Una vera e propria escalation
Esattamente come noi del che fare (pressocché da soli) ci aspettavamo, la resistenza del popolo iracheno non ha tardato a prender corpo, e che corpo!, dopo l’inevitabile sbandamento seguito alla capitolazione di Baghdad. Già a luglio scorso Robert Fisk, uno dei pochi giornalisti non embedded, e cioè non leccapiedi dei generali e degli uomini d’affari yankee o italioti era in grado di scrivere: "gli americani non possono più sentirsi sicuri in alcun luogo dell’Iraq. Sicuramente non all’aeroporto di Baghdad, catturato all’inizio di aprile con il clamore delle fanfare. Ma forse nemmeno nelle loro basi, o nelle strade del centro di Baghdad. Addirittura sui loro elicotteri o in aperta campagna devono sentirsi in pericolo. Perché in Iraq è in corso una vera e propria guerriglia. Che sfugge sempre più ad ogni controllo" (l’Unità, 22 luglio).
Ed in effetti le sguaiate fanfare della vittoria hanno da tempo ceduto il passo alle marce funebri per i "nostri" caduti, mentre stanno naufragando l’uno dopo l’altro i tentativi di minimizzare quello che Tariq Alì ha definito "il classico stadio iniziale di una guerra di guerriglia contro un’occupazione coloniale" (The Guardian, 3 novembre). Si tratta degli ultimi fedelissimi di Saddam guidati dai suoi figli, ci vorrà poco a sbaragliarli: si disse subito con ostentata sicumera. Senonché, uccisi i figli di Saddam, le azioni contro le truppe d’occupazione sono aumentate in modo esponenziale. Spiegazione di riserva: si tratta solo del "triangolo sunnita", poca roba (ancorché con dentro una cosina di nome Baghdad...), il resto dell’Iraq è calmo o, addirittura, è "con noi". Manco il tempo di ripetere questo ritornello per l’abituale lavaggio demo-totalitario dei nostri "liberi" cervelli, ed ecco l’Iraq accendersi di azioni di protesta e di guerra da Bassora a Najaf, da Nassiryia a Mosul, da Kirkuk ai confini della Giordania. È gente venuta da fuori, infiltrati stranieri, si è insinuato allora; le pur maledettamente scarne informazioni e foto dall’Iraq ci mostrano invece piazze popolate, talvolta traboccanti, di dimostranti autoctoni, e autoctona è la gran parte dei guerriglieri in azione. Anche questo argomento, dunque, è falso e per giunta fesso, come nota ancora Tariq Alì: "se a Baghdad e a Najaf ci sono polacchi e ucraini [assai poco arabi, notoriamente, n.], perché non dovrebbero esserci altri arabi [veri, n.] accorsi in aiuto agli iracheni?". Arriva a questo punto la Moab mediatica, la super-bomba che la propaganda bellicista occidentale cala sulle teste del pubblico per schiacciare ogni possibilità di dissenso e di opposizione: nessuna resistenza, è soltanto terrorismo, criminale terrorismo. La risposta giusta è venuta dalle strade di Londra: sono i Bush, i Blair, aggiungiamo noi: i Berlusconi, i veri terroristi. Quanto poi alle azioni della resistenza irachena, incluse quelle suicìde, il puro e nudo fatto è il seguente: è in atto una guerra, di schiavizzazione e rapina da un lato, di liberazione dall’altro, e ognuno la combatte con i mezzi che ha a disposizione. Capiamo bene perché si voglia vietare l’uso del termine resistenza, però è proprio di questo che si tratta: di una resistenza popolare sempre più ampia, che sta affasciando perfino quanti inizialmente si erano tenuti in disparte sperando (un sogno a occhi aperti!) che USA&C., detronizzato Saddam, se ne sarebbero andati, o anche i primi contingenti di poliziotti reclutati dagli occupanti (fatto già accaduto in Palestina). È una resistenza di massa a cui partecipano insieme "sunniti" e "sciiti" e da cui non sono assenti i curdi (e non soltanto quelli raccolti in Ansar al-Islam); che coinvolge nell’odio verso gli occupanti e nel sostegno ai combattenti tutti gli strati sociali popolari, non lasciando indifferenti neppure le classi intermedie; una resistenza da cui si sono demarcati in modo aperto solo i profittatori-quisling alla Chalabi e i detriti semi-feudali o semi-patriarcali da "noi" civili riesumati dalle loro tombe. Una resistenza che ha assunto, come si conviene a una guerra di liberazione nazionale, una molteplicità di forme che vanno senza soluzione di continuità dalle dimostrazioni pacifiche per il pagamento degli stipendi arretrati (le rare volte in cui i "nostri" cari marines o carabinieri non gli sparano addosso) e dalle petizioni presentate dai disoccupati alle autorità di occupazione fino alle azioni di guerriglia e agli attacchi dei kamikaze.
L’escalation di questa lotta è stata superba, arrivando in poco tempo dal suo avvìo a colpire i quartieri generali della Cia e del Mossad e lo stesso Comando generale statunitense, a rendere insicuri ai super-blindati elicotteri alleati i cieli dell’Iraq, a centrare in pieno super-protetti generali e si è estesa doverosamente a tutte le truppe di occupazione, inglesi, italiane, etc., ed alle strutture collaterali alle forze armate dell’imperialismo occidentale, quali l’Onu (affamatrice delle genti dell’Iraq) e le organizzazioni falsamente "non governative" sul genere di Oxfam, Croce rossa e via dicendo. Gli Stati Uniti, l’Occidente tutto ne sono rimasti stupìti e preoccupati fino al punto che oggi "anche paesi come la Francia, la Russia e la Germania, ostili fin dall’inizio alla guerra, considerano necessario un appoggio moderato agli Stati Uniti, perché un disastro in Iraq avrebbe conseguenze catastrofiche per la stabilità mondiale" (così, G. Kepel su la repubblica del 19 ottobre).
Le diverse anime della resistenza
Il primo passo, dunque, è compiuto. Il popolo dell’Iraq, memore delle sue tradizioni di lotta al vecchio colonialismo democratico britannico, si è orgogliosamente rialzato in piedi sfidando il nuovo colonialismo democratico a guida statunitense, più brutale e vampiro del suo progenitore. Ma è solo un primo passo.
Per quanto forte sia l’eco della resistenza irachena nell’intero Sud del mondo, e per quanto convergenti siano finora le sue operazioni militari, essa resta frastagliata in una molteplicità di gruppi (almeno 40, sembra), priva di quella centralizzazione programmatica ed organizzativa, di quell’indirizzo di classe e coerentemente internazionalista che solo le potrà dare reali chances di vittoria contro gli alleati. Per quel poco che ci è dato sapere attraverso le strettissime maglie della ferrea censura, anche telematica, in atto, capace di far scomparire dalla rete in un attimo i testi delle organizzazioni arabe e islamiche in campo, essa ha al momento due anime: l’anima nazionalista, incarnata da quel poco che resta del Baath dopo la sua ingloriosa dissoluzione e da altre tendenze "irachene" che si vogliono più militanti o più del Baath "aperte" ai bisogni delle classi popolari; e l’anima islamista, con una molteplicità di "sfumature" (e assai più che sfumature) al suo interno, che vanno dall’islamismo più moderato e filo-iraniano, nient’affatto alieno dal fare il doppio gioco con il nemico anche quando è costretto dalla pressione della sua base sociale "plebea" a dotarsi di un proprio armamento (è il caso dello Sciri guidato dagli al-Hakim, componente del "governo" installato dagli occupanti), all’islamismo più militante e capace di parlare alle masse povere un tempo organizzate nel Partito comunista, quale è quello di Muqtada al-Sadr, fino al radicalismo jihadista filo-Bin Laden (presente anche tra i curdi), che vede nell’Iraq soltanto uno dei campi di battaglia dello "scontro frontale", in apparenza non passibile di alcuna mediazione, tra Occidente ed Islam. A complicare ulteriormente i rapporti interni a questa galassia di forze giocano pure lo sviluppo diseguale dell’Iraq, esaltato da un quindicennio di guerre, embarghi e semi-occupazione del paese, tagliato com’è da tempo in tre tronconi poco comunicanti tra loro, e la politica di libanizzazione, di etnicizzazione e di separatismo a sfondo religioso accanitamente perseguita dalle cancellerie (e macellerie) di Washington, Roma, Londra e soci.
Non ci è possibile dire al momento se i "comunisti-patriottici" (o Opposizione patriottica) che stanno per separarsi dal vecchio involucro del Pci e stanno raggiungendo le fila della resistenza, saranno in grado di costituire un’altra posizione capace di distinguersi realmente da quelle nazionalista e islamista. Ci sembra improbabile, dal momento che già negli anni ’60 questo partito prima inclinò e poi precipitò nel più angusto e suicìda (per gli interessi della classe operaia e dei contadini poveri in esso organizzati) nazionalismo; l’ipotesi più verosimile è che le forze influenzate da Ahmed Karim e dai suoi sodali finiranno per far blocco, a seconda dei casi, con le forze nazionaliste o con quelle islamiste.
Queste due tendenze politiche (o fasci di tendenze politiche) convergono nel volere la cacciata (o il pacifico ritiro) degli Usa e degli alleati dall’Iraq e nel richiedere per l’Iraq e per l’Islam un posto più equo nel mercato mondiale (nessuno di questi gruppi mette in discussione il capitalismo in quanto tale), ma divergono sui metodi di azione e sul raggio d’azione della lotta, sulla sua "internazionalizzazione". Una certa diversità c’è anche nelle rispettive basi sociali "di riferimento": al nazionalismo (sia esso o meno di impronta baathista) paiono prevalentemente inclini le forze sociali intermedie e quel che resta in campo dei vecchi apparati del regime saddamita, mentre le correnti di ispirazione islamica hanno un insediamento popolare assai più profondo (non privo di conseguenze sulla loro tattica politica). Le incombenze della lotta contro gli occupanti fanno sì che, al momento, le contraddizioni sociali e politiche tra le due tendenze e dentro ciascuna di esse siano, anche intenzionalmente, in secondo piano, ma è inevitabile che esse vengano a maturazione, se non ad esplosione.
Passaggi difficili
Anche perché gli Usa&C. sono determinati ad affondare in esse le loro lame, combinando (ancorché non sarà facilissimo neppure per loro) il martellamento violento sulle zone più ribelli (filo-Saddam o islamiste che esse siano) e, se necessario, una vera e propria ripresa delle operazioni belliche su larga scala, con l’"apertura" ad una parte della nomenklatura politico-militare del deposto regime (a fine settembre un giornale inglese pubblicava addirittura notizie, non implausibili, di un contatto diretto con lo stesso Saddam per un qualche accomodamento...), e la contrapposta "chiusura totale" agli jihadisti e agli "stranieri". Ancor più determinate ad agire in tal senso appaiono le potenze europee rimaste finora estranee alle operazioni belliche e l’Onu, le une e l’altro tutt’altro che rassegnati a restar fuori dalla spartizione delle ricchezze dell’Iraq, ma costretti dalle circostanze a poter rientrare in gioco solo sotto le mentite spoglie della "restituzione dell’Iraq agli iracheni"; una manovra che può avere un qualche margine di riuscita alla condizione di cooptare nell’amministrazione neo-coloniale dell’Iraq (sempre e comunque "nostra", in definitiva) elementi e gruppi meno squalificati degli attuali agli occhi delle masse irachene.
Si prospetta perciò un passaggio difficile per la resistenza, non solo sul piano militare, ma anche e soprattutto su quello politico, sia per l’intensificazione delle manovre politico-diplomatiche degli stati occidentali, sia perché la stessa popolazione irachena, martoriata dalla guerra e dagli embarghi assassini degli ultimi 15 interminabili anni, potrebbe non vedere di mal occhio un attimo di respiro ove vi fosse un qualche segno di ripresa di una vita economica e sociale un minimo "normale". I militanti anti-imperialisti dell’Iraq, ci riferiamo soprattutto alla nuova leva di militanti che si sta formando nel fuoco della guerra agli alleati, per superare indenni le difficili prove politiche, oltre che militari, che li attendono, sono chiamati a fare un severo bilancio della precedente lotta, irachena ed arabo-islamica, contro l’imperialismo, del perché siamo, a Baghdad, a Gaza, a Kabul al punto in cui siamo e a darsi un programma di lotta e una strategia generale adeguate per sconfiggere definitivamente il nemico a cui oggi resistono.