Dossier "Guerra"
L'attacco alla Libia da parte del governo USA è stata una lezione impartita alle masse dell'intera area nord-africana e medio-orientale, sospinte ad ingaggiare - o inasprire - la lotta contro l'imperialismo sia dall'impossibilità di risolvere i problemi "storici" dell'area che dal peggioramento delle loro condizioni di vita causato dai nuovi passaggi della crisi economica mondiale.
Contro di loro è sfilato - in una dimostrazione quanto mai realistica e macabra - una parte dell'immenso arsenale di cui dispone la maggiore potenza imperialista.
Ma non è stato questo l'unico motivo. L'aggressione alla Libia è stato anche un messaggio inequivocabile che l'imperialismo USA ha lanciato agli imperialismi europei e russo: la guerra è già una necessità improcrastinabile per l'economia americana, tutti i concorrenti, amici o nemici, devono fare i conti con questa realtà.
Che la tendenza alla guerra, sia per il capitale americano molto più matura e impellente che per le altre sezioni nazionali del capitale non è una novità. La novità è, semmai, che questa non si esprime più soltanto tramite le pressioni politico-diplomatiche, ma inizia ad esprimersi tramite atti concreti di guerra in un'area dove sono vitali gli interessi economici e politici di russi ed europei.
Non più solo pronunciamenti a favore di produzioni belliche e accettazione di installazioni di armi nucleari, ma esplicita richiesta/ricatto a schierarsi e ad imbracciare le armi in proprio, apertamente e decisamente, dalla parte delle "democrazie occidentali", minacciate non tanto dal terrorismo palestinese o arabo, quando dalla sempre più possibile insorgenza anti-imperialista in quell'area e, più in generale, dal "comunismo internazionale minaccia solo momentaneamente velata dietro la mano tesa e i sorrisi a tutta bocca di Gorbacev e consorte.
Nel mentre crescono come i funghi in USA le manifestazioni di solidarietà caritatevole con i milioni di poveri ed affamati, la società marcia a grandi passi, non senza contraddizioni, verso una nuova grande "confrontation" che sancisca, a tutti i livelli, la supremazia del "mondo libero" e degli USA in esso. Da cosa nasce questo bisogno?
L'economia americana è passata dallo strapotere del dopoguerra, quando possedeva - da sola - circa il 50% della produzione mondiale, ad un "misero" 25%, cedendo quote di produzione, di mercato (e di profitto) ai paesi europei e al Giappone. Anche sul piano finanziario le economie risorte dalla distruzione bellica hanno via via eroso l'egemonia dei capitale-dollaro fino alla situazione attuale, in qualche modo paradossale, per cui la finanza europea e giapponese sono esposte in crediti a paesi discretamente "solvibili" (ivi compresi gli stessi USA), mentre la finanza americana, anche per il ruolo - sostenuto finora da sola - di gendarme mondiale, è esposta in maggioranza con paesi sull'orlo della bancarotta.
La crisi di tutto il capitale ha ulteriormente esasperato l'indebolimento relativo della forza economica americana giunta nella seconda metà degli anni '70 a perdere non solo quote di mercati esteri, ma a vedere il suo stesso mercato interno invaso da prodotti esteri, in particolare giapponesi.
Parallelamente l'immagine stessa degli USA nel mondo era quella di una potenza in irrefrenabile declino, ben rappresentata da un presidente che, messe al bando le borie dei suoi predecessori, si faceva ritrarre pregando, che falliva come in un film comico le azioni di guerra (liberazione degli ostaggi in Iran: scontro tra un aereo ed un elicottero con morte di marines), o vi rinunciava tollerando regimi antiamericani in zone di tradizionale loro dominio (Nicaragua), che predicava il disarmo e firmava accordi respinti persino dal suo stesso Congresso (SALT 2). La presidenza Carter non fu solo questo, non rinunciò, certo, al ruolo imperialista e di sommo custode della pace imperialista mondiale, ma lo fece al modo in cui una potenza in difficoltà poteva farlo.
L'era di Reagan è quella della riscossa, del riscatto. Si fondano, questi, sulle forze residue, ridotte ma pur sempre notevoli, dei capitale USA, che sostengono una incredibile sopravvalutazione dei dollaro per richiamare masse di denaro fresco da tutto il mondo. Una economia in caduta libera, per finanziare una ristrutturazione profonda, per promuovere un rilancio complessivo della competitività e dei profitti, nonché della forza per sottrarre profitti agli altri, ha una fame insaziabile di capitali. Reagan e la sua amministrazione sono stati fedeli interpreti di questa necessità: agevolazioni fiscali, attacco al welfare state, gonfiamento del debito pubblico, sostegno alle industrie, riarmo e piani spaziali. Lo stato USA, raccoglitore primo e garante sommo della raccolta dei capitali, li mette al servizio di una ristrutturazione complessiva della produzione, della finanza e della società. Uno stato che può (a differenza di altri) fare questa politica perché ha, ancora, nella società sufficiente forza strutturale per sostenerla.
Dopo 6 anni di quella che chiamiamo, quindi, solo in modo convenzionale "cura Reagan", gli USA sono indubbiamente rafforzati sullo scenario mondiale. Con quali problemi? Con quali prospettive?
L'iniezione di capitali - provenienti dall'estero e liberati dall'uso "improduttivo" dell'assistenza pubblica - è stata utilizzata, in parte per permettere all'industria di base (siderurgica, petrolifera, tessile ecc.) e a quella dei beni di consumo di resistere meglio all'aggressione dei prodotti esteri sul mercato interno. Infatti, oggi, le merci americane di questi settori non sono certo tornate al contrattacco fuori dal proprio mercato, anzi, per completare questa manovra, di difesa della propria base industriale e agricola - senza la quale qualunque guerra generale sarebbe persa in partenza - si rendono ancora necessarie misure di aumento del protezionismo tecnico e politico e una maggiore svalutazione "competitiva" del dollaro.
L'altra - e ben maggiore - parte di capitali è andata a finanziare direttamente o indirettamente (commesse pubbliche) la grande industria di alta tecnologia, quella spaziale e quella delle armi. Scelta politica di un presidente particolarmente votato a "mostrare i muscoli"? No. Scelta obbligata del capitale a privilegiare le sue sezioni che garantiscono soprattutto nelle permanenti condizioni di crisi più alti profitti e, in particolare, per quanto riguarda gli USA, privilegiare le uniche sezioni che nell’ambito della concorrenza mondiale sono di gran lunga vittoriose rispetto alle scarse capacità dei concorrenti.
In un mondo in cui il capitale va a caccia di profitto sul terreno della produzione di automobili e Tv, frigoriferi e calzature, beni strumentali di media tecnologia e prodotti di plastica, mobili o pistole, ecc. il capitale USA parte già perdente.
Viceversa, in un mondo in corsa verso la guerra, alla ricerca di armamenti sempre più sofisticati (le guerre oggi si vincono - o si sostengono - solo se si possiedono armi adeguate alla tecnologia dei più forte) il capitale USA sarebbe tranquillo acchiappaprofitti.
Vuol dire ciò che la tendenza alla guerra è connaturata solo all'economia americana e non al resto del mondo imperialista che andrebbe volentieri avanti a farsi guerre solo su videoregistratori e montoni, vino e personal computers? Niente affatto.
Le condizioni di crisi capitalista impongono a tutto il capitale di giungere alla resa dei conti armi alla mano; solo c'è chi questa resa dei conti ha interesse a rimandarla: paesi europei e URSS.
Le borghesie europee hanno di fronte una possibilità e un problema. La possibilità: continuare a rosicchiare profitti su settori merceologici - e finanziari - a spese degli USA, tifando - nel contempo - per una applicazione alla Russia della ricetta Gorbacev che si tradurrebbe in nuovi affari, da cui gli USA, per motivi politici ed economici, sarebbero in buona misura esclusi.
Il problema: una guerra in tempi stretti li vedrebbe troppo dipendenti dal potenziale bellico del "grande fratello" oltre che territorio privilegiato della distruzione militare, industriale e civile.
La Russia - da parte sua - è costretta a buttare acqua sulle esplosioni di crisi militare perché avrebbe ben poche possibilità di uscire vincente da un conflitto generale a breve scadenza: deve, da un lato, rafforzare e consolidare l'insieme del suo apparato produttivo, dall'altro conquistarsi alleati più potenti e affidabili degli attuali, o, quanto meno, creare ed estendere un'area di neutralità tra gli alleati degli USA. Le due esigenze possono risolversi all'unisono (cfr. Dossier Che Fare n. 5) e questo Gorbacev sta tentando pervicacemente.
Due ipotesi si confrontano, dunque, lungo l'unica tendenza alla guerra. Il prevalere dell'una o dell'altra ha il massimo rilievo sia per il maturare reale dello scontro, sia per le sorti del proletariato, le possibilità, le difficoltà della sua ripresa e della sua organizzazione autonoma, nonché per gli stessi rivoluzionari, a meno che, non si voglia fare come quelli (e ce ne sono, purtroppo!) che continuano a parlare della guerra come astratto destino sempre a venire e non vedono che già opera, come si prepara, quali compiti impone.
Il prevalere dell'ipotesi che, per necessità schematiche, chiamiamo di Europa-Giappone-Urss, ovvero il prevalere di un percorso più cauto verso la guerra con una lunga fase dedicata a cercare nuovi equilibri nel campo occidentale (o - nell'ipotesi Urss – a sconvolgerli) sarebbe per gli USA del tutto rnalaugurata. Non solo, infatti, potrebbero veder indebolito il proprio fronte o, comunque, intaccata la loro egemonia in esso, ma dovrebbero assistere ad un rafforzamento economico degli alleati, fatto, per di più a loro spese, e col rischio, non peregrino, che l'economia americana vada verso un terribile crack, non potendo dare la stura alle enormi forze accumulate in vista di un generale riarmo mondiale. Alla guerra si arriverebbe ugualmente, ma con gli USA fortemente debilitati e con un probabile "fronte interno" in effervescenza.
La seconda ipotesi: guerra a breve scadenza, mondo intero che ci arriva di corsa finalizzando tutte le sue economie alle armi, sarebbe per gli USA ottimale, sia per dare scacco matto nella guerra che per arrivarci nelle migliori condizioni possibili: economia lanciata a ritmi parossistici, soffocamento (relativamente) indolore delle contraddizioni interne, riconquistata egemonia sul blocco occidentale.
Due ipotesi, presentate per necessità in modo schematico, non per questo meno realistiche, anzi già reali. Vediamone alcuni aspetti limitandoci, per ora, al lato USA.
Il governo Reagan ha stanziato in 5 anni 1600 miliardi di dollari per la produzione bellica: oltre un settimo dei PNL dal 1981 al 1986 è stato dovuto alla produzione di armi. Se a questo si somma la ricaduta su tutti i settori, nonché gli stanziamenti "civili" per le imprese spaziali, si ottiene un'idea chiara di come l'economia USA sia già lanciata verso la guerra. Per colmare il "gap" europeo nel riarmo Reagan ha proposto il progetto di "guerre stellari", tentativo di funzionalizzare alla guerra intere branche dapprima della ricerca, in seguito della produzione. In questo modo la borghesia americana richiede all'Europa non solo la riconferma dell'alleanza, ma anche di salire sul carro della produzione bellica, di accettare di spostare su questo piano la concorrenza, un piano su cui, abbiamo visto, sa di essere vincente.
Di fronte alle riluttanze, reticenze e possibili tradimenti ("occhiate" di intesa a Gorbacev) ha pestato il piede a tavoletta sull'acceleratore aggredendo una prima e una seconda volta la Libia, accendendo miccia nel cortile di casa europeo, soffiando sul fuoco di conflitti regionali alle porte d'Europa e del resto del mondo, approntando una politica di aumento dell'interventismo ovunque siano messi in questione i principi e gli interessi del "mondo libero".
L'Europa non ha contrapposto se non ambigue resistenze che hanno dimostrato la loro debole consistenza allorquando, messi di fronte al fatto compiuto, i governi europei hanno cercato di evitare i maggiori danni del "nervosismo americano" assumendo in proprio il compito di "prendere le misure" a Gheddafi, fino allo spavaldo Craxi di Tokyo che, ottenuta la settima poltrona (o instabile sgabello?) al gruppo dei 5 ha promesso il primo colpo" alla Libia.
Quella dell'esasperazione delle tensioni militari è per gli USA una linea obbligata, una linea su cui hanno cominciato ad ottenere alcuni risultati concreti. Pochi? Molti? In ogni caso rilevanti. Una volta di più Tokyo ha rivelato l'inesistenza di una "terza via" europea. L'Europa è immobile tra l'incudine della protezione economica e militare americana di cui non può fare a meno - e il martello di una politica che preme per trasformare in fretta (troppa fretta per gli imperialismi europei non ancora adeguatamente preparati) il mondo in un grande macello.
La guerra si prepara con la guerra. Le resistenza di governi e opinioni pubbliche si vincono soprattutto con le azioni belliche, trascinandoceli dentro. O qualcuno si è stupido dell'unanime reazione della "pacifica" stampa italiana ai missili su Lampedusa? Leggere, per credere, come persino il super-pacifista Capanna risponde alle nuove minacce di Gheddafi, definendole inaccettabili e pretesti per nuove spirali di riarmo dell'Italia (La Repubblica, 27/5/86).
La guerra si prepara con la guerra, è vero e utile per vincere le resistenze europee, ma è vero anche per spingere l'insieme della società americana (in particolare il proletariato) verso questa prospettiva.
DP fonda le sue speranze per la pace (v. n. 5/Maggio '86) sul fatto che "il fronte interno (USA) non reggerebbe" a interventi di truppe americane in altre parti dei mondo (oltre che sul fatto che "l'occidente è "culturalmente" inattrezzato alla guerra" v).
E' indubbiamente vero che oggi non c'è una attivizzazione a favore dell'interventismo militare americano. Non siamo, però, neanche più ai tempi della "sindrome del Viet-Nam". L'America viene da un grande sforzo teso a riaccreditare la sua immagine di potenza ed ha accolto con slancio non solo i vari polpettoni cinematografici (efficaci opinion-makers) Rambo, Rocky ecc., ma anche le bombe (certo, le bombe non ancora le truppe!) su Tripoli e Bengasi. Naturalmente questi non sono che sintomi, quello conta ai fini di un compattamento sociale a sostegno della guerra, sono i legami materiali. A che punto sono?
La politica reaganiana e la ripresa economica gonfiata dal ruolo di punta della produzione bellica (nell'85 la produzione industriale USA è diminuita dello 0,6% nonostante un aumento del 25% delle spese belliche) hanno dato vita a una riedizione, in formato ridotto, delle classiche teorie Keynesiane, con conseguente diminuzione (non scomparsa!) della disoccupazione. Secondo Lester Thurow (Sole/24 ore, 25.5.86) dal '78 all’ ‘85 la crescita di produttività in America è stata del 3% medio all'anno, ma è stata annullata dall'aumento degli impiegati assunti (21% in più nei 7 anni, ossia 3% annuo) che hanno più che compensato (10 milioni di nuovi impiegati) la perdita di posti operai (1,9 milioni). L'economista ne deduce che l'industria americana sta diventando burocratica. Noi invece, che Keynes fa ancora scuola nella patria dei monetaristi e liberisti. Ma è possibile la completa applicazione anche del Keynesiano militare"?
Su questo fronte i problemi per il capitale sono maggiori che negli anni '30. Le armi della guerra moderna non mettono in movimento, per la loro produzione, grandi masse di occupati. I posti di lavoro creati sono (e saranno) soprattutto destinati a tecnici e ad operai altamente qualificati. La piena occupazione del tipo Germania e USA anni '30 è, probabilmente, impossibile oggi.
Ma ciò non costituisce alcuna materiale e automatica garanzia del non coinvolgimento proletario nella guerra.
Il più grande problema che si presenta - su questo piano - alla borghesia americana (e non solo ad essa) è quello di evitare che si verifichino nella società lacerazioni aperte, aperti scontri tra le classi, per giungere alla guerra con un proletariato che sia pur non "garantito" fino in fondo, non abbia avuto, pero, grosse occasioni per verificare di avere dentro casa il vero amico.
Anche per questo, quindi, lo slancio dell'economia Usa non può subire rallentamenti o ritardi. I capisaldi dell'attuale situazione di pace sociale (disoccupazione ridotta e produzione gonfiata) non debbono traballare in nessun modo e in nessun momento. La polarizzazione economica (crescita parallela di povertà e ricchezza) della società americana, aumentata negli anni del "riscatto", è oggi mascherata dall' "espansione" senza della quale potrebbe irrompere, con effetti devastanti per la borghesia, sul piano sindacale e politico, anche perché il proletariato (americano ed europeo) non ha alle spalle, come alla fine degli anni '30, una serie di catastrofiche sconfitte.
A maggior ragione la politica americana sul piano internazionale non potrà che continuare nella logica delle aggressioni, dell'esasperazione dei conflitti regionali, del coinvolgimento armato degli alleati, dello scontro con l'avversario russo, con una acutizzazione dei conflitto sia tra l'imperialismo e paesi oppressi che all'interno dei vari contendenti imperialisti, conflitto di cui anche una ripresa di lotta proletaria e delle masse dei paesi oppressi deve tener conto e approfittare.