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Dossier Cina

Il "compromesso maoista" e quello denghista

In Cina la classe operaia diede, con le insurrezioni di Shanghai e di Canton, il "la" alla rivoluzione, ma rimase in seguito sostanzialmente fuori dalla guerra civile e dalla guerra anti-giapponese, sia perché entrambe queste guerre si svolsero lontano dalle poche città industrializzate, sia perché né il Partito comunista cinese né l’Internazionale stalinista fecero dei reali sforzi per ottenerne il coinvolgimento, dopo gli sciagurati esiti della politica del "fronte unito" perseguita tra il 1923 e il 1927. Tra il 1926 e il 1930 il Pcc cambiò completamente la propria composizione: se nel 1926 i proletari erano il 66% dei membri del partito, alla fine del 1930 erano precipitati all’1,6%, mentre il partito si riempiva di contadini. Del resto, nel 1940, lo stesso Mao riconosceva che "la rivoluzione cinese è sostanzialmente una rivoluzione contadina". L’esile classe operaia del tempo guardò certo con simpatia lo sviluppo della rivoluzione nazionale, senza però parteciparvi ed anzi invitata, per così dire, a non muoversi dagli stessi capi dell’Esercito popolare di liberazione, i quali, peraltro, non mossero un solo dito quando – alla metà degli anni ’30 – scoppiarono delle agitazioni operaie nelle città costiere.

Dopo il 1949 tuttavia, consapevole che l’edificazione di una Cina moderna (di "nuova democrazia") passava attraverso la massima mobilitazione del lavoro vivo ed in particolare del lavoro operaio, il Pcc si volse con particolare attenzione alla classe operaia e la "promosse", sul piano meramente propagandistico, a classe-guida della nuova Cina popolare. Questa "investitura" si tradusse in una enorme spinta istituzionale sulla classe operaia (che per certi versi fu anche un’auto-spinta) a lavorare duro. Lavorare duro per raggiungere a forza di braccia, di volontà, di spirito d’iniziativa, di puro e semplice sovra-lavoro i risultati che non potevano essere conseguiti con una tecnologia d’avanguardia di cui la Cina era, a quel tempo, totalmente sprovvista. Questa etica del sacrificio, di estrema dedizione al lavoro, alla produzione, all’azienda, alla nazione, indispensabile per lo sviluppo dell’accumulazione originaria della Cina, aveva come sua contropartita materiale una dinamica salariale abbastanza viva, legata, attraverso il cottimo, ai risultati produttivi in crescita, nonché la completa presa in carico da parte dello stato, dell’industria di stato in primo luogo, delle prestazioni di welfare. Fino agli anni ‘70 gli operai delle industrie di stato hanno ricevuto sia salari superiori, tanto per dire, a quelli dei docenti universitari, sia garanzie accessorie (sanità, istruzione, casa, etc.) esclusive. È in questo il contenuto concreto e percepibile del "compromesso maoista".

Ma esso aveva anche una contropartita per dir così ideale, rappresentata dalla "attenzione", se non altro formale, prestata dai vertici del partito e dello stato nei confronti dei desiderata operai, specie se a contenuto immateriale ed "anti-burocratico". Certo, si può concordare con R. Lew nel rilevare che "il maoismo (...) ha coscientemente, metodicamente e fin dal principio frammentato il mondo sociale, e in particolare la sua componente operaia" (1), spingendolo a concentrarsi (ed atomizzarsi) sulle Dan Wei, le singole unità di produzione. Non possiamo, però, concordare con lui quando, come la quasi totalità degli analisti della Cina, dimentica le reazioni operaie a questa loro forzata aziendalizzazione, e dimentica altresì le risposte che i capi del "potere popolare", del Pcc anzitutto, furono costretti a dare a queste reazioni. In un modo quanto si vuole confuso e parziale, ma altrettanto reale e combattivo, la parte più avvertita della classe operaia cinese oppose ai proprii governanti – già nel 1956-‘57 e poi nella infuocata temperie della "rivoluzione culturale" – che tutto erano gli operai salvo che, come si affermava nelle giaculatorie ufficiali, "i padroni delle fabbriche" o, meno ancora, "i padroni del paese". La condizione realmente esistente all’interno delle fabbriche nel primo ventennio dell’"edificazione del socialismo" fu sintetizzata in modo tagliente dagli operai dell’Acciaieria n. 5 di Shanghai: "Il direttore era il padrone... L’ingegnere dettava legge, il settore amministrativo e quello esecutivo applicavano, gli operai obbedivano". Questi rilievi contenevano qualcosa in più della contestazione del primato assoluto dei tecnici, rispecchiante la generale superiorità, confuciana ed al contempo capitalistica, del lavoro intellettuale su quello manuale; qualcosa in più della denuncia dei rigidi regolamenti disciplinari (la "frusta d’acciaio") e dell’uso asfissiante del cottimo per imporre la massima intensità alla prestazione lavorativa (la "frusta d’oro"). Essi facevano emergere come, alla fin fine, non vi fosse "troppa differenza – se non esortativa-verbale – fra la condizione dei lavoratori nelle società capitalistiche e in quelle socialiste": in entrambi i casi, infatti, la classe operaia era chiamata a sacrificarsi per le "leggi oggettive" della produzione e dello sviluppo (ossia: del mercato), a disciplinarsi ad esse come cosa, oggetto, merce (2).

La reazione delle autorità maoiste non si limitò alla repressione delle punte più avanzate della protesta, che ci fu e fu dura (3). Si estrinsecò anche in una campagna di "critica ed autocritica" di dati metodi burocratici e mise capo, con Mao, alla elaborazione della Carta di Anshan (marzo 1960), che esortava i quadri direttivi delle imprese a partecipare al lavoro produttivo, a lasciar partecipare gli operai alla direzione delle imprese, a instaurare una "stretta cooperazione tra operai, quadri e tecnici", mediata dal ruolo rafforzato della "direzione del Partito". Ad attuare, insomma, una sorta di co-gestione delle imprese. Non era certo l’affermazione del principio dell’"autogestione operaia" delle fabbriche, né tanto meno della pianificazione e amministrazione dell’intera produzione sociale secondo criteri di classe, ma agli operai suonava come un passo in questa direzione ed allo stesso tempo come una legittimazione della loro mobilitazione "anti-burocratica".

Fino a che punto poteva restare in piedi questa combinazione tra repressione e concessioni? I margini reali di praticabilità del "compromesso maoista" si vennero chiudendo proprio nel corso della "rivoluzione culturale" dinanzi alla proclamazione della "Comune di Shanghai", che di essa fu l’episodio più rilevante. Lì la "rivoluzione di gennaio" (1967) portò alla luce il profondo scontento degli operai più combattivi verso le autorità della municipalità, la direzione delle fabbriche e il sindacato ufficiale. Le rivendicazioni espresse erano, nell’insieme, "limitate alla loro [degli operai] peculiare condizione", in quanto concernevano la giornata lavorativa, l’aumento dei salari, il regime dei ritmi, il sistema dei premi, le differenze zonali, la condizione del "personale temporaneo" (i lavoratori provenienti dalle campagne e assunti nelle fabbriche con contratti stagionali) (4), la costruzione di case popolari. Ma la calorosa adesione a queste rivendicazioni da parte di centinaia di migliaia di lavoratori e la resistenza al loro accoglimento di una parte almeno delle autorità, tanto locali che centrali, spinse i "ribelli rivoluzionari operai" a "prendere il potere" e a proclamare (dinanzi a un milione di dimostranti) la fondazione della Comune. Una autentica rivoluzione, la giudica Karol, "singolarmente segnata dalla mancanza di un qualsiasi stato maggiore", destinata ad affondare in breve, perciò, come in realtà accadde. Davanti a questo montante radicalismo operaio a Mao non fu più possibile trovare un punto di equilibrio "intermedio" tra gli interessi antagonistici in campo; non gli fu più possibile "dividersi in due", dando ragione agli uni (gli operai in rivolta) e agli altri (i burocrati del partito-stato, i manager delle imprese, i generali inquieti per il grande disordine sociale: la borghesia cinese insomma, sempre più consapevole di sé e desiderosa di ordine e produzione ad incrementi esponenziali). Anche Mao, che molti ribelli consideravano il "capo di stato maggiore" della propria lotta in quanto aveva dato il via alla "sollevazione contro il quartier generale borghese", convenne, deludendo i suoi generosi, ingenui "seguaci", che bisognava bloccare il cammino del proletariato, sciogliere la Comune di Shanghai, impedire nuove "prese del potere" anche solo locali e simboliche da parte della classe operaia, riportare un ordine "ragionevole" in tutto il paese, e cioè riportare la classe operaia al suo posto di classe subordinata del capitale, obbligata, tra l’altro, a restituire le armi di cui si era appropriata.

Rivelatrice risulta una delle ragioni principali da lui addotte: il quadro politico internazionale, che sarebbe stato, disse, fortemente restìo ad accettare la trasformazione della Cina da Repubblica popolare cinese a Comune popolare cinese (5). Da tale quadro, in ispecie dalla forza del movimento anti-coloniale dei popoli di colore (il popolo vietnamita in testa) e dal risveglio del proletariato e dei giovani dell’Occidente, si potevano trarre, al contrario, auspici ed energie per una decantazione ed organizzazione autonoma delle forze di classe in Cina, per una loro offensiva, ma è esattamente ciò che non seppero fare le formazioni politiche dei proletari più radicali, in quanto prive dell’arma di un marxismo non adulterato e "chiuse" nel pur immenso ridotto cinese. Ed è ciò che non potevano e non volevano fare Mao e i suoi, protesi com’erano a rafforzare i legami della Cina con il mercato e l’ordine capitalistico internazionale, con il quale la Cina aveva già iniziato a teorizzare e praticare la "coesistenza pacifica", preparandosi a stabilire buone relazioni commerciali e politiche con gli Usa ed a fare il suo ingresso all’ONU dopo 22 anni di involontaria anticamera. L’ulteriore crescita della Cina aveva un bisogno vitale del pieno accesso al mercato mondiale, tanto quanto i poteri costituiti in esso dominanti abbisognavano del contributo cinese per stabilizzare il mondo in subbuglio.

L’archiviazione formale del "compromesso maoista" avvenne verso la fine degli anni ’70, una fase di universale revanche capitalistica, con il varo della riforma denghista. Come abbiamo spiegato nel n. 17 del Che fare, la riforma denghista diede "più compiutamente (semi)libero corso alle leggi del mercato, rispondendo ad esse coerentemente come stato (il famoso ‘comitato d’affari’ del sistema borghese preso nella sua unitarietà)". Prima nelle campagne, con lo smantellamento delle Comuni ed il ruolo di unità di base della produzione attribuito alla singola famiglia contadina, poi nelle città, con la decisione di ampliare a dismisura il potere decisionale delle singole imprese e quello dei manager e dei tecnici dentro le imprese, Deng&C. diedero il via libera delle istituzioni statali all’"applicazione puntuale della legge del valore" (6), ovverosia alla legge del profitto. Questa ulteriore apertura alla dittatura del mercato avvenne, ovviamente, anche nelle relazioni internazionali con la creazione di un numero crescente di "zone speciali" nelle quali veniva assicurato ai capitali internazionali in cerca di rapida valorizzazione il massimo mondiale delle condizioni favorevoli al loro accrescimento. Scontato, in questo quadro, che il proletariato industriale dovesse essere ricondotto brutalmente "a cuccia", privato sul piano formale anche del diritto di sciopero (soppresso dalla Costituzione nel 1982) in quanto, parola di Deng, "l’epoca delle mobilitazioni di massa è finita".

È definitivamente scomparsa, con ciò, ogni possibilità di "compromesso" tra la borghesia "rossa" al potere e la classe operaia? saremmo con Deng al fascismo, al liberalismo integrale o – addirittura – al neo-feudalesimo, come da superficialissime critiche "di sinistra" di maoisti a tempo scaduto? Noi crediamo di no. A dirlo sono anzitutto i risultati materiali della politica denghista. In vent’anni il PIL della Cina è cresciuto del 583% ed il reddito medio dei cinesi del 422%. Dal 1978 al 1996 i salari reali si sono incrementati, salvo che in tre anni, dal 3 al 9% annuo. Il tasso di povertà estrema, che riguarda le masse contadine più deprivate, è regredito dal 31,5% del 1990 al 12,7% del 2002. Ed è proprio sull’onda di queste non indifferenti realizzazioni dell’ultimo venticinquennio che il denghismo ha potuto dar forza alla propria tesi propagandistica: "il socialismo non è pauperismo", anzi: è il progressivo accesso di tutta la popolazione alla ricchezza trainato da "alcune regioni, imprese ed individui [che] hanno la facoltà e l’incoraggiamento ad arricchirsi prima di altri, mediante la diligenza nel lavoro. (...) Certamente non è polarizzazione [nooo!], che significa che un pugno di persone divengono sfruttatori, mentre la stragrande maggioranza divengono poveri. La politica d’incoraggiare alcuni ad arricchirsi prima di altri si accorda alla legge dello sviluppo socialista ed è la sola strada verso la prosperità dell’intera società" (7).

Ecco i termini del "compromesso denghista" proposto al proletariato, o meglio ai singoli proletari: abbandonare qualsiasi velleità di "potere" e di protesta organizzata, lavorare duro (elemento questo di assoluta continuità con il passato maoista) per prolungare il "miracolo economico" capitalistico della Cina e garantirsi in esso, come singoli ed, eventualmente, come gruppi di lavoratori più qualificati o dipendenti da date imprese delle zone speciali, condizioni materiali da ceti medi. Sul piano politico, ritorna, benché depotenziata, la vecchia rassicurazione maoista di un potere statale sensibile ai bisogni degli strati subalterni: lo stato non perderà il controllo del "libero mercato", non consentirà l’abbandono dei più sfortunati, non svenderà la Cina agli stranieri, continuerà ad essere il garante dello "sviluppo socialista" della nazione, ovvero di uno sviluppo semprepiù pienamente capitalistico ma con qualche correttivo nella redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta. Beninteso, però: da ora in poi a piazze vuote, e senza alcuna fantasia di poter riprendere a "sparare", foss’anche con pistoline ad acqua, sul "quartier generale" della borghesia cinese.

Con 150-200 milioni di espulsi dalle campagne (mingong) trasformati con il sistema discriminatorio dell’hukou (registrazione di residenza) in un mare di proletari di riserva a sottosalario sottoposti a leggi speciali, 50 milioni di licenziati dalle imprese di stato, una polarizzazione sociale inaudita tra nuovi pescecani dai patrimoni smisurati e salariati supersfruttati, i limiti organici del "compromesso denghista" non hanno tardato a divenire evidenti. E contro le attese di Deng, sono apparsi in tutta la loro evidenza anche nelle piazze, a cominciare dal 1989 operaio.

Ma nonostante la presa oggettiva-soggettiva della mistificazione "socialista" sul proletariato della Cina si sia ulteriormente indebolita, e nonostante il fascino di un’ulteriore apertura al mercato mondiale non sia al suo apice, per i lavoratori della Cina e per noi lavoratori occidentali il cammino da compiere per riconquistare l’autonomia politica ed organizzativa è ancora lungo e arduo. Vediamo perché andando a esaminare più da vicino le diverse manifestazioni della resistenza operaia in corso "laggiù".

Note

(1) Cfr. R. Lew, Le risorse nascoste del dinamismo cinese, in "Le Monde diplomatique", ed. it., ottobre 2004.

(2) Sulle riflessioni e le rivendicazioni degli operai di questa acciaieria divenuti famosi in tutta la Cina e all’estero, cfr. E. Masi, Per la Cina, Mondadori, 1978, pp. 118 ss. 1.800 operai di questa fabbrica erano impegnati ancora negli anni ’70 in gruppi di lavoro teorico dediti allo studio di alcuni testi fondamentali di Marx, Engels e Lenin (tra i quali la Critica al programma di Gotha e Stato e rivoluzione), e non solo di Mao, ed alla pubblicazione di testi (una decina). Da qui una loro orgogliosa rivendicazione: "questa fabbrica non produce solo acciaio, ma uomini e pensiero". Anche nel ’68 europeo esperienze simili si ebbero nelle fabbriche più d’avanguardia, sintomo di un’aspirazione universale degli sfruttati a ricongiungersi alla propria teoria rivoluzionaria, ancora non sufficientemente determinata e libera dal peso delle passate sconfitte, purtroppo.

(3) Nel solo 1957, in relazione alle agitazioni operaie e contadine, vennero interrogate quasi due milioni di persone, furono condannati 230.000 "controrivoluzionari" e sciolti circa tremila gruppi politici (cfr. A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, Ed. Ceidem, 1976, pp. 63-81).

(4) Cfr. il cap. 6 di J. Esmein, Storia della rivoluzione culturale cinese, Laterza, 1971.

(5) Cfr. Mao Tse-Tung, Discorsi inediti (a cura di S. Schram), Mondadori, 1975, pp. 222 ss. La delusione dei settori più radicali del "movimento" per come si concluse la vicenda della "Comune di Shanghai" fu esposta in documenti di qualche spessore da un’organizzazione definita "ultra-sinistra" dello Hunan, lo Sheng-wu-lien (Comitato della grande alleanza proletaria rivoluzionaria della provincia dello Hunan), che arrivò a definire in maniera appropriata il Pcc, "un partito del riformismo borghese" e a preconizzare la nascita di un nuovo e autentico partito comunista, anch’esso però, ahinoi, "maoista": cfr. K. Mehnert, A sinistra di Mao, Mondadori, 1970.

(6) L’espressione è degli stessi denghisti, il cui documento programmatico più significativo "sulla riforma della struttura economica" (del 20 ottobre 1984) si può leggere in S. Ginzberg, Il nuovo corso cinese, Editori Riuniti, 1985.

(7) Ivi, p. 85.


ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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