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Dossier Cina

Basta veleni!

Unità tra i lavoratori della Cina e noi!

Che effetto avrà questa tempesta? Schianterà i palazzi del potere capitalistico da Est fino al più profondo (e dominante) Ovest o si abbatterà, devastandole, sulle case e le capanne dei lavoratori? La questione è aperta. A decidere in un senso o nell’altro non sarà il fato, né la natura, né il capitale soltanto. Saremo anche noi. Noi lavoratori sfruttati, proletariato dell’Est e dell’Ovest. Se sapremo respingere energicamente ogni forma di concorrenza e di contrapposizione tra noi; se sapremo riconoscerci fratelli di una stessa classe e unirci nella lotta; se sapremo comprendere le ragioni autentiche del caos globale prodotto dal capitalismo globale, e la necessità quanto mai urgente di un altro sistema sociale; se sapremo dotarci di un programma e di un’organizzazione internazionali all’altezza dello scontro epocale alle porte; se sapremo fare tesoro dell’esperienza passata; allora la vittoria sui nostri sfruttatori, sull’imperialismo e sul capitalismo sarà, pur tra terribili difficoltà, a portata di mano. Noi lavoriamo per questa prospettiva, e siamo sicuri che il proletariato cinese sarà in prima linea nelle battaglie che ci aspettano.

Per l’immediato, però, dobbiamo considerare l’eventualità, abbastanza probabile, che i lavoratori della Cina rimangano almeno per un tratto soli dinanzi all’intensificata aggressione esterna e interna (come è accaduto, per loro e nostra disgrazia, ai resistenti iracheni e palestinesi). Cosa succederà in tal caso? Stando al quadro fin qui tracciato, è possibile che il proletariato della Cina, orgoglioso di essere stato l’asse portante del formidabile risveglio del proprio paese e stretto alle corde più di oggi da provvedimenti punitivi dell’Occidente (misure di rappresaglia commerciale, embarghi, etc.), ripieghi su di un terreno di difesa nazionale fino anche al rischio di chiudersi entro questo stesso terreno, in una riedizione di esperienze di "fronte unito" nazionale che già in passato ha amaramente pagato. Ciò è possibile anche perché l’attuale potere della Cina non potrà non reagire agli affondi dell’imperialismo USA o, peggio ancora, di un imperialismo occidentale ricompattato in chiave anti-cinese e anti-islamica, come preconizzato dai neo-cons e perseguito da Bush&C. E non v’è dubbio alcuno che la sua carta "migliore", in chiave difensiva, sarà quella molto ben collaudata del nazionalismo anti-imperialista. Un assaggio lo si ebbe proprio nel 1999, quando gli studenti di Beijng scattarono come molle contro il bombardamento clintoniano dell’ambasciata cinese di Belgrado. Il governo lasciò fare, ma cercò di evitare che a questo moto anti-imperialista spontaneo partecipassero in modo massiccio anche i "lavoratori arrabbiati".17 E la ragione è semplice: i governanti cinesi sanno che, una volta in azione, i lavoratori non si limiterebbero a fare le comparse e non sarebbe agevole rispedirli a casa a comando. Di qui la loro prudenza, e la loro preferenza per le mobilitazioni assai meno pericolose, se lasciate esse stesse nell’isolamento, degli strati intermedi della società ed, ancor più, per quel quadro di alleanze inter-statuali che la repubblica popolare cinese sta strenuamente tessendo a 360° gradi, anche sul piano militare18, con la Russia di Putin anzitutto, e poi con l’Iran, l’India, il Brasile, l’Argentina, il Venezuela e tutti quei paesi e governi che fanno un minimo di resistenza al dominio imperialista. Tuttavia, messa alle corde, la borghesia "rossa" rappresentata dai post-denghisti, anche a costo di acuti contrasti con i nuovi compradores interni, potrebbe essere costretta a riscoprire tatticamente, con ogni preservativo possibile, la stessa "gloriosa" (tale per davvero) tradizione nazionale di lotta all’imperialismo. Del resto, già oggi l’atteggiamento delle autorità, in specie di quelle centrali, verso le agitazioni e le proteste operaie e contadine inclina alla repressione aperta solo nei confronti delle lotte che hanno una maggiore potenzialità politica; ma non poche volte è, invece, di una certa tolleranza e "comprensione", specie se si tratta di agitazioni confinabili alla scala locale o sul piano salariale, onde evitare di accendere micce in un ambiente saturo.

Ebbene, anche nell’ipotesi di una provvisoria convergenza in Cina tra il proletariato e la classe dominante, noi proletari dell’Occidente dovremmo guardarci dal vedere la Cina come un sol blocco e – tanto più! – dal fare blocco con i super-sfruttatori di casa "nostra" contro la Cina, ossia: contro i proletari della Cina. La Cina d’oggi, integrata a pieno al mercato mondiale, è una società più che mai polarizzata, nella quale gli interessi del salariato sono sempre più demarcati, sul piano oggettivo e su quello soggettivo, dagli interessi del capitale. Se questa demarcazione non viene ancora alla luce in tutta la sua nettezza o rischia perfino di offuscarsi, è perché da qui, da noi lavoratori occidentali, non arriva ai proletari della Cina alcun messaggio di incoraggiamento, di solidarietà, di unità. Al contrario! Tutto ciò di cui sono capaci i "rappresentanti ufficiali" del movimento sindacale in Occidente, da Sweeney a Cofferati, è di urlare al dumping nei confronti della Cina sottobraccio ai padroni dell’industria tessile, calzaturiera e quant’altro, usando i loro medesimi argomenti, preconizzando il loro, e dell’odiata Lega, medesimo infame rimedio: la guerra commerciale, per ora, contro la Cina, contro tutta la Cina. Sì, è vero, si auspica che in Cina siano maggiormente rispettati i diritti dei lavoratori, ma i sepolcri imbiancati che stanno al vertice dei sindacati e della "sinistra" si guardano dal denunciare che i primi sistematici violatori dell’esistenza dei lavoratori cinesi sono le "nostre" multinazionali, le "nostre" istituzioni finanziarie, i "nostri" stati, i "nostri" WTO, FMI, Banca mondiale, etc., che si sono gettati come dei vampiri sul corpo della Cina, del lavoro cinese, per cavarne, nelle città come nelle campagne, ogni goccia di sangue. Signori cari, se davvero vi sta tanto a cuore la sorte dei lavoratori di colore perché non cominciate a difenderli sul serio qui? E se questa ritrovata verve classista (si fa per dire) vi sospinge davvero anche "in trasferta", perché non cominciate a organizzare i lavoratori della Romania, della "ex"-Jugoslavia, della Moldovia, appena fuori dai patrii confini, a cui i nostri Brambilla e i "nostri" Montezemolo tolgono la pelle ogni giorno?

Per noi la via da battere, non ci stancheremo di ripeterlo, è quella dell’unità con i lavoratori della Cina e dell’Asia. Dobbiamo accogliere con entusiasmo e amplificare qui ogni forma di resistenza dei proletari cinesi. Mettere sistematicamente in primo piano ciò che ci unisce a loro, gli interessi comuni, le aspirazioni comuni, i sogni comuni. Dobbiamo incitarli, aiutarli nella loro indispensabile ricomposizione interna, perché diventino il punto di riferimento non solo della rabbia che sale tra gli sfruttati delle campagne ma anche della ripulsa morale di tanti, in Cina, verso il dilagare degli squallidi miti e valori dell’Occidente (una ripulsa che ha preso, al momento, il crinale deviante e pericoloso della Falungong). Dobbiamo comprendere che è inevitabile - vista la storia passata e l’attuale rapporto di forza tra il capitalismo cinese e l’Occidente imperialista – che la parte più cosciente del proletariato cinese voglia e senta di doversi mobilitare anche contro l’imperialismo, e non solo contro i propri connazionali sfruttatori: il suo anti-imperialismo è comunque, lo fu già in passato, espressione di un sentimento comune agli sfruttati dell’intera Asia, dell’intero mondo ex-coloniale, e su di esso si può e si deve far leva per il processo di unificazione rivoluzionaria degli sfruttati alla scala mondiale. Beninteso: noi non siamo per la Cina, né per l’asse Cina-Russia-India (ancorché non ci dispiaccia affatto che questi tre colossi si mettano di traverso al bulldozer statunitense-europeo). Noi siamo per il proletariato, per l’unità degli sfruttati di tutto il mondo, per il comunismo. Per questo, e in vista di questi obiettivi, ti invitiamo, lettore, a respingere tutti i veleni anti-cinesi che si stanno spargendo a piene mani e a riconsiderare da cima a fondo la "questione cinese" a partire dalla "questione" del proletariato cinese. Con la speranza che queste considerazioni preliminari siano state di qualche utilità.

Note

(1) Lo racconta J.N. Wasserstrom nell’articolo citato alla nota 10. Qualcosa di simile accadde anche alla metà degli anni ’90 quando si determinò un moto di protesta anti-giapponese.

(2) Negli ultimi tempi sembra che la Cina abbia concluso qualcosa come 105 accordi di cooperazione militare.


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