Un continente in movimento

Fratture sociali, scontro politico, guerra di classe vera e propria. Tutta l’America Latina è attraversata da un profondo movimento. In esso si intrecciano due piani di resistenza al saccheggio delle centrali capitaliste nordamericane ed europee. Da un lato, quello degli stati. Dall’altro lato quello che vede protagonisti gli operai, i contadini e le masse oppresse del continente.

 

Stretti dai meccanismi economici dell’imperialismo e sotto la pressione di un’emergenza sociale dilagante, il Venezuela di Chavez, il Brasile di Lula, l’Argentina di Kirchner tentano di allargare le maglie del controllo delle banche e delle diplomazie occidentali cui sono sottoposti. Tentano di strappare un qualche spazio autonomo di manovra all’interno del mercato capitalistico mondiale, di contrattare una qualche protezione delle proprie economie, delle proprie merci, "dei propri popoli" come tutto ciò si traduce nella lingua dei dirigenti politici borghesi. Con accentuazioni, toni e modalità diverse Lula, Chavez, Kirchner levano "il grido di dolore del popolo" davanti ai potenti della terra, e richiedono una più giusta ripartizione delle risorse, una organizzazione dei commerci e dei mercati finanziari fondata su regole meno truccate di quelle attuali.

La linea di resistenza portata avanti da queste dirigenze politiche "patriottiche" o "progressiste" non è arrivata alla creazione di un autentico fronte di paesi (quell’"asse Caracas-Rio de Janeiro-Buenos Aires" con l’Avana stella polare vagheggiato dai più estremi patrioti del continente) capace, non diciamo di sfidare, ma almeno di contrattare con una sola voce e con più forza di fronte ai poteri imperialisti. Quello che si sta realizzando è solo un intreccio di manovre economiche e diplomatiche fra stati accomunati dalla medesima sventura di ritrovarsi strangolati, e a dovere negoziare le risorse della propria terra e della propria forza lavoro davanti agli stessi strozzini.

Anche in una misura così limitata, tuttavia, la cosa sembra funzionare.

A Cancun il Brasile di Lula ha capitanato un fronte di paesi del calibro della Cina, dell’India e del Sudafrica, che è riuscito a bloccare un nuovo accordo pensato dal capitale degli Usa e dell’Europa di Prodi per sancire una più profonda manomissione delle risorse dei paesi del Sud del Mondo. Per effetto soprattutto della pressione congiunta del Brasile e dell’Argentina ha subìto poi un nuovo stop il progetto Alca (una zona "di libero scambio" dall’Alaska alla Terra del Fuoco, e cioè una zona di libere scorrerie senza barriere né vincoli per le multinazionali a nord del Rio Grande).

Questi risultati parziali, che innegabilmente mettono il bastone fra le ruote chiodate dell’imperialismo, possono essere bastevoli? La realtà mostra che essi sono solo le premesse di una più aspra continuazione dello scontro con Washington e Bruxelles. I governi che hanno ottenuti questi parziali risultati non li stanno, però, utilizzando per incoraggiare e rafforzare l’elemento di forza decisivo in questa continuazione, e cioè la mobilitazione e l’organizzazione delle "proprie" masse lavoratrici. La posizione assunta da Lula e Kirchner nella "crisi boliviana" rivela una posizione opposta. Rivela tutt’altro che armonia tra questa linea di resistenza statuale e l’altra scossa che percorre il continente, e cioè la guerra di classe condotta in prima persona dal proletariato latinoamericano.

 

Un’intera classe è entrata in movimento: piqueteros argentini, contadini poveri, minatori boliviani, indios delle Ande, diseredati dei barrios di Caracas… Qualcuno ha notato come, da una decina d’anni a questa parte, i presidenti "liberamente eletti" cadano come birilli sotto la spinta di rivolte di massa. Per ultimo è toccato a De La Rua in Argentina e a Gonzalo Sanchez in Bolivia. Come diceva il popolo festante a La Paz: "Se puede, si può!" Si possono cacciare in piazza i governi. Si può contrastare efficacemente con la forza e l’azione di classe sia l’Fmi che l’imperialismo...

Il grande problema da risolvere è come non farsi sfilare dalla classe sfruttatrice i risultati di queste sollevazioni, come non farsi ricacciare sempre all’indietro, come dotarsi di un programma e di un’organizzazione di partito in grado di unire le straordinarie potenzialità di lotta del proletariato latino-americano e di rivolgersi con energia agli sfruttati dell’America del Nord e dell’Europa per battersi insieme contro il mostro capitalista-imperialista che a tutti succhia la vita, seppur in modo diseguale.

In questa sfida non si può contare o "giocar di sponda" con la politica degli stati "progressisti" o "patriottici". In Bolivia come in Brasile, i lottatori più avanzati dei vari settori della popolazione lavoratrice sono chiamati a dotare il movimento di un’organizzazione di lotta autonoma. Che questo bisogno cominci ad essere maturo lo testimonia, ad esempio, la "cronaca"-riflessione, pubblicata sul sito http://www.alencontre.org, di un incontro tenutosi il 22 novembre in Brasile.

Questa organizzazione non potrà essere calata dall’alto, è vero, come uno stampo pre-confezionato al di fuori del corso delle iniziative di lotta. Ma neanche rimandata ad una "tappa successiva", in attesa di "un di più" di coscienza e di organizzazione degli sfruttati che, spontaneamente, non verrà mai, se la forza rivoluzionaria della spontaneità e della creatività della classe lavoratrice non s’incontrerà, fecondandosi a vicenda, con la forza della teoria e dell’organizzazione marxiste rivoluzionarie. L’ultima fiammata della guerra di classe latinamericana, la sollevazione boliviana, è stata densa d’indicazioni al proposito, come emerge dai documenti che pubblichiamo. Ne parliamo nell’articolo di commento che li accompagna.

Una grandiosa rivolta di massa ha portato il 18 ottobre alla cacciata del presidente boliviano Gonzalo Sanchez, regolarmente eletto con tanto di certificazione democratica e riparato con famiglia ed alcuni ministri in lidi più sicuri per tipi di criminali del genere, e cioè a Miami in Florida. Un simile risultato non è stato semplicemente il frutto di una mobilitazione improvvisata. È stata il culmine di una serie di iniziative di lotta locali e settoriali, le quali, nel corso dello scontro, hanno trovato giusto e necessario stabilire collegamenti reciproci e dotarsi di organismi permanenti, fino a convergere dietro il comune obiettivo politico generale dell’assedio al potere borghese di Sanchez.

Giù le mani dalla nostra acqua!

Giù le mani dai nostri salari, dal nostro gas, dalla nostra vita!

Privatizzazioni delle infrastrutture e delle miniere, licenziamenti di massa (oltre 20mila i minatori cacciati), aumenti dei prezzi dei generi di largo consumo, misure di aggravio della miseria dei contadini poveri... per quindici anni il governo di Bogotà era riuscito ad imporre le politiche "suggerite" dalle banche occidentali, mettendo a tacere e scompaginando la resistenza dei settori sociali colpiti. Tre anni fa il primo segnale in contro-tendenza. "Nell’anno 2000, un caso unico al mondo, la gente [di Cochabamba] de-privatizzò l’acqua. I contadini camminarono dalle valli e bloccarono la città e anche la città si ribellò. Gli risposero a suon di proiettili e di gas, il governo decretò lo stato d’assedio, ma la ribellione collettiva andò avanti, inarrestabile, finché l’acqua fu strappata dalle mani dell’impresa Bechtel [la multinazionale Usa a cui il governo aveva assegnato l’appalto] e la gente poté di nuovo innaffiare il proprio corpo e le proprie colture" (Galeano sul manifesto del 19 ottobre). Dalla guerra dell’acqua germogliò lo sviluppo di strutture organizzate e di corrispondenti iniziative specifiche tra i contadini della zona (che comprendono una parte degli operai licenziati dalle fabbriche negli anni precedenti), gli abitanti impoveriti della città e gli indigeni dell’altopiano.

In un primo momento esse cercarono di far sentire la loro voce nella politica generale del paese attraverso la rappresentanza parlamentare. L’esperienza fu bruciante. Anche perché, nel frattempo, nuovi carichi da novanta si erano aggiunti al solito fardello: la minaccia dell’integrazione nell’Alca, la politica di sradicamento delle coltivazioni di coca dei contadini associati (con l’assassinio di più di 250 persone), il progetto di svendita degli idrocarburi alle multinazionali statunitensi.

Quando, nel febbraio 2003, il governo provò ad introdurre una nuova tassa sui salari, in presenza a Bogotà della delegazione del Fmi, la miscela esplose. La lotta trovò a fianco dei protagonisti delle precedenti mobilitazioni anche i minatori e una parte dei poliziotti. Il governo fece sparare sui manifestanti, ne assassinò una trentina, ma non ebbe partita vinta. Sanchez fu costretto ad un nuovo passo indietro. Il terzo, quello d’ottobre, gli è costato la presidenza.

Stavolta è toccato al gas, consegnato alla metà del prezzo internazionale (già stracciato) nelle mani di due multinazionali occidentali per il rifornimento della California super-tecnologica e super-divoratrice di energia. La mobilitazione è partita il 19 settembre, convocata dal Mas ("Movimento al Socialismo") e dai sindacati dei contadini (l’uno e gli altri legati al movimento degli indios) attorno a rivendicazioni moderate come la vendita del gas a prezzi più equi e vantaggiosi per la Bolivia, e senza parlare di dimissioni del governo. È stata la determinazione del governo e delle forze che gli stanno dietro a Washington e Bruxelles ad aver costretto le masse lavoratrici a vedere come unico sbocco della "vertenza" la caduta di Sanchez. E ad averle spinte a perseguirla attraverso la generalizzazione della lotta, con manifestazioni, blocchi stradali, scontri militari.

La mediazione impossibile e velenosa di Lula

A disinnescare la rivolta che montava, non è bastato l’intervento di Lula, che si è presentato come "mediatore" fra il governo e i manifestanti. Con quale proposta di accordo? Con la soluzione di far partire il gas da un porto brasiliano anziché cileno, così da non urtare i sentimenti nazionalistici dei boliviani! La soluzione prospettata da Lula era alquanto vile, non solo perché non arginava il saccheggio occidentale, ma anche perché accreditava la falsa interpretazione nazionalistica della rivolta, che ha trovato spazio sulla stampa borghese sia boliviana che occidentale, secondo la quale la rabbia dei boliviani si sarebbe scatenata una volta appreso che il loro gas sarebbe partito dal porto boliviano di Antofagasta passato al Cile nel 1883 in seguito alla cosiddetta guerra del Pacifico.

Il punto di svolta si è avuto quando la Central Obrera de Bolivia (Cob) ha chiamato allo sciopero generale ad oltranza (cui inizialmente il Mas non ha aderito) su rivendicazioni più radicali unificanti per i vari settori sociali in lotta: dimissioni del presidente, nazionalizzazione del gas, utilizzo della risorsa per l’elettrificazione delle campagne. Lo scontro è allora diventato durissimo: in due giorni, l’11 e il 13 ottobre, sono uccisi decine di manifestanti; i minatori armati di dinamite si mettono in marcia verso la capitale; gli indios e i contadini scendono in strada per bloccare gli accessi alla capitale e impedire l’afflusso dei militari; interi gruppi di soldati ed ufficiali si rifiutano di sparare sugli sfruttati in rivolta, settori di ceto medio simpatizzano con essa... Mentre gli Usa e l’Ue appoggiano il governo fino all’ultimo, Lula e Kirchner lo condannano ufficialmente solo il 16 di ottobre, quando ormai è chiaro che il movimento di lotta non è più contenibile e con la preoccupazione, esplicita, che esso dilaghi oltre i confini boliviani.

"Se puede!"

La "continuità istituzionale", come chiamano la perpetuazione del dominio di classe sul proletariato, è stata alfine trovata attorno a Carlos Mesa che di Sanchez era il vice, prima di dissociarsene negli ultimi giorni insieme ad una parte del governo stesso. Appena insediato, il nuovo governo "di riconciliazione" ha ritirato il decreto sulla privatizzazione del gas, si è impegnato ad indire un referendum sul gas boliviano, ha liberato i lottatori arrestati e promesso nuove elezioni. Solo a questo punto, dopo due settimane di sciopero generale che hanno lasciato sul campo 80 morti e oltre 500 feriti, la Cob ha sancito il "ripiegamento tattico". "Se puede!", hanno rilevato innanzitutto gli operai e gli oppressi della Bolivia in una vibrante assemblea generale di bilancio della lotta. Adesso sappiamo come mettere uno stop al "neo-liberismo". Altro che petizioni e delega parlamentare! Ci vuole il protagonismo diretto degli sfruttati, ci vuole la loro organizzazione capillare, il blocco delle arterie vitali dell’economia, la convergenza delle loro forze. Vero per Bogotà e per il resto del mondo.

Ma solo questo, hanno aggiunto gli operai e i contadini boliviani, non può bastare: sappiamo che il nuovo presidente riprenderà la politica di Sanchez, che tornerà a spararci. "Non vogliamo solo un cambio di persone, vogliamo cambiamenti reali e profondi", è scritto nel documento dell’esecutivo della Cob. Vogliamo che lo sfruttamento degli idrocarburi serva allo sviluppo della nostra gente, e non alla nostra miseria e all’arricchimento dell’Occidente, come è successo già con l’argento del Potosì, nel cinquecento e seicento, e poi con lo stagno nel corso del XX secolo. A tal fine, abbiamo imparato che il gas e altri prodotti nostrani che esportiamo grezzi o semi-grezzi, vanno lavorati qui. Che ci dobbiamo dotare delle macchine per effettuare noi queste lavorazioni. Che una simile industrializzazione può marciare solo in stretto legame con una vera riforma agraria e con il rigetto dell’adesione all’Alca. Che per ottenere questi "profondi cambiamenti" occorre, come ha detto tra gli applausi esultanti dell’assemblea il dirigente contadino Rufo Calle, "un governo nostro". Che oggi ancora non siamo pronti per imporlo, perché solo adesso, solo grazie a quello che è accaduto, ci stiamo rendendo conto che "non abbiamo pensato con serietà a quello che sarebbe dovuto avvenire dopo."

Ma i gringos torneranno all’attacco.

Cosa dovrà avvenire, comincia tuttavia ad essere chiaro nell’esigenza reclamata a più voci di una piattaforma programmatica unificante e di un’organizzazione comune su di essa incardinata. Quest’esigenza, che per noi è, al fondo, l’esigenza di un partito dei lavoratori autenticamente rivoluzionario, vive già negli organismi settoriali che si sono costituiti, nelle loro assemblee di coordinamento, nelle esperienze d’auto-governo nate in alcune zone di campagna o in certi quartieri, nelle battaglie via via più generali ingaggiate insieme, nei primi tentativi in corso di auto-difesa e armamento popolare, nell’unità che comincia a stabilirsi tra i lavoratori delle campagne e gli operai. Per diventare carne e sangue e rispondere, come è stato detto nella stessa assemblea, alle "basi delle nostre organizzazioni che hanno fame di giustizia", essa ha bisogno di fare i conti fino in fondo con il campo dei nemici che sarà ben determinato a sbarrargli la strada. Il neo-presidente Mesa, il padronato e i proprietari fondiarii boliviani? Senza dubbio. Ma soprattutto le forze economiche e militari del capitale nordamericano ed europeo. Lo ha rilevato lo stesso segretario della Cob quando nell’assemblea generale del 17 ottobre ha affermato: "Per continuare a dominare in America Latina, i gringos faranno appello alle armi per piegarci. È per questo che dobbiamo pensare a come risponderemo ad una possibile invasione e aggressione internazionale motivata con vari pretesti, come si fece a Panama nel 1989 e in altri paesi".

Come si fece con la stessa Bolivia nel 1879, attraverso l’intervento del Cile, quando La Paz tentò di imporre una tassa alle compagnie occidentali che estraevano il salnitro dall’allora boliviana zona di Antofagasta. Come si fece, poco dopo, ai danni dello stesso Cile, colpevole di aver avviato, sull’onda della vittoria militare, un programma di modernizzazione industriale troppo autonomo per i gusti di Londra. Come si fece, di nuovo, con il moto rivoluzionario boliviano del 1952, contro il quale fu organizzato il golpe del generale Barrientos, il futuro killer di Ernesto Guevara. Come si fece, in modo simile, ancora una volta contro il Cile di Allende. Come si era fatto sin dal momento della conquista dell’indipendenza da parte delle ex-colonie spagnole, incapaci di resistere alle manovre divisorie inglesi, di affrontare l’eredità deformante del colonialismo e realizzare il sogno panamericano di Bolivar: la Grande Colombia si spaccò in cinque paesi, in altri cinque l’America Centrale, cinque arrivati a sei quando la "creatività" di Teddy Roosevelt volle far diventare una repubblica il canale di Panama (1).

Isole "auto-sufficienti"

o basi per l’estensione dell’incendio rivoluzionario?

Sì, la storia dello scontro con l’imperialismo in America Latina insegna che il capitale imperialista non può neanche accettare che le risorse del suolo e del sottosuolo dello scrigno latinoamericano vengano usate per uno sviluppo borghese locale un minimo autonomo ed equilibrato. Insegna che c’è una sola forza in grado di reggere l’urto con questo potere internazionale e ramificato: non quella delle classi dirigenti locali, ma quella della lotta e dell’unificazione delle classi lavoratrici e delle nazioni indigene oppresse oltre i confini statuali in cui è divisa l’America Latina; quella legata allo sviluppo a scala continentale della dinamica che si è vista in piccolo in Bolivia e, con modalità diverse, in Argentina, Brasile e Venezuela.

Anche qui non si parte da zero. Le organizzazioni contadine ed indios della Bolivia sono ad esempio legate da vincoli di coordinamento e solidarietà con le organizzazioni "sorelle" del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, del Venezuela. Che facciano da battistrada affinché anche gli altri settori sfruttati e il movimento di lotta nel suo insieme stringano legami internazionali, esse che sentono oggi più fortemente di condividere uno stesso destino. Se sarà un destino di liberazione o di schiavitù, ciò dipenderà proprio dall’unità di lotta che gli sfruttati e le popolazioni lavoratrici latinoamericane sapranno stabilire tra loro. Dipenderà da quanto questi ultimi sapranno usare i territori (piccoli o estesi che siano) sui quali saranno riusciti a stabilire il loro potere di classi e nazioni oppresse non come isole "auto-sufficienti" co-esistenti entro il mercato mondiale con i "grandi poteri" occidentali, ma come basi di partenza per sviluppare la propria auto-organizzazione, chiarire i propri interessi, intrecciare i legami di lotta internazionali, estendere al resto del continente e al mondo intero l’incendio rivoluzionario, e dare l’assalto internazionale al sistema capitalistico.

Che sia anche il paese che fu la tomba di Guevara a porre questa esigenza davanti al mondo proletario del mondo intero, questo "semplice" fatto indica quanto il germoglio "internazionalista" del Che abbia oggi l’ambiente sociale e politico adatto, a differenza di trentacinque anni fa, per diventare un frutto maturo, in Bolivia, in America Latina e nel mondo. "Questa Bolivia -è ancora Galeano che scrive- stanca di vivere in funzione del progresso altrui, è il vero paese. La sua storia, ignorata, abbonda di sconfitte e di tradimenti, ma anche di quei miracoli che sanno fare i disprezzati quando smettono di disprezzare se stessi e quando smettono di litigare tra loro".



 

Pubblichiamo due documenti della sollevazione boliviana.

Il primo è l’appello alla mobilitazione della Confederazione Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia.

Il secondo è il comunicato redatto dall’esecutivo della Central Obrera de Bolivia al termine dell’assemblea del 17 ottobre, i cui verbali possono essere letti sul n. 44 de la rivista del manifesto.

 

 

Appello alla rivolta

della Confederazione Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia

Lunedì, 13 ottobre

Fratelli e sorelle del gran Kollasuyu e del mondo:

Il sangue aymara continua a bagnare questa terra. Oggi sono morti 7 fratelli nel settore di Apaña (La Paz), 3 nel settore Ballivián (El Alto) e ci sono state decine di feriti a La Paz.

Dopo la grande mobilitazione di oggi con migliaia e migliaia di vicini che hanno preso le strade, calando da Viacha, El Alto e le vicine alture -dove vivono i nostri fratelli e le nostre sorelle, soffrendo la fame e la povertà da anni ed anni- , il carnefice Sànchez de Lozada ha annunciato che non vuole lasciare il potere spontaneamente.

Continua a schernire la voce del popolo con faccia scura. Continua a disprezzare la sua capacità di organizzarsi ed avere decisione. Pretende -quest’assassino- di "tranquillizzarci" a forza di pallottole.

Ma il popolo non ha paura né due facce. È una sola parola che esige le dimissioni del sanguinario... El Alto non è solo. La Paz non è sola. Dall’Altiplano per varie vie vengono fratelli e sorelle attraverso la Cordillera, lungo i sentieri. Vengono a dare il loro appoggio morale e materiale ai combattenti alteñi che hanno resistito alla morte di più di 30 fratelli e decine e decine di feriti dal giorno 9 di ottobre. Vengono con un mandato in tre punti:

1) assediare la città di La Paz da tutte le entrate;

2) non permettere l’ingresso di altri militari che arrivano a reprimere e ad uccidere;

3) realizzare funerali pubblici nelle piazze dei settori che hanno avuto caduti.

Non è un appoggio incosciente. È l’unità della campagna con la città [s.n.] che già aveva iniziato la "lotta per il gas" dal "settembre quando le comunità hanno marciato fino alla cosiddetta sede del governo. Dall’8 di settembre i dirigenti comunitari delle 20 province di La Paz sono in sciopero della fame; il 20 settembre quando sono dilagati i blocci dei passaggi sull’Altiplano, questo governo ha iniziato la sua azione assassina mitragliando 5 abitanti delle comunità (una bambina di 8 anni) a Warasita e a Sorata.

Oggi, il sangue si è fatto un fiume sul nostro cammino. Ma non lasceremo che continuino a massacrarci, schernirci e mantenerci emarginati come da più di 500 anni.

Come fu più di 500 anni fa, gli stranieri tornano a massacrarci, tornano ad assassinarci, e vogliono sterminare l’indio.

Fratelli, già buttammo fuori gli spagnoli allora... adesso è lo stesso. Questi assassini non dureranno...

Jallalla Tupaj Katari!!!!!!

Jallalla Bartolina Sisa!!!!

Gloria a los caidos!!!!!

 

Confederación Sindical Única

de Trabajadores Campesinos de Bolivia

 

 

Risoluzione del comitato esecutivo allargato ai delegati

di tutte le organizzazioni sindacali dipartimentali della Central Obrera de Bolivia

La via d’uscita che al momento si presenta, l’intervento del parlamento per la successione presidenziale, non è, in alcuna maniera, il segnale che può invitare noi boliviani ad ammainare le bandiere che in in quattro settimane di cruenta lotta abbiamo impugnato.

Sul cammino sono rimaste 140 vite che hanno irrigato con il loro sangue generoso la nostra patria mostrando che con la nostra forza siamo capaci di affossare le dittature, lezione per i predicatori di democrazia. I governi, per sanguinari che siano, cadono sotto i colpi che inevitabilmente sferra il popolo. Adesso sappiamo che con la nostra organizzazione e la lotta possiamo e dobbiamo sconfiggere il neoliberismo.

Non c’è soluzione possibile con i partiti politici che hanno consentito e sono stati complici della carneficina contro il popolo. Non c’è soluzione possibile se persiste inalterata la politica economica di espropriazione delle risorse naturali, e non ci sarà soluzione con leggi che favoriscano solo i privilegiati di sempre. Questo popolo ha lottato con eroicità ineguagliabile per il gas. Non vogliamo solo un cambio di persone nella stessa funzione: vogliamo cambiamenti reali e profondi.

Ci saranno soluzioni solo se si raccolgono le istanze della mobilitazione nazionale e popolare per cui sono caduti 140 eroi nostri, che non dobbiamo tradire. Le istanze del popolo mobilitato sono:

1) annullamento del decreto supremo 24806 che stabilisce la rinuncia dello stato agli idrocarburi;

2) annullamento della legge sugli idrocarburi;

3) elaborazione di una politica sovrana sugli idrocaburi, base sulla quale si devono prendere decisioni per l’industrializzazione e il futuro del gas;

4) revisione nel Congresso di tutti i contratti di capitalizzazione, di joint venture e di cessione dei giacimenti petroliferi, minerari e di imprese statali, facendo rispettare lo spirito della costituzione politica dello stato.

5) annullamento della "legge INRA" che mercantilizza la terra;

6) redistribuzione della terra;

7) rispetto della proprietà comune e originaria;

8) restituzione dei diritti sociali dei lavoratori boliviani;

9) annullamento immediato della libera contrattazione;

10) riattivazione dell’apparato produttivo nazionale, rigettando il libero commercio, come lo stabilisce l’Alca;

11) rigetto dell’impunità dei carnefici di ottobre: vanno giudicati per genocidio contro la popolazione boliviana che si è levata in difesa delle risorse naturali e della democrazia.

12) annullamento della "legge di sicurezza cittadina" per mezzo della quale è stato assassinato il popolo.

Qualsiasi sia il governo, ha il dovere di soddisfare la volontà del popolo. Altrimenti, le strade e i sentieri della patria si convertiranno nuovamente nella nostra barricata.

La Paz, 17 ottobre 2003

 

Comitato esecutivo della

Central Obrera de Bolivia