Per saperne di più
Una lunga tradizione di lotta da conoscere
La lotta anti-coloniale e anti-imperialista che sta riprendendo con tanta forza in Iraq ha dietro di sé una lunga e complessa tradizione, variamente intrecciata con la storia politica del comunismo da un lato, e dall’altro dello stalinismo e dell’islamismo al di fuori dell’Iraq (la lotta "irachena", infatti, non sta a sé rispetto alla vicenda mondiale dello scontro di classe, ma ne è parte integrante, sia per gli influssi che ha esercitato nel mondo arabo, sia per le influenze che ha subìto "dall’esterno").
Chi voglia confrontarsi con essa con la serietà che la questione, centrale nella scena mondiale, impone, deve studiare attentamente l’opera di H. Batatu, The Old Social Classes and the Revolutionary Movements of Iraq, Princeton University Press, 1978. Questa opera, che si arresta alla metà degli anni settanta, rappresenta uno strumento insostituibile soprattutto per comprendere la vecchia e la nuova (dopo la rivoluzione nazionale del 1958) struttura di classe della società irachena, quella struttura di classe che la ossessiva insistenza sulla divisione "etnico-religiosa" della popolazione irachena in "sciiti", "sunniti" e curdi impazzante ai nostri giorni nella propaganda di stato sull’Iraq, cerca in ogni modo di nascondere. Vi è in essa, anche, la dimostrazione che nelle due sollevazioni generali che hanno segnato la storia dell’Iraq, nel 1920 e nel 1958, le classi sfruttate (operai, salariati e contadini poveri) hanno avuto una parte determinante, sebbene poi, come denunziava rispetto all’insurrezione del 1920 un Manifesto della Lega contro l’imperialismo del 1935, "i benefici siano andati invece ai finanzieri, ai signori feudali, agli alti ufficiali... A noi [lavoratori e contadini] sono toccati in sorte soltanto fame, freddo e spietate malattie... e in aggiunta un’orda di esattori-sanguisughe senza un briciolo di umanità..."; una espropriazione dei risultati della lotta che, in altro modo, si è ripetuta, per mano del Baath e della moderna borghesia di stato in esso raccolta, anche dopo la "seconda rivoluzione" del 1958.
Un altro aspetto importante della vita politica dell’Iraq lumeggiato a pieno nel libro di Batatu è la vicenda del Partito comunista iracheno, un partito stalinista con un grande seguito di massa (sul quale esiste oggi una sintetica ricostruzione in lingua italiana per mano di I. Salucci, Operai e contadini in Iraq: il percorso del movimento comunista, dicembre-gennaio 2003). Può darsi che la ricostruzione di Batatu non presti la dovuta attenzione alla funzione svolta dalle autorità religiose, in ispecie sciite, nella lotta politica in Iraq, ma restano di grande utilità gli elementi che egli dà per comprendere come svariate volte sia comparsa nella storia del paese una declinazione "comunistica" del messaggio islamico e, per converso, vi siano stati altrettanti tentativi di adattamento all’Islam della dottrina e del programma del comunismo, e come dietro all’una ed all’altra bandiera abbia poi finito per ritrovarsi, magari artificialmente divisa, la "stessa" massa degli sfruttati più attivi e coscienti delle proprie necessità. Ciò che sta, per noi, ad esprimere quanto sia stata, e sia, forte ed insopprimibile la esigenza delle masse oppresse dell’Iraq di darsi, infine, una propria coerente organizzazione di classe, quale non è venuta finora né da un "comunismo" impropriamente islamizzato, né da un islamismo accortamente tinteggiato in superficie di "comunismo".
Per un inquadramento storico e teorico marxista tanto dell’islamismo delle origini (a cui si richiama tuttora parte del movimento islamista iracheno) quanto della vicenda contemporanea della rivoluzione nazionale araba, di cui la vicenda irachena è parte integrante, nonché delle cause di fondo del non superato separatismo arabo, è indispensabile lo studio di tre articoli comparsi nei nn. 6, 13 e 14 del 1958 de Il programma comunista (possono essere richiesti in fotocopia alla nostra redazione). In questi articoli si spiega in modo sintetico per quale ragione all’"imperialismo gangster del dollaro" preme "impedire la formazione del grande stato unitario che è nelle aspirazioni del movimento pan-arabista", e per primo del Baath delle origini. Non vorremmo apparire immodesti, ma ci sembra che sia da segnalare, come in sostanziale continuità con questa analisi e per l’esame delle vicende più recenti, anche alcuni numeri del che fare, a cominciare dai nn. 19, 20 e 21, degli anni 1990-’91.
Tra i testi usciti in lingua italiana più di recente, è di utile lettura quello di P.-J. Luizard, La questione irachena, Feltrinelli, 2002, di cui abbiamo dato conto, in parte, nel precedente numero. Si tratta di un lavoro quasi "complementare" a quello di Batatu, a misura che esso arriva ai nostri giorni soffermandosi in particolare proprio sull’influenza delle diverse tendenze religiose nella massa della popolazione e sull’attrito tra esse e lo stato diretto da Saddam. Un attrito dietro il quale non vi sono ragioni puramente "religiose" (se mai esistono), bensì sociali. Va detto con chiarezza, tuttavia, che questo testo ha tre grosse pecche: 1)occulta la responsabilità delle potenze imperialiste e dell’Onu nell’infinita "discesa agli inferi" sperimentata nell’ultimo quarto di secolo dall’Iraq; 2)tratta in modo superficiale le differenze e gli antagonismi di classe esistenti nella società irachena; 3)non sa spiegare né spiegarsi perché gli Usa, invece di accettare "un ritorno sorvegliato di Saddam", abbiano optato per la violenta detronizzazione del suo regime (al fondo di questa incomprensione c’è, a nostro avviso, la sottovalutazione del significato anti-imperialista delle lotte e delle guerre, più o meno connotate in senso "religioso", in atto in Iraq, in Palestina, in Afghanistan...). Dalla lettura critica di questo libro e di quello di Batatu, comunque, si può ricostruire in quali circostanze lo sviluppo della lotta anti-coloniale e di quella sociale di classe contro gli sfruttatori interni abbia unito "sciiti" e "sunniti", un tema centrale anche oggi, e quali forze abbiano agito per dividere innaturalmente il campo degli sfruttati dell’Iraq.
Per mettere meglio a fuoco di quale coraggio abbia dato prova fin dall’inizio del novecento il popolo iracheno nella sua resistenza al colonialismo, consigliamo vivamente, infine, la lettura di un articolo di Mike Davis comparso su il manifesto del 10 ottobre 2003, intitolato "Un deserto imperiale", nel quale si ricostruisce in modo illuminante anche per i fatti odierni il brutale terrorismo aereo e terrestre, incluso il terrorismo chimico, adoperato contro la popolazione irachena e curda resistente dall’esercito britannico, su istigazione di Churchill, il "grande eroe" anti-fascista della seconda guerra mondiale. È un vecchio vizio delle democrazie anglo-sassoni, e dell’Occidente tutto, pretendere di "liberare" i popoli "arretrati" a suon di armi di distruzione di massa, ipriti, defolianti, urani impoveriti, atomiche tattiche e quant’altri gingilli rivitalizzanti la loro e nostra "civiltà" possegga. Salvo poi, come vediamo, ritrovarseli di nuovo davanti in piedi, non terrorizzati, anzi: indomiti, per nuove e più aspre battaglie.
A proposito, se proprio vogliamo usare questo linguaggio: dove stanno gli eroi?