Stati Uniti e Gran Bretagna:
il fronte interno è inquieto.
La guerra che si sta combattendo in Iraq è due guerre in una. È una guerra tra nazioni, un blocco di nazioni imperialiste (con un codazzo di nazioni in affitto, sul tipo della "libera" Polonia "post-comunista") da un lato, una nazione oppressa e resistente dall’altro. Ma dentro e oltre questa guerra ve n’è un’altra, allo stato occultata e compressa, che oppone insieme i lavoratori, gli sfruttati di tutte le nazioni coinvolte nella guerra alle proprie classi sfruttatrici. Lo sviluppo di questa "seconda" guerra (di classe) dipende molto da come si svolge la "prima", e viceversa. Se, nell’ipotesi più sventurata, il popolo iracheno avesse salutato l’arrivo dei "liberatori" occidentali con lancio di riso e petali di rose, avremmo avuto in Occidente dei Bush, dei Blair, dei Berlusconi trionfanti, legittimati in pieno nelle proprie politiche belliciste, più popolari anche tra i lavoratori; e quindi con le mani più libere per imporre all’interno il loro ricettario neo-liberista con ulteriori penalizzazioni per i proletari, incoraggiati a programmare alla svelta i nuovi atti della "guerra infinita" volta a esportare libertà e democrazia, ossia i "nostri" capitali, il "nostro" dominio, nel mondo. In parallelo, in Iraq avrebbero avuto carta bianca i finanzieri alla Chalabi ed i collaborazionisti, grandi proprietari terrieri e alti funzionari di stato (o aspiranti tali), che si raggruppano dentro e intorno al "governo provvisorio", con tormenti aggiuntivi per la massa pauperizzata e (in questa malaugurata ipotesi) demoralizzata degli iracheni. Del pari, se le società occidentali fossero state unite e mobilitate come un sol uomo intorno alla prospettiva della guerra totale ai popoli islamici, sarebbe stato più arduo, anche per dei combattenti di vaglia come gli iracheni, opporsi ad uno schieramento di eserciti più ampio e agguerrito di quello che oggi debbono fronteggiare. Sarebbe stata, insomma, sull’uno come sull’altro fronte, più facile una vittoria degli sfruttatori e una sconfitta degli sfruttati. Poiché, invece, l’orgoglioso popolo iracheno sta dando filo da torcere agli occupanti e in Occidente un qualche dissenso anti-guerra si è manifestato, i governi che la guerra hanno voluto si trovano in difficoltà. Il fronte interno è inquieto e perfino diviso. Si colgono i primi evidenti contraccolpi dentro le stesse forze armate. Il movimento no war è sollecitato a riprendere la sua mobilitazione. Ed i lavoratori statunitensi, britannici e italiani lo sono altrettanto a far sentire la propria voce, sia in materia di guerra (su cui, per la verità, sono ancora molto, molto afoni), sia in fatto di politiche sociali. Nel frattempo, in Iraq, non si mette troppo bene per i compradores locali, i quali aspirano a trovare il prima possibile un compromesso con gli stati aggressori onde disinnescare il rischio di una seconda rivoluzione anti-imperialista irachena con il baricentro ancora più spostato della precedente verso le classi sfruttate e con una probabilità di "trascrescenza" nell’area maggiore. Allo stato (inizi di dicembre 2003) la situazione è aperta a due esiti opposti; nell’un caso come nell’altro, la sorte degli sfruttati iracheni e occidentali è indivisibile. Quello che succede a Baghdad è fondamentale per quello che accade a Washington e Londra, e viceversa: lo è tanto per i nostri nemici, per il nostro nemico di classe, che per noi.In altre pagine del giornale esamiamo la situazione in Iraq; ci concentriamo qui sugli Stati Uniti e la Gran Bretagna, i paesi più fortemente coinvolti nella guerra in corso e nella preparazione di nuove guerre. |
Uno sforzo bellico intensificato
La Casa Bianca sta reagendo all’imprevista resistenza irachena con un’intensificazione tanto dello sforzo bellico che di quello diplomatico. Su entrambi i piani ha ottenuto risultati significativi: al Congresso, con l’approvazione (anche da parte degli "oppositori" democratici) di un mega-aumento delle spese belliche; all’Onu, da sempre una sede amica per i presidenti yankee ed i macellai del Pentagono, con l’approvazione della risoluzione n. 1551. Assai modesti, invece, sono stati i risultati conseguiti nel convincere altri stati occidentali a dispiegare le proprie forze armate sul campo in Iraq o a rafforzare i propri contingenti lì presenti, e a condividere perciò gli enormi costi materiali della guerra (un miliardo di dollari alla settimana, con un costo medio per militare sul campo più di tre volte superiore a quello della guerra del Vietnam ed un buco nel bilancio statale per il 2003 di 480 miliardi di dollari) ed i crescenti costi umani. Come affrontare le conseguenti difficoltà? Presto detto: accelerando la rapina delle ricchezze irachene e torchiando di più il proletariato statunitense.
Alla metà di settembre gli Usa hanno varato un piano di privatizzazioni che riguarderà tutte le industrie controllate finora dallo stato iracheno e il settore finanziario. È in sostanza un decreto di svendita totale delle risorse irachene, dei capitali iracheni (ovvero: del lavoro iracheno divenuto capitale). Sincera la giustificazione del ministro del Tesoro statunitense: "il capitale è codardo", ha riconosciuto, bisogna perciò spianargli la strada. Il saccheggio dell’Iraq per mano statunitense è così avviato, con l’immediato visto apposto dal servile Consiglio governativo iracheno. Per ora ne resta fuori il petrolio, la cui appropriazione è tuttora oggetto di trattativa con i sodali-concorrenti, ma è proprio all’espropriazione a costo zero del petrolio iracheno che l’operazione mira (combattenti iracheni permettendo...). A completare lo strangolamento dell’economia irachena a favore di quella statunitense è venuta la decisione di affidare alle multinazionali dell’agrobusiness nord-americane (Cargill, DuPont, Cenex, Archer Daniels Midland) nella persona di tal Amstuz, loro rappresentante, il compito di liberalizzare totalmente il mercato agricolo iracheno, mandando in rovina i produttori locali (onde soggiogarne in seguito la parte più produttiva) ed invadendo il paese con i prodotti made in the Usa.
Misure urgenti e tuttavia non sufficienti a coprire il fabbisogno di profitti atteso dal capitalismo statunitense e le ingentissime spese militari, sicché si è dovuta attuare insieme un’intensificazione dello sforzo produttivo interno. La produttività del lavoro ha conosciuto negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, dei balzi all’insu eccezionali: +8,1% nel quarto trimestre del 2001, +9,1% nel primo trimestre del 2002, rispettivamente +7% e +9,4% nel secondo e terzo trimestre del 2003! Risultati-record ottenuti attraverso una raffica di licenziamenti di massa e per mezzo dell’accrescimento in quantità (durata degli orari) e qualità della pressione sul lavoro vivo, come si addice ai periodi di guerra. Una pressione intensificata sul lavoro (è in arrivo la soppressione dello straordinario...) che fa coppia con un’azione di controllo e repressione preventiva del dissenso di tale portata da far parlare di un’"importazione del modello Guantamano" negli Stati Uniti, con la sospensione per circa 30 milioni di americani (denuncia Mike Davis su Liberazione del 3 luglio) di quelle "garanzie civili", di quei "diritti individuali di libertà" esibiti fino al ridicolo come falsi sigilli della superiorità dell’Occidente sul "resto del mondo". Per primi a pagare, si capisce, gli immigrati arabi, espulsi a migliaia (13.000 è la cifra ufficiale - l’Avvenire, 8 febbraio) dopo essersi presentati per scagionarsi dal sospetto di terrorismo, o mantenuti tuttora in segregazione (non si sa in che numero) in virtù del Patriot Act.
Neppure questa militarizzazione dell’economia e della società sono bastanti, però, per consolidare l’occupazione dell’Iraq: l’osso duro è costituito da una resistenza irachena sul terreno così tenace e ampia (si consideri che il categorico ordine di Bremer agli iracheni di consegnare tutte le loro armi era del 14 giugno) da aver provocato in pochi mesi rilevanti contraccolpi nelle truppe occupanti.
La resistenza dei militari e il movimento no war
Per quanto Rumsfield&C. cerchino di censurare con ogni mezzo le notizie sgradite, è evidente che il bilancio delle perdite statunitensi è già ingente. Un rapporto del medico generale del Pentagono, a inizio novembre, parlava di 9.200 vittime, tra morti (che riteniamo essere volutamente sottostimati), feriti gravi ed evacuati per ragioni mediche, fisiche o psichiche, su 130.000 soldati (la Repubblica, 16 novembre). E di ancor maggiore peso è la diserzione di ben 1.700 soldati dall’inizio della guerra, per lo più soldati in permesso a casa che non si sono ripresentati ai rispettivi reparti per evitare di tornare in Iraq (la fonte, in questo caso, è l’agenzia Kyodo News, che cita un agente dell’intelligence francese). Una "voglia di fuga dal pantano iracheno" maturata ben presto dinanzi alla disillusione vissuta con il constatare la crescente ostilità della popolazione irachena. Sicché si può parlare di una vera e propria, benché soltanto iniziale, resistenza alla guerra all’interno dello stesso esercito a stellestrisce, che si è fatta sentire anche nelle strade delle città americane con i primissimi contingenti dei familiari dei soldati rabbiosi per essere stati "ingannati da Bush", e con la denuncia del trattamento riservato ai reduci dalla guerra (né più né meno che spazzatura, per la meravigliosa democrazia d’Oltreoceano, come già è accaduto per i 90.000 militari statunitensi ammalati di uranio impoverito dopo la prima guerra del Golfo e abbandonati a sé stessi). Anche un neo-arruolato nella propaganda di guerra come V. Zucconi, deve scrivere: "Il fronte interno non è ancora in rivolta, ma è diviso, il che è il primo passo verso la ribellione politica. (...) il risultato che l’America vede, nove mesi dopo lo ‘shock and awe’, è che sono i soldati americani in ‘shock and awe’, in uno stato di angoscia quotidiana che ha già prodotto 17 suicidi" (la Repubblica, 24 novembre).
Lentamente, lo stesso movimento no war sta riprendendo la sua mobilitazione, in un clima reso più difficile dalla grancassa di stato sull’anti-patriottismo di chi manifesta per il ritiro delle truppe non curandosi dei morti statunitensi. Un condizionamento, questo, che è stato evidente anche nei cortei del 25 ottobre (con 100.000 manifestanti tra Washington e San Francisco) dov’erano presenti non poche bandiere stellate e in cui non poco gettonato era lo slogan, alquanto ambiguo, "sostieni le truppe, riportale a casa". Tuttavia, la ripresa delle dimostrazioni, pur su scala numericamente più ridotta, ha avuto tra i suoi punti di forza proprio la partecipazione di militari in servizio e di loro familiari, l’inclusione della questione palestinese nei temi del movimento (rompendo l’abitudine tipicamente statunitense di iniziative "monotematiche") e una prima, ancora timida, demarcazione da quanti si erano aggregati al movimento in primavera solo per dare forza ad un altro modo, più accorto, di difendere gli interessi degli Stati Uniti. Di rilievo, anche, la ritornante denuncia delle menzogne profferite da Bush circa le armi di distruzione di massa irachene, i fini della guerra e la fine annunciata di essa; di rilievo perché la menzogna è una pietra angolare della democrazia, pur se non ci si può nascondere che ancora agli occhi della maggior parte dei dimostranti a mentire è il bugiardo-Bush, ma non è la politica borghese ad essere in quanto tale un castello di menzogne.
Più energiche e significative sono state, al confronto, le manifestazioni di fine settembre e di fine novembre a Londra. In particolare l’ultima, nel corso della quale Bush e Blair sono stati accusati a squarciagola di essere i grandi terroristi che seminano ovunque morte nel mondo ("Bush, Blair, Cia, how many kids have you kill today?" – quanti bambini avete ucciso oggi?). Accusati da una massa in cui hanno marciato gli uni assieme agli altri gli aderenti, per lo più britannici bianchi, della Stop the War Coalition e i seguaci della Muslim Association of Britain. "Data la giornata lavorativa, si è trattato di un appuntamento di proporzioni eccezionali" (nota l’Unità del 21 novembre), a maggior ragione perché si era appena verificato un attentato anti-britannico a Istanbul e pesava sul corteo il ricatto anti-Bin Laden, assai opportunamente ignorato. Nella sua tre giorni londinese, nel paese del suo più stretto alleato (Blair, il barboncino della Casa Bianca...), Bush è stato costretto a muoversi come fosse un clandestino, mentre in Trafalgar Square veniva abbattuta una sua statua (rovesciando su di lui la famosa messinscena di Baghdad, questa volta, però, c’erano davvero delle masse festanti a farlo!) e nell’intera Londra risuonava la richiesta del ritiro immediato delle truppe americane e britanniche dall’Iraq e delle truppe israeliane dalla terra di Palestina: "Occupation is a crime, free Iraq and Palestine". Non poco, specialmente se si considera il tipo di sentimenti e di consapevolezza che comincia a farsi strada tra i proletari in divisa, soprattutto statunitensi (v. il riquadro accanto). Ma, siamo franchi, il cammino da compiere è ancora molto. E in salita.
Fare di più e di meglio
A loro modo i nodi ancora da sciogliere sono stati dichiarati dai fondatori di Peaceful Tomorrows, i coraggiosi familiari delle vittime dell’11 settembre che si sono rifiutati di arruolarsi nella crociata anti-islamica tendendo la mano alle vittime del terrorismo del loro paese (come han fatto recandosi in Afghanistan). Essi hanno saputo scrivere: "è triste riconoscere che altri popoli [a differenza di quello degli Stati Uniti] hanno avuto il loro 11 settembre senza alcun clamore. I membri di Peaceful Tomorrows hanno incontrato altre vittime della violenza nel mondo che sono diventate il punto di riferimento dei nostri sforzi per trasformare il nostro dolore in azioni di pace. Dai genitori palestinesi e israeliani che hanno perso i propri figli nella violenza, alle vittime dell’ambasciata americana in Kenya, alle madri delle persone scomparse nell’America Centrale e in Sud America, ai sopravvissuti della violenza più estrema -le bombe Usa su Hiroshima e Nagasaki- i membri di Peaceful Tomorrows si sono trovati ad essere parte di una famiglia mondiale che ha conosciuto il terrore e ha risposto con la pace".
Verissimo. C’è una "famiglia mondiale" delle vittime della guerra e della repressione, statunitense o di "ispirazione" statunitense, che non è altro se non la "famiglia mondiale" degli oppressi e degli sfruttati, che è assai bello essi riconoscano per tale com’è assai bello che questi americani di buon cuore sappiano mettere sullo stesso piano "i soldati iracheni e quelli statunitensi". Sulla base di questo istinto e di questa capacità si tratta ora di fare dei passi ulteriori in avanti. Questa "famiglia mondiale", che inizia a riconoscersi per tale ed aspira intensamente alla pace, deve prendere atto che non possono bastare gli appelli ai governanti occidentali per bloccare le guerre in corso o per impedire quelle predisposte per il futuro immediato, come non è bastato il referendum popolare "mondiale" del 15 febbraio a fermare l’aggressione all’Iraq. È chiamata dagli stessi avvenimenti con cui si confronta a darsi maggior determinazione e continuità nell’iniziativa contro i governi occidentali. A conquistare una maggiore consapevolezza di chi è il nemico, il sistema nemico, che ha di fronte. Ci vuole un coinvolgimento assai maggiore del proletariato di fabbrica nel movimento anti-guerra. Ci vuole un salto di qualità del movimento stesso, dal riconoscere che ci sono popoli che hanno quotidianamente il loro 11 settembre "senza alcun clamore", popoli oppressi, al riconoscere che siamo noi-Occidente ad opprimerli, e che essi, come stanno facendo gli iracheni, hanno il diritto di risponderci con le armi; e noi, membri occidentali di questa "famiglia mondiale", se siamo davvero per una "pace nella giustizia" per tutti, e non semplicemente per la nostra "pace nella ingiustizia" patìta da altri popoli, dobbiamo sostenere la "loro" lotta di liberazione con tutte le nostre forze. Dobbiamo riconoscere nella loro lotta, con qualsiasi mezzo si dia, la nostra stessa lotta. Non basta marciare fianco a fianco bianchi ed "islamici", come avviene a Londra e purtroppo mai altrove; dobbiamo unire, fondere le energie di questa unica "famiglia mondiale" dei proletari di tutti i paesi in un solo fronte che si batta sì per conquistare definitivamente il grande traguardo della pace permanente tra i popoli, ma sia consapevole che per arrivarci dovrà necessariamente spezzare con la sua forza concentrata la macchina bellica dello sfruttamento capitalistico.