Questo giornale ha sempre avuto un’attenzione particolare a quello che avviene negli Stati Uniti, e non solo perché l’imperialismo statunitense è il pilastro fondamentale di tutto l’ordine mondiale capitalistico, bensì anche per l’opposta ragione. E cioè perché negli Stati Uniti, pure se moltissimi a "sinistra" lo dimenticano, c’è anche una grande massa di proletari, una classe proletaria, la cui collocazione politica è di una enorme importanza per la lotta di classe alla scala internazionale. Non ci siamo mai nascosti il profondo livello di "identificazione" (ideale) con la "propria" nazione raggiunto da essa in particolare nel secondo dopoguerra in conseguenza del dominio monopolistico sul mondo dello stato a stellestrisce; ma proprio per questo siamo stati sempre di vedetta, e restiamo di vedetta, per quello che ci è dato, per scrutare attentamente i segni, contraddittorî e flebili quanto si vuole, del suo risveglio, aggiornando di continuo la nostra analisi.
Cos’è successo di significativo negli ultimi mesi? Tre fatti (o avvenimenti): la scissione sindacale nell’Afl-Cio e il dibattito svoltosi nel congresso di questo sindacato, in luglio; la mobilitazione dei proletari neri di New Orleans dopo l’allagamento della città e la raccolta di aiuti per essi -senza passare per le agenzie statali- compiuta da alcuni settori del sindacato e del movimento no war; la manifestazione del 24 settembre a Washington per il ritiro "senza se e senza ma" delle truppe dall’Iraq. In tutti e tre i casi si è impattato, in particolare, con una questione cruciale, la questione della politica estera degli Stati Uniti, e proprio su questo terreno si è verificata una primissima occasione di intreccio tra i tre piani della mobilitazione, sindacale, "razziale" e anti-bellica.
Alcuni, molto ristretti, nuclei proletari cominciano a percepire un cambiamento strutturale che sta investendo il capitalismo statunitense: da volano per la tenuta economica del paese, da collante per la tutela degli interessi di tutte le classi sociali (ciascuna, ovviamente, al suo posto "specifico"), la politica estera degli Stati Uniti e il suo militarismo si stanno trasformando in qualcos’altro. Lo ha mostrato Katrina, con lo storno delle risorse del paese dalla tutela del territorio e dal soccorso della gente alla guerra all’Iraq. Lo sta mostrando lo sviluppo di una prima linea di frattura tra i proletari in divisa degli Stati Uniti tra i quali si sta facendo strada la scoperta che "il governo e i generali degli Stati Uniti vogliono bene ai loro soldati come un allevatore alle galline". Lo stanno iniziando a scoprire gli operai degli Stati Uniti, come risulta dalla mozione votata al congresso di luglio dell’Afl-Cio, nel quale, per la prima volta in un sindacato da sempre aperto sostenitore del proprio imperialismo (v. scheda pagina successiva), è stato votato a stragrande maggioranza il "rapido ritiro" delle truppe dall’Iraq: "una presenza militare senza termine in Iraq sperpera vite e risorse, mina la nostra sicurezza [ricordate il "Perché ci odiano tanto?", n.] e indebolisce i nostri militari".
Il sentimento che comincia a farsi strada, pur soltanto in settori ancora molto ristretti del proletariato, è stato ben espresso dal palco della manifestazione del 24 settembre da Cindy Sheenan: "I terribili eventi avvenuti a New Orleans sono un memento di quanto siano rovesciate le priorità della nostra nazione. Risorse che avrebbero dovuto essere usate per salvare vite umane sono invece bloccate in una guerra che continua ad uccidere iracheni e statunitensi. La nostra nazione è a un bivio: continueremo a gettare risorse in una guerra che non avremmo mai dovuto iniziare oppure ci impegneremo nella ricostruzione" delle "nostre comunità ammorbate dai problemi del lavoro e del razzismo? È chiaro che non si possono fare le due cose contemporaneamente." La vitalità e l’energia di questo sentimento non ci fanno tuttavia sottacere che esso, per tradursi in un movimento di lotta di massa in grado di "rovesciare le priorità", è chiamato a sbarazzarsi di una serie di lacci che lo imbrigliano dal suo stesso interno. Ne discutiamo nella nota sul movimento no war negli States. E ne parliamo qui in relazione al congresso dell’Afl-Cio.
Pochi giorni prima di questo congresso, un cospicuo settore dell’Afl-Cio ha dato vita ad una scissione. Come ricordiamo nella scheda, le direzioni delle federazioni che hanno operato la scissione, hanno accusato Sweeney di aver abbandonato il programma che lo aveva portato alla direzione dell’Afl-Cio (la sindacalizzazione dei lavoratori -immigrati e autoctoni- dei settori walmartizzati del mondo del lavoro) e di aver dirottato i fondi da riservare a questa campagna nelle casse di un partito, quello democratico, sempre più allineato al programma del partito repubblicano e del Big Business. Questa denuncia è molto sentita dalla base proletaria, sempre più ristretta, dell’Afl-Cio. Ma cosa propone in alternativa alla politica di Sweeney la nuova coalizione sindacale Change to win (Cambiare per vincere)? Fondamentalmente, un’altra versione del medesimo indirizzo di Sweeney. Il sogno di poter arginare l’attacco alla classe operaia Usa e di poter ricomporre le sue fila frantumate dalla concorrenza tra lavoratori, attraverso il ritorno ad un’iniziativa puramente sindacale, libera dai "condizionamenti della politica" e, in forza di ciò, ritenuta in grado di mettere in campo vertenze dure a livello aziendale o settoriale.
Che ci sia bisogno di organizzare vere lotte di resistenza e che esse abbiano bisogno di oltrepassare i livelli aziendali e di coinvolgere la massa dei lavoratori non sindacalizzati, spesso non bianchi, questo è indubbio. Come è altrettanto indubbio che un’iniziativa di questo tipo richieda la fine dell’accodamento paralizzante al partito democratico. Ma l’alternativa non può essere l’apoliticismo (che poi, come dimostra anche la storia dell’Afl-Cio, riflette e rafforza proprio l’accodamento passivizzante o al partito democratico o a quello repubblicano), bensì l’affermazione anche dentro l’iniziativa sindacale di una nuova politica, che prenda atto che il "sogno americano", la difesa o il miglioramento delle condizioni di esistenza della classe proletaria parallelamente all’ascesa del dominio Usa sul mondo, è definitivamente morto.
Quando Cindy Sheenan afferma che "non si possono fare le due cose contemporaneamente", mette il dito su questo punto cruciale. A differenza di quanto è avvenuto nel secolo scorso, la difesa della competitività delle imprese e del capitalismo statunitensi non può più andare a braccetto con una data tutela della forza-lavoro. Essa richiede proprio ciò a cui alcuni settori proletari cominciano ad opporsi: la estensione della precarietà, i licenziamenti di massa (v. vertenza General Motors), le insufficienti spese per la salvaguardia dell’ambiente, l’invio delle forze armate a New Orleans per sparare contro la popolazione afro-americana che cerca di auto-organizzarsi per sopravvivere, le vite umane immolate sull’altare della "guerra infinita", l’odio della gran parte dei lavoratori del resto del mondo... L’iniziativa sindacale negli Usa, l’opposizione alla politica della Casa bianca hanno bisogno non di meno politica, ma di un’altra politica, di una politica di classe autonoma dagli interessi del capitalismo statunitense, dalle sue esigenze economiche e militari, interne e internazionali.
È quello che insegna anche la storia del movimento sindacale negli Stati Uniti. I grandi balzi in avanti dell’organizzazione proletaria di difesa immediata, l’estensione di essa tra le fila dei non-organizzati, la ricucitura (almeno embrionale) delle contrapposizioni secondo linee nazionali razziali e sessuali, la capacità di ridurre (su queste basi) la concorrenza tra lavoratori, sono potuti avvenire solo quando ed in quanto (pensiamo alla storia degli IWW all’inizio del ventesimo secolo) abbiano trovato un ingrediente vitale nell’azione di un’avanguardia proletaria organizzata attorno a un programma classista, in grado di proiettare la lotta di classe portata avanti giorno per giorno sullo schermo di un nuovo ordine sociale senza più sfruttati e sfruttatori.
L’altro macigno sul cammino del movimento sindacale degli Usa è il rapporto con i lavoratori del Sud e dell’Est del mondo e con le loro lotte. Su questo punto decisivo siamo ancora lontani, molto lontani, dai giusti orientamenti di classe. Nella stessa mozione votata al congresso dell’Afl-Cio per il ritiro delle truppe, ad esempio, si prendono le distanze dalla resistenza irachena e si chiede alla "comunità internazionale" di aiutare il nuovo governo di Baghdad "democraticamente eletto" (?!) a dotarsi delle forze di sicurezza per restaurare l’ordine nel paese. Ma così facendo non si comprende che quella resistenza sta difendendo il proprio paese da una Katrina (artificiale) originata proprio dal governo degli Stati Uniti, sta difendendo i presupposti minimi di un’esistenza degna di essere vissuta. Perché non dovrebbe farlo? perché difendersi a New Orleans o a Los Angeles è giusto e a Baghdad o a Ramadi non lo sarebbe? perché quei poliziotti che risultano odiosi nella loro caccia ai neri, in quanto agenti dell’ordine spietato delle classi profittatrici, dovrebbero poi essere i salvatori dal disordine a Baghdad? Chi comanda a Baghdad? Non sono forse gli stessi poteri che governano gli Stati Uniti? E come si fa a non vedere che quel "governo democraticamente eletto" (in elezioni-farsa) è parte, ultra-subordinata, della gerarchia di dominio della Casa Bianca e di Wall Street sugli stessi lavoratori degli Stati Uniti e su quelli del mondo intero? Se vuole essere vincente, l’iniziativa sindacale e politica per imporre l’"inversione delle priorità del paese" negli Stati Uniti non solo non deve de-solidarizzarsi dalla resistenza irachena, ma deve sforzarsi di stabilire un fronte comune di lotta con i combattenti e il popolo dell’Iraq. Ad imporlo è la struttura combinata e diseguale dell’imperialismo. Per quanto tempo e fatica ci possa volere, è di qui che bisogna passare. Sia per i delegati e i lavoratori che sono rimasti nell’Afl-Cio e sia per quelli che hanno aderito a Ctw. I problemi da affrontare per gli uni e per gli altri sono gli stessi e vanno affrontati insieme mantenendo e rafforzando i livelli esistenti di unità nell’iniziativa di base tra i lavoratori dell’una e dell’altra centrale sindacale.