deleghiamogli il soddisfacimento delle nostre aspettative: anzi, "presentiamogli" da subito il nostro programma, la tavola delle nostre necessità da troppo compresse, prima che sia esso a presentarci una volta ancora un altro enorme buco capitalistico da "risanare"…
È su questa linea che i militanti dell’Oci sono impegnati nei dibattiti congressuali. Svolgeremo una critica a tutto tondo all’intera impostazione delle tesi di maggioranza, ed ai presupposti su cui esse si fondano, ma non appoggeremo, neanche in modo tattico, alcuna tesi alternativa. Non si può condurre una efficace battaglia accettando di fatto, quand’anche in modo solo parziale, l’indirizzo politico delineato da Epifani e, soprattutto, la prospettiva che gli sta a monte. Non mettiamo affatto i vari "protagonisti" e le varie tendenze indiscriminatamente in un sol fascio. Ma dinanzi al rischio concreto di una battaglia piuttosto tiepida e di soli emendamenti ad un’impostazione che invece è da respingere globalmente, è a nostro avviso indispensabile dare un segnale netto. È quanto tenteremo di fare con le nostre, non certo straripanti ma determinate, forze. Ed è in questo spirito che invitiamo i lavoratori e i delegati più attenti e combattivi a prendere parte attiva alle diverse fasi congressuali della Cgil, a spingere e adoperarsi affinché si facciano assemblee e riunioni vive e partecipate, a non sottrarsi ad alcun livello del dibattito politico poiché la riconquista del programma di classe, di una politica di classe, di un sindacato di classe non è "affare" di pochi eletti, ma richiede il più ampio coinvolgimento dei lavoratori "comuni".