Ho letto per caso la vostra pagina web. Ho letto chi siete e a quale storia siete legati. Vorrei sapere cosa ne pensate delle cooperative sociali. Io ci lavoro, so da quale meravigliosa storia nascono. Per quel che ho capito, attualmente non tutte sono legate alle idee di sinistra. Comunque la mia domanda è: avete mai affrontato il tema del lavoro nelle cooperative? Nessuno o poche anime hanno mai affrontato questo tema, che io definisco problema.

Lavoro come Adest (assistente domiciliare e dei servizi tutelari) futura OSS (operatore socio-assistenziale, inquadramento non più solo regionale ma nazionale) in una casa alloggio per malati di aids. Le condizioni di lavoro sono alquanto discutibili (e sto parlando in generale in quanto conosco diverse adest) per: orari di lavoro e riposi che vengono posticipati a causa di mancanza di personale e di capacità organizzative; non viene pagata l’indennità di turno. Oltre tutto la retribuzione per il turno di notte è ridicola.

L’idea che viene usata strumentalmente, che il nostro lavoro sia una missione umanitaria quotidiana porta a subire condizioni lavorative che in altri campi non sarebbero accettate. "Perché se non accetti sei un miserabile egoista che non capisce i bisogni dell’utente e noi come cooperativa non siamo colpevoli delle inefficienze". Il che è vero a volte ma non ho mai sentito che una cooperativa lotta per migliorare la qualità di vita del proprio lavoratore.

La retribuzione è inferiore alla stessa figura che lavora in ospedale (800 euro circa a fronte di 1000 euro almeno), per non dire che 800 euro non può essere definito stipendio, non posso nemmeno concepire l’idea di andare a vivere da sola.

La scarsa conoscenza, per essere gentile, del peso emotivo che un simile lavoro comporta e quindi la totale mancanza di strategie che limitino o aiutino il lavoratore in caso di forte stress; il quale porta ad uno stato definito in termine tecnico borderline. Si supplisce per fortuna ma non in tutte le cooperative con una riunione settimanale con la psicologa. So che per es. in altri paesi (Germania) hanno istituito un anno sabbatico retribuito per chi sente il bisogno di staccare da una situazione di forte usura psico-fisica.

Per non parlare della situazione ambigua di socio-lavoratore che nella realtà è completamente diversa. Il bilancio che presentano le cooperative alle riunioni è ridicolo, nel migliore dei casi è poco chiaro. Durante le assenze per malattia dei colleghi non subentra mai una figura che sostituisca l’assente, con la conseguenza d’un carico lavorativo non indifferente su chi è al lavoro.

Comunque vedo che sto dilungandomi alquanto… vi chiedo solo di affrontare questo tema sul vostro giornale. Non fate finta anche voi che il problema non esista (ho cercato di incontrare qualche sindacalista, lasciamo perdere… le cooperative sembrano intoccabili).

Vi chiedo onestà intellettuale anche se stiamo parlando di cooperative! Ed io sono una donna di sinistra, non pidiessina, forse da quando sono nata!

Cordiali saluti

Silvia

 

Riceviamo e pubblichiamo con piacere la lettera di Silvia, raccogliendo lo stimolo ad affrontare sul nostro giornale il tema (o problema, come giustamente lo definisce la nostra lettrice) del lavoro nelle cooperative "sociali". Un tema che sino ad ora non è stato adeguatamente approfondito sul che fare, sebbene più volte, direttamente o indirettamente, lo abbiamo toccato con riferimento alla questione giovanile (vedi n.59), al processo di terziarizzazione nelle grandi fabbriche (vedi n.53), al lavoro nel Nord-Est (vedi n.45). Un tema che rientra pienamente all’interno del nostro bilancio sull’attacco ai diritti dei lavoratori negli ultimi anni, ed è pertanto parte integrante del ragionamento complessivo che facciamo, nella pagina a fianco, sulla necessità, da parte dei lavoratori, di dotarsi di una politica ed un’azione di lotta distinte ed autonome dagli interessi aziendali e nazionali.

Il mondo del lavoro nelle cooperative è estremamente articolato (e disarticolante), un laboratorio di flessibilità e precarietà, la cui "forza" di sfruttamento e ricattabilità consiste esattamente (a prescindere dalla volontà di qualcuno) nella definizione di "sociale" che accompagna il sostantivo cooperativa. A lavorarvi sono, infatti, nella maggior parte dei casi giovani spinti da un sano sentimento di solidarietà verso i soggetti cosiddetti "deboli" (noi preferiamo definirli soggetti emarginati da una società che produce disagio sociale), sentimento che spesso rimane fortemente schiacciato e frustrato (quello che i "tecnici" definiscono "bourn-out") da inumane condizioni di lavoro. Nella pratica del lavoro quotidiano accade, infatti, che il fine per il quale sono nate le cooperative -ossia fornire una rete di supporto sociale, economico e lavorativo a persone in difficoltà- diventi (in una società che produce e sfrutta il disagio) un mezzo di profitto. Basta pensare a tutte le cooperative che hanno preso il volo con la costituzione di case alloggio per tossicodipendenti, per donne schiave della tratta del sesso, per bambini e ragazzi privi di una rete familiare "solida", per malati di aids etc. etc. Per non parlare di quante associazioni, fondazioni o altro si trasformano in cooperative sociali perché, in quanto tali, usufruiscono di innumerevoli agevolazioni fiscali, non ultima la definizione per diritto di ONLUS (associazione non a fini di lucro), che garantisce l’esenzione da una serie di tasse tra cui quelle immobiliari.

Dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, vale per le cooperative quanto già in articoli precedenti del giornale dicevamo a proposito del lavoro a rete del "modello Benetton". Anche in questo caso, infatti, abbiamo un committente, che è l’ente pubblico, il quale tramite una gara d’appalto stabilisce a quale ente privato affidare la gestione di un determinato servizio (anche se ormai le cooperative stanno entrando in tutti i settori del mondo del lavoro, compresi quelli più propriamente produttivi). Vince la gara d’appalto la cooperativa che dimostri di riuscire a "garantire" il "miglior" servizio al minor costo possibile. Ciò significa che l’ente pubblico può decidere di non farsi carico direttamente dell’intervento nei settori socio-sanitari educativi e/o assistenziale, appaltando il lavoro a terzi privati (con un significativo risparmio economico). Ne consegue che a coloro che lavorano a diretto contatto con l’"utenza" (tossicodipendenti, malati di aids, disabili, carcerati, anziani, minori…) sono richieste delle prestazioni di "alto livello" quali professionalità, qualità e competenza (ovverossia: maggiore produttività al minor costo), mentre sono chiamati a sopportare condizioni contrattuali iper-precarie e iper-flessibili. Detto in altri termini: per i lavoratori delle cooperative (pardon, per i soci, come vedremo più avanti), questo significa subire -in nome della particolarità dell’attributo "sociale" che accompagna il "servizio" prestato- quelle condizioni di lavoro di cui parla Silvia: carichi emotivi e mentali fortemente stressanti, orari di lavoro prolungati, riposi saltati, indennità non pagate (esemplare è il caso delle trasferte non retribuite o retribuite con compensi ridicoli; delle notti non pagate o pagate poco perché, come accade nella gran parte dei casi, si tratta di "vigilanza"!).

Le condizioni finora descritte, tipiche di un lavoratore delle cooperative sociali, in un quadro di generale deterioramento delle condizioni di lavoro qual è quell’attuale (attacco all’art.18, tagli alle pensioni, estensione della precarietà e della flessibilità in tutti i settori), stanno ulteriormente peggiorando. Non per ultimo a causa della modifica della legge 142/2001 che disciplina lo status di socio-lavoratore.

Con questa modifica viene eliminato un punto cardine della legge, che era costituito dal passaggio da socio lavoratore a lavoratore dipendente, come ulteriore rapporto di lavoro con la cooperativa. Nella delega approvata si vuole, inoltre, cancellare ogni riferimento ai contratti collettivi nazionali (cui attualmente devono far riferimento le cooperative) salvo quello al trattamento economico minimo. Per un lavoratore delle cooperative ciò implica la possibilità di essere licenziato senza bisogno, da parte del consiglio d’amministrazione, di passare attraverso un tribunale che ne verifichi la giusta causa. Inoltre, ad una persona che oggi "chiede" di lavorare in una cooperativa (in realtà nella stragrande maggioranza dei casi si è costretti a ricorrervi perché non c’è molto altro) viene richiesto innanzi tutto di aderirvi in qualità di socio.

In virtù del primario rapporto di socio, in caso di crisi aziendale, il consiglio d’amministrazione può deliberare un piano per salvaguardare i livelli occupazionali e i soci-lavoratori (ossia i vecchi dipendenti di cooperativa) saranno chiamati a contribuire anche economicamente alla soluzione. Ciò significa che tutte quelle tutele (minime, quali la salvaguardia dell’articolo 18 o il riferimento ai contratti collettivi) che erano garantite dalla 142 al dipendente di una cooperativa, oggi cadono con la restrizione al solo rapporto preminente, che è quello associativo. Si tratta di un ulteriore passo avanti nella giungla della precarietà e della flessibilità, nonché in direzione della più spinta individualizzazione del rapporto di lavoro. Sarebbe il caso di dire: oltre al danno anche la beffa!

In verità quanto sta accadendo nel mondo delle cooperative non è altro che il modello cui mirano tutti i settori produttivi e dei servizi. Non è questa la sede per approfondire le ragioni che "costringono" oggi tutte le aziende (cooperative comprese) a proseguire nell’opera di balcanizzazione del mondo del lavoro. Sono ragioni strettamente legate al complessivo ragionamento che svolgiamo su questo numero del giornale anche in relazione al tema della guerra e all’aggressione duplice contro le popolazioni del Sud del mondo e contro i lavoratori metropolitani ed immigrati nel Nord del mondo.

Sappiamo di rischiare di essere ripetitivi, ma non vediamo altra soluzione al supersfruttamento ed alla precarietà sperimentate sempre più anche dai lavoratori delle cooperative "sociali" che quella della lotta unitaria di tutti i lavoratori. Che in concreto significa cominciare a lavorare per un’organizzazione autonoma dei lavoratori, che a partire dai propri posti di lavoro si allarghi e si colleghi con il resto dei proletari e degli sfruttati tutti. Altre strade percorribili non ne vediamo, la storia non ce ne ha fornito esempi.