Cosa serve per vincere davvero

Noi comunisti internazionalisti sappiamo bene che la prima terribile responsabilità per queste nuove aggressioni dell’Occidente ai popoli arabi ed islamici del Medio Oriente e dell’Asia ricade su noi stessi, sulla passività, e spesso, purtroppo, sulla complicità del "movimento operaio" occidentale con i rispettivi governi e capitalismi. È per questo che siamo impegnati con tutte le nostre energie a "spiegare" ai lavoratori occidentali le vere cause ed i veri scopi di queste aggressioni, a diffondere tra loro un sentimento di simpatia e di solidarietà attiva nei confronti dei popoli oppressi dal nostro stato e dai nostri padroni, a mostrare loro come dalle lotte di resistenza all’imperialismo essi non possano avere nulla di sostanziale da perdere bensì, al fondo, tutto da guadagnare, ad incitarli a scuotersi dalla loro indifferenza, a riscattarsi dalla orrenda complicità con i propri carnefici, per dare finalmente un sostegno totale, privo di riserve e di pre-condizioni, alle lotte degli sfruttati di colore. È da questa ferma, non revisionabile posizione, appresa dai nostri maestri, Marx per primo, che senza spocchia alcuna rivolgiamo ai combattenti dell’Iraq, dalla cui parte senza esitazioni siamo schierati e di cui ammiriamo il magnifico coraggio, l’invito a riflettere insieme sulla situazione in cui siamo. A riflettere insieme perché la lotta contro gli occupanti, la lotta contro l’imperialismo è una lotta comune che si svolge su due fronti, una lotta in cui il "qui" e il "lì", la nostra e la vostra azione, il nostro ed il vostro destino sono non solo legati, ma strettamente interdipendenti. Infatti non è che stiamo assistendo ad una partita di calcio nella quale tifiamo da bordo campo per la nostra squadra; siamo pienamente parte in causa dello scontro, e vogliamo agire, insieme con voi, per trasformare tutto il quadro della nostra comune lotta, perché soltanto così, facendone una lotta per davvero comune, possiamo vincere.

Mettiamo a frutto le esperienze del passato.

La riflessione che facciamo è questa: non è la prima volta che, in Iraq, vi trovate (e ci troviamo) davanti ad una simile sfida. Già nel corso della prima guerra mondiale il paese fu occupato dalle truppe occidentali. In quegli anni furono le armate britanniche a dirigere le operazioni coloniali. Con la rivoluzione del 1958 e ciò che ne seguì sembrava che questa partita fosse chiusa per sempre. Non è stato così. Ora siamo tornati, in apparenza, al primo dopoguerra, quando le armate britanniche occuparono l’Iraq. Le potenze occidentali sono riuscite ad occupare di nuovo il paese. Come mai? Come mai la rivoluzione del 1958 e ciò che ne seguì non sono riusciti ad impedire il ritorno del giogo coloniale? Lo chiediamo non per piangere sul latte versato, ma per evitare di ripercorrere oggi una via che ha già fatto fallimento.

Per noi la ragione fondamentale è che l’attività delle masse sfruttate, operaie e contadine, che fu determinante nell’infliggere una lezione memorabile al colonialismo britannico nella guerra dei quarantacinque anni (1914-1958) e seppe scacciare dal suolo iracheno, insieme con la monarchia hashemita, le multinazionali del petrolio, è stata contenuta, poi devitalizzata e infine repressa dal regime borghese sorto dall’insurrezione popolare del 1958 nel quadro, non soltanto iracheno, di una crescente ipertrofia (e idolatria) dello stato. Uno stato che seppure, come nel caso iracheno (o siriano), efficiente, modernizzatore e poco corrotto, ha avuto come sua prima finalità il controllo sui lavoratori e come sua metodica di azione la divisione delle masse lavoratrici fino a compiere, in coerenza con la sua natura sociale borghese, quelli che sono per noi i più imperdonabili delitti di Saddam e del baathismo iracheno: la guerra contro l’Iran (dove, con la benedizione dei "satana" di tutto l’Occidente, furono lanciati a massacrarsi gli uni con gli altri gli oppressi dei due paesi), lo schiacciamento violento dei curdi a metà degli anni ’80 e delle popolazioni "sciite" del Sud insorte nel 1991, creando o attizzando in questo modo una innaturale contrapposizione e una scia di rancori tra gli sfruttati "sciiti", "sunniti" e curdi, su cui i grandi manovratori occidentali, inclusi i funzionari dell’Onu e delle organizzazioni "umanitarie" operanti in Iraq, hanno potuto e possono abilmente speculare.

L’altra grande lezione da apprendere dal tracollo del regime iracheno è relativa al suo progressivo ritrarsi (certo, non per sua esclusiva "colpa") da ogni reale politica di unità del mondo arabo ed islamico così da contrapporre all’ingente forza finanziaria, politica e militare dell’imperialismo una linea di resistenza non tanto fragile. Scantonando dai suoi stessi princìpi "pan-arabi" di partenza, l’Iraq baathista, forte delle sue risorse petrolifere, più che intessere stretti rapporti economici e di collaborazione con gli altri paesi della regione, è andato via via praticando una politica più intenta a intrecciare relazioni con questo o quel paese occidentale, poi sistematicamente pronto a pugnalare alla schiena gli iracheni (come dimenticare gli ottimi rapporti degli anni ’80 con gli Usa?). Colpa principale delle petrolmonarchie, sabotatrici di ogni forma di lotta e di unità araba in chiave anti-imperialista? Senza dubbio. Ma se si eccettua, forse, l’attenzione alla causa palestinese, è un fatto che anche Saddam e il suo regime hanno "scoperto" nel 1990-’91 e nel 2003 l’importanza decisiva della jihad unitaria di tutti i popoli "islamici" contro l’imperialismo troppo tardi, a tempo scaduto, e comunque sempre in modo fondamentalmente declamatorio, come appello estremo a cui per primo chi lancia l’appello arriva poco convinto, solo per calcolo tattico e perché costretto dalle circostanze.

Il rilancio della lotta rivoluzionaria all’imperialismo in Iraq e in tutto il mondo islamico deve tenere in massimo conto l’esperienza passata, per non ripeterne gli "errori". Oggi c’è in Iraq un sentimento di unità nazionale che attraversa tutti gli strati sociali. Ma non tutti gli strati sociali possono e vogliono superare i limiti e le inconseguenze del "primo tempo" della rivoluzione irachena. Il "crollo" di Baghdad o l’ingresso dello Sciri nel finto governo "iracheno" costituito dagli Stati Uniti non sono un caso: la grandissima parte degli alti funzionari civili e militari del vecchio regime (non pochi dei quali sono rimasti al loro posto) o gli ayatollah grandi proprietari terrieri sul genere dei Sistani o degli al-Hakim, e non solo loro, temono la sollevazione e il protagonismo delle masse sfruttate. Lo temono perché esso, seppure diretto in prima istanza contro gli occupanti, non potrebbe non ritorcersi anche contro le classi proprietarie privilegiate o dirette sfruttatrici di queste masse, in spregio delle proclamazioni "religiose" (che si potrebbero anche definire, francamente, blasfeme) sulla umma, del divieto dell’usura e dell’obbligo coranico della zakat.

È indispensabile il pieno protagonismo.

Ed invece lo sviluppo più pieno delle energie di lotta della popolazione lavoratrice povera dell’Iraq e la sua organizzazione ci appare come la prima condizione perché la resistenza irachena possa durare, rafforzarsi e varcare i confini dell’Iraq catalizzando intorno a sé la lotta anti-imperialista nei paesi vicini e nel resto del mondo arabo e islamico. È l’asso di cuori per indebolire l’apparato di dominio dell’Occidente nella regione, per buttare giù i regimi locali che gli sono infeudati e per rafforzare ed allargare il fronte di lotta contro di esso. Per questa ragione sarebbe indispensabile che i lavoratori, i disoccupati, i contadini poveri avessero propri luoghi di discussione e di organizzazione in cui esprimere liberamente le proprie distinte esigenze di sfruttati che più di tutti pagano il prezzo della guerra, della miseria in cui è stato piombato l’Iraq e dell’occupazione militare occidentale. Non meri organismi "sindacali", estraniati (giammai!) dalla resistenza all’occupante, ma organismi che si pongano anche l’obiettivo di agire con tutti i mezzi a propria disposizione per soddisfare direttamente i bisogni più urgenti delle masse oppresse, per esempio con espropri, con requisizioni, e altri strumenti coercitivi sulle classi proprietarie e sugli occupanti: in questo senso degli organismi "di potere" dotati degli adeguati strumenti di auto-difesa e di attacco. Organismi capaci, inoltre, di raccogliere le drammatiche istanze delle masse oppresse femminili, strappando la bandiera dei diritti delle donne dalle sozze mani degli alleati, ed andando su questo terreno avanti, non indietro, rispetto alle realizzazioni dell’epoca di Saddam.

Quanto alla guida della resistenza, essa non può essere consegnata nelle mani di quelle forze che hanno dato in passato e stanno dando in questi giorni prova di inconseguenza nel condurre la lotta ai grandi poteri dell’imperialismo e che sono indisponibili a battersi realmente contro i privilegi delle classi sfruttatrici in Iraq. Non saranno queste le forze che potranno contrastare quella libanizzazione ed "etnicizzazione" delle masse lavoratrici irachene su cui puntano gli alleati occupanti. La vera fraternizzazione degli sfruttati "sciiti", "sunniti" e curdi può essere, crediamo, opera solo e soltanto degli sfruttati agenti in prima persona, emancipati dalle "loro" direzioni "etniche", "religiose" o "comunitarie" che hanno dato del loro meglio per tenerli divisi. Dovrebbe esserci, per questo, una politica metodica di fraternizzazione, con misure sociali e politiche coerenti e con l’aiuto materiale e militare delle zone più sviluppate e "libere" a quelle in maggiore difficoltà.

Una resistenza popolare all’imperialismo che si connotasse sempre di più come una resistenza imperniata sull’attività degli sfruttati iracheni e sulle loro attese potrebbe più facilmente proiettarsi verso i lavoratori occidentali scuotendoli dal loro torpore e verso la stessa truppa delle armate occidentali, costituita da "gente del popolo" e spesso, come nel caso statunitense, dalle minoranze di colore, che sta cominciando a capire di essere stata costretta a combattere una guerra che non è la propria e che può esser trascinata, come in Vietnam, anche a ribellarsi contro di essa.

Chiediamo troppo, forse, a voi, combattenti dell’Iraq? Non ci sembra. Come non è troppo chiedere a noi stessi di batterci qui, nell’isolamento momentaneo pressocché totale e nel mezzo di un furioso battage anti-islamico, di sostenere con più energia la "causa irachena", la lotta rivoluzionaria dei popoli arabo-islamici e rivendicare il ritiro immediato delle armate di occupazione occidentali. Non è troppo: è semplicemente quello che dobbiamo fare insieme, stringendoci gli uni agli altri nella lotta comune, se vogliamo vincere, non oggi, certo, ma almeno domani o dopodomani, il nemico comune che abbiamo di fronte. Un simile "miracolo" non possiamo aspettarcelo dagli ayatollah "islamici" o dai bonzi della sinistra democratica europea; può farlo solo la lotta comune, l’organizzazione comune degli sfruttati medio-orientali e occidentali. Lavoriamo insieme, a distanza per ora, per questo grande obiettivo!