Gli interessi dei lavoratori non si possono difendere
dietro le bandiere del protezionismo.
Da un po’ di tempo circola una "nuova" ricetta per contrastare il "declino industriale" dell’Italia. Autori: Bossi e Tremonti. Di fronte alla concorrenza dei prodotti a basso prezzo provenienti soprattutto dall’Asia (Cina in testa), essi, rivolti ai lavoratori, dicono: "Mettiamo dei dazi sulle merci che provengono da Pechino e dall’Oriente in modo da fermare la concorrenza ‘sleale’ che queste nazioni ci fanno grazie ai bassi salari, alla mancanza di diritti dei lavoratori e alla mancanza di rispetto di ogni regola produttiva che salvaguardi l’ambiente. In questo modo, grazie a tali misure protezionistiche, salveremo tanto gli affari delle nostre aziende, quanto i vostri posti di lavoro. In più aiuteremo anche i lavoratori di quelle zone ad essere pagati meglio e ad avere più diritti e, di pari passo, imporremo più rispetto ambientale". Motivetto accattivante, non c’è che dire, ma le cose stanno diversamente. |
Due facce della stessa medaglia
Per i paesi imperialisti - cioè per quel pugno di nazioni ricche che opprimono e sfruttano l’intero pianeta e di cui l’Italia è parte - il protezionismo ed il "liberismo", nel loro complesso, sono due politiche complementari e convergenti verso lo stesso scopo: il rafforzamento e la difesa della propria posizione di dominio sul mercato mondiale. Queste "due" politiche sono adottate, a seconda delle situazioni, alternativamente o in contemporanea. Si invoca il "liberismo" quando si tratta di imporre l’abbattimento dei dazi doganali che ostacolano la conquista dei mercati altrui, e dell’Est e del Sud del mondo innanzitutto.
Si punta sul protezionismo, invece, per tutelare il proprio mercato da prodotti terzi e per favorire le aziende nazionali nella pratica del "dumping". Infatti il poter imporre prezzi (alti) da monopolio in patria consente anche di vendere all’estero sotto-costo per tutto il tempo necessario a distruggere le produzioni locali e ad accaparrarsi quel mercato... Poi i prezzi saliranno anche lì.
È ciò che accade, ad esempio, in campo agricolo, dove vediamo una ragnatela di dazi, sovvenzioni e leggi, che di fatto impedisce ai paesi del Sud del mondo di vendere la loro produzione agricola nei "nostri" mercati. Allo stesso tempo Usa ed Europa spendono miliardi e miliardi per proteggere la propria agricoltura con effetti devastanti per i paesi del "Terzo Mondo". La libertà "per noi" si tramuta in ferreo divieto "per gli altri". A ben vedere è dai tempi dell’impero coloniale inglese che la faccenda funziona così.
"Ma questo caso è diverso, qui si tratta di salvare il tessuto produttivo italiano": dicono Tremonti ed i suoi. In effetti il protezionismo è storicamente servito a favorire l’industrializzazione delle nazioni che si affacciavano "in ritardo" sulla scena del capitalismo mondiale e che in assenza di una tale politica statale sarebbero state mangiate da chi già tale scena occupava da tempo. Lo fece anche l’Italia a cavallo tra l’800 e il ’900.
Oggi però si tratta di tutt’altro. Da un lato le misure protezionistiche sono invocate soprattutto a tutela di una delle aree (la "Padania") più avanzate del capitalismo mondiale. Dall’altro lato sono dirette contro nazioni che stanno cercando di affermare un loro sviluppo industriale. Questo protezionismo è smaccatamente aggressivo e va nella stessa direzione in cui andò negli anni ‘30, quando si diffuse dagli Usa all’Italia e che (anche allora di concerto con il "liberismo") sfociò nella guerra mondiale. Al pari di quello agricolo, il protezionismo industriale invocato dai Tremonti-Bossi (o dai governi statunitensi e dalla Commissione di Bruxelles) è una delle vie per far saltare ogni tentativo di sviluppo economico "indipendente" in Cina e nell’intera Asia, per ricattare più a fondo questi paesi e per poter avere mano libera sullo sfruttamento intensivo di quelle masse operaie senza dover "lasciare troppo" a governi ed a padroni locali. Altro che preoccupazione per la sorte dei lavoratori cinesi e asiatici!
La "tutela" dell’ambiente: una polpetta avvelenata
"Ma queste nazioni emergenti procedono nell’industrializzazione senza curarsi minimamente dell’impatto ambientale": quando simili preoccupazioni vengono da ambienti confindustriali e governativi siamo al colmo. Ma come! Le imprese e il governo italiano hanno riversato uranio impoverito in Jugoslavia, hanno partecipato alla devastazione del sistema ecologico del Danubio nel 1999 e dell’Iraq dal ’91 ad oggi. Le imprese italiane prendono parte in Amazzonia allo sventramento e alla vivisezione di uno dei polmoni del pianeta Terra e, insieme, delle popolazioni indigene che lo abitano (vedi, uno per tutte, cosa fa l’Agip). Sono attive nel disboscamento della Malesia e dell’Indonesia. Sono in prima linea nello stupro idrogeologico che in quelle regioni procura devastanti inondazioni che spacciano (e che oramai ci appaiono) come fenomeni naturali. Hanno portato, di soppiatto, in Somalia e in Africa tonnellate di rifiuti tossici. E ora, queste persone si preoccupano dell’ambiente!? Perché alzano questa bandiera? Perché serve per mettere il bastone tra le ruote al tentativo cinese di sviluppo industriale non totalmente sottomesso ai loro diktat. Serve per mettere le proprie mani su quell’ambiente, sulle sue risorse e centralizzarle solo alle proprie necessità di profitto, senza accettare che una parte della torta non arrivi nelle "nostre" grinfie, ma rimanga là.
Certo, in Cina ed in altre località dell’Asia si sta assistendo ad uno sviluppo industriale tumultuoso con coefficenti realmente distruttivi per l’ambiente. Ma, a parte il fatto che spesso gli impianti più nocivi sono, direttamente o indirettamente, di proprietà occidentale (qualcuno ricorda Bhopal?). A parte il fatto che le maggiori inquinatrici del globo sono le industrie di Usa ed Europa. A parte simili "bazzecole", resta il fatto che il problema ambientale esiste e per davvero. Ma esso potrà essere affrontato solo da una battaglia dei lavoratori occidentali a fianco ed assieme ai proletari cinesi ed asiatici contro il capitalismo internazionale (quindi contro il "nostro" innanzitutto), e non certo da una politica che chiama a scendere in campo contro gli sfruttati d’Oriente e alla coda dei nostri padroni.
La "difesa" dei lavoratori: una polpetta ancor più velenosa
Tremonti&C. dicono che i dazi servono per tutelare posti e condizioni di lavoro in Italia. Strano che il ministro dell’economia si erga a paladino degli operai, lui che è stato ed è un accanito sostenitore della libertà totale nelle relazioni tra capitale e lavoro. Ossia della libertà per i padroni di flessibilizzare, precarizzare e licenziare come e quando vogliono. Ma tralasciamo simile "particolare".
Fin quando c’era (e c’è) da delocalizzare alle "nostre" condizioni (cioè a diritti e salari rasoterra) in Romania, Turchia, "ex"-Jugoslavia o Albania, allora Tremonti e i padroni italiani non si preoccupano certo per i diritti e le sorti dei lavoratori di "casa nostra". Anzi, la minaccia e l’effettivo spostamento delle produzioni in tali paesi è stata (ed è) un’arma di ricatto per costringere "qui da noi" i lavoratori ad accettare continui arretramenti salariali e normativi.
Per un po’ tutto è andato liscio anche per quanto riguarda i paesi dell’Estremo Oriente. Ricordate le "tigri asiatiche"? Fin quando se ne è potuta spremere la manodopera indisturbatamente, erano l’esempio da additare ai lavoratori di qui. Poi, quando, come in Corea del Sud, gli operai hanno cominciato a lottare per il miglioramento delle loro condizioni, l’esempio fu oscurato. Quando quei paesi hanno cercato di mantenere in "zona" una parte dei guadagni in modo tale da favorire uno sviluppo capitalistico meno dipendente dai boss delle borse mondiali, anche in relazione alla necessità di dover fare i conti con una pressione operaia ascendente, l’esempio andava colato a picco!
Per "proteggere" realmente i nostri interessi di classe…
Il capitalismo a scala mondiale gioca sui differenziali salariali e normativi tra Sud e Nord del pianeta anche per spingere all’ingiù la condizione complessiva dei lavoratori occidentali. Certo, quindi, che il miglioramento della condizione dei proletari asiatici ci deve interessare direttamente. Ma non potremo contribuire a questa causa accodandoci alle politiche protezioniste (e/o "liberiste") dei nostri governi e stati, che sono i primi mandanti ed i massimi beneficiari del super-sfruttamento a cui sono costrette le masse dell’intero "Terzo Mondo".
Se vogliamo sostenere davvero i lavoratori asiatici, siamo chiamati a combattere contro le politiche imperialiste che li schiacciano, occorre che noi ci battiamo contro le ingiunzioni del mercato mondiale, contro i "nostri" stati, contro i "nostri" governi, contro le loro guerre di rapina ed oppressione e contro la loro generale (di "pace" e di guerra) azione di saccheggio.
Per contrastare il tentativo del padronato di sfruttare a suo vantaggio le differenze create sul mercanto mondiale del lavoro, occorre, nello stesso tempo, che come proletari d’Italia si rifiuti la sottomissione della tutela dei nostri interessi da quelli delle aziende. Occorre legare la difesa della nostra condizione al superamento della concorrenza tra proletari dei diversi paesi e non all’incrudimento di tale competizione per strapparsi il lavoro di bocca a vicenda. La protezione dei nostri interessi è cosa diversa dalla protezione delle imprese. Con un simile esempio si favorirebbe la possibilità che i lavoratori cinesi, e asiatici in generale, sleghino il loro riscatto come classe, da quella delle loro borghesie e dei loro stati.
Tutto questo "discorso" ha una prima prova qui in Italia, nel "piccolo", con i lavoratori immigrati. Già oggi proletari asiatici e di tutto il Sud del mondo, in condizioni ultra precarie e di super-sfruttamento, lavorano fianco a fianco con gli operai italiani. Bisogna incominciare da qui, dando il nostro sostegno incondizionato alle loro lotte, alla loro auto-organizzazione per l’affermazione dei loro diritti contro ogni discriminazione e restrizione razzista.
Non va in questa direzione la proposta che di tanto in tanto viene ripresentata da Bertinotti, ossia che le "merci siano corredate da un certificato che ne attesti la garanzia dei diritti sociali dei lavoratori impiegati". Di fronte a questa "geniale" idea, è legittimo chiedersi: e chi dovrebbe mai certificare questi diritti dei lavoratori del Sud del mondo? Forse le imprese occidentali che pretendono che nel "Terzo Mondo" il sindacato sia messo fuori legge? o gli stati occidentali e la commissione di Bruxelles che i diritti dei lavoratori li stanno tagliando a raffica anche qui? o, quand’anche, i vertici sindacali di "casa nostra" portatori anch’essi di un "liberismo temperato"? Proposta fasulla, dunque, buona però per trovare un escamotage utile a sponsorizzare quello stesso protezionismo invocato con ragioni non tropo dissimili - non è vero? - da Bossi e da Tremonti.
…bisogna globalizzare la lotta e l’organizzazione del proletariato.
Tremonti ha affermato in un’intervista al Corriere della Sera che sta succedendo proprio quello che aveva previsto Marx: il capitalismo si sta sviluppando impetuosamente in tutto il pianeta, il proletariato è diffuso e presente in tutto il mondo, la rete del mercato che incombe sui lavoratori in Italia è ormai una rete mondiale. Dice il vero Tremonti. Salvo un minuscolo particolare, da lui opportunamente dimenticato: Marx faceva derivare dalla registrazione di questo modo di essere del capitalismo la necessità dei proletari di tutto il mondo di unirsi.
Il capitalismo infatti ha unificato il mondo, ma nel modo che è sotto i nostri occhi: seminando divisioni, schiacciando paesi, mettendo operai gli uni contro gli altri, stabilendo gerarchie razziali, nazionali e sessuali tra i lavoratori del mondo intero, riproducendo a scala allargata caos, guerre e distruzioni ambientali… il tutto anche attraverso le politiche protezioniste. Come lavoratori, non possiamo sperare di difenderci erigendo muri davanti a questo ciclone, perché questi muri non servono per bloccare l’impetuosa circolazione dei capitali o gli spiriti animali del capitalismo, servono -e alla grande- solo a dividere le nostre forze, ad accentrare (contro di noi e gli sfruttati tutti e i paesi dominati e oppressi) i poteri capitalistici mondiali nelle mani di un ristretto pugno di finanzieri e generali. Ed è proprio su questa divisione che ciascuna frazione della classe sfruttatrice italiana e occidentale trova il modo di far pagare a noi la crisi del sistema capitalistico e, nello specifico, il "declino" dell’Italia.
A noi proletari marciare in senso opposto. Il che sarà possibile se i lavoratori cinesi, asiatici e dello sterminato Sud del pianeta non ci percepiranno come un blocco unico con i "nostri" imprenditori, se sentiranno che il nostro interesse non è quello di permettere che li si sfrutti sempre più e che si saccheggi liberamente la loro terra. Se vedranno con i fatti che l’obiettivo che noi perseguiamo non è quello di godere delle briciole (al ribasso) conquistate sulla pelle del loro schiacciamento, ma è quello di difendere realmente la classe lavoratrice mondiale. Uno dei passi che fa avvicinare a questo obiettivo è quello di vedere per quel che è e lottare la politica protezionista invocata da Bossi e Tremonti. Questo veleno ideologico, con cui si vuole ostacolare tra i lavoratori la presa di coscienza che le loro sorti si decidono a scala mondiale. O, meglio, si vuole impedire che se ne traggano le conseguenze "suggerite" da Marx con la grande consegna "proletari di tutto il mondo, unitevi!".