Sul congresso di Rifondazione Comunista

Svolta verso sinistra, 
anzi verso… il centro-sinistra!

Il recente congresso di Rifondazione si è svolto a tre facce.

Quella degli slogan propagandistici, la prima; 
quella degli enunciati "teorici", la seconda; 
quella delle concrete scelte politiche, la terza. 

Con scarso accordo tra loro.

E vediamo, allora, di che sorta di Giano trifronte si è trattato e si tratti.


Gli slogan recitavano che si trattava di rifondare Rifondazione per andare "a sinistra", svincolati da ogni aspettativa sul centro-sinistra e la pseudo-sinistra ufficiale, visto e considerato che si tratta di esperienze ormai morte e sepolte a scala mondiale, e non solo italiana. "A sinistra" per il "nuovo mondo possibile" (che sarà mai?, il "superamento" del capitalismo) che l’intero pianeta agogna e starebbe, addirittura, costruendo pezzo dopo pezzo. Non si dice in nessun luogo "socialismo", visto e considerato che le sue esperienze passate si sono dimostrate fallimentari ed il suo futuro è incerto o indecifrabile, ma, insomma, qualcosa di simile, perlomeno a parole. Meno che mai si dice "rivoluzione", orribile parola di sapore "terroristico"!, ma si lascia intendere che il capitalismo –anche quello dal volto umano (l’avete mai visto da qualche parte?)- potrebbe essere "superato" in volata, in una corretta e pacifica competizione, a saper pigiare sui pedali à la Cipollinì.

L’impianto teorico, diciamo così, ha cercato di suffragare queste aspettative puntando sui movimenti, anzi sul "movimento dei movimenti", che sarebbe poi quanto si sta dipanando nel mondo da Seattle in qua.

Niente di male finché si riconosce che una lotta contro gli effetti nefasti del capitalismo sta mettendo in moto delle forze "spontanee" che vanno anche al di là delle pratiche del "vecchio movimento operaio" tradizionale.

Niente di male se si riconoscesse che l’antagonismo di classe, per marxiana definizione, non si racchiude nel sociologismo proletario. Per Marx il proletariato, in quanto classe antagonista, non rappresenta esclusivamente sé stesso, ma è il motore della liberazione dell’insieme dell’umanità sofferente. Lo è (lo può essere) in quanto il lavoro salariato versus il capitale costituisce materialmente la chiave di ogni "altra" contraddizione sociale (di nazionalità, razza, sesso…) e la chiave senza scardinare la quale non vi ha emancipazione globale dell’umanità.

Niente di male, quindi, se si riconoscesse che l’attuale stato politico del proletariato, segnato dal marchio della controrivoluzione e del "riformismo", non è idoneo a tale compito e va, veramente, "rifondato" e rimesso in piedi.

Ma il buon Bertinotti non si prende la briga di mettere in causa l’attuale (ed il passato) quadro politico disfattista, bensì si affretta a coglier al balzo la palla del "movimento dei movimenti" per cancellare proprio la centralità di classe, la sua autentica vocazione politica, il suo partito, il suo orizzonte rivoluzionario. Basta!, egli dice, non con questa politica, ma con tutto un preteso "vecchio modo di far politica". Cioè: basta con Lenin, basta con Marx. Basta con la "fissazione" del proletariato, del partito "tradizionale", della rivoluzione (dio ce ne scampi!). La promessa analisi critica del passato, a cominciare da quello di propria appartenenza, non si è neppur affacciata al congresso (né l’hanno tentata le opposizioni interne): al massimo, la solita litania contro lo stalinismo, per mettere sostanzialmente ad uno con esso Lenin (e lo stesso Marx) per saltare poi la questione del nazional-stalinismo italiano, cui sostanzialmente ci si riattacca valorizzandone i tratti "democratici" (cioè per noi –antistalinisti da sempre e sino in fondo- quelli più fetenti ancora dei geni paterni da cui degenerativamente derivano).

Così il "movimento dei movimenti", vitale -per noi- in quanto nasce dalle contraddizioni capitaliste ed in quanto evoca il ritorno in armi del movimento di classe a dirigerlo unificandolo a sé, vitale se e in quanto riesce a cogliere nel suo corso di lotta il senso globale dell’antagonismo socialismo-capitalismo, magari contribuendo a rimettere in moto il motore proletario inceppato, diventa un fattore a sé stante, "autonomo" dallo scontro proletariato-borghesia, o persino il suo sostituto. E lo diventerebbe, stando al nostro, proprio in forza della sua "autonomia" e delle sue "mille specificità", sciolte da un centralizzato quadro d’insieme.

Questa sorta di a-classismo (mascherato dalla frase ad effetto per cui "siamo tutti proletari", in fin dei conti, così come siamo tutti immigrati, lesbiche e gay o… ebrei) riconduce, in fin dei conti, al "popolo", o ai popoli, alla petizione democratica dei diritti universali dei "singoli" (e delle "singole", come si usa dire oggi per "arricchire" il discorso). E, conseguentemente, lo stesso movimento viene federalizzato a seconda delle singole esigenze dei vari "plurimi (e autonomi) soggetti, proprio mentre il capitalismo centralizza oltre ogni dire le proprie forze. Siamo tutti proletari, ma ognuno, vivaddio!, per proprio conto. Nessuna vecchia fisima centralistica, di partito! E nessuna fisima, altrettanto démodée, di rivoluzione e socialismo, perché di rivoluzioni ce ne debbono essere mille e diverse e ognuna di esse si sta già facendo oggi "costruendo l’alternativa" concretamente, passo dopo passo, all’interno del presente sistema sociale, a colpi di variopinte e democratiche… riforme (democrazia partecipativa, Tobin tax, referendum e proposte di legge, volontariato -sostenuto, guarda caso!, dallo Stato-, solidarietà con gli "altri", soprattutto se "diversi", carità cristiana per le vittime della malapolitica, etc. etc.).

È proprio questo il modo non per esaltare il movimento, pretendendo di tuffarvicisi dentro (da pari a pari e senza "jattanza di partito"), ma di bloccarlo al suo primordiale stato di protesta dai connotati, sia quel che sia, riformisti, cioè del tutto impotenti, tenendolo programmaticamente lontano dall’orizzonte di classe che in qualche modo ne sta alle radici, che esso stesso evoca ed a cui deve centralizzarsi. Sarà rifondazione nella rifondazione, ma a noi sembra la riedizione aggiornata dei vecchissimi marchingegni della politica di tradimento riformista responsabile della riduzione di un proletariato, a suo tempo combattivo, a mille soggetti immediatisticamente diversi, a classe frammentata del capitale, per finire col ridurlo a "popolo" di "cittadini" (riformisti sì, nelle pie intenzioni, ma entro lo Stato e la Patria). Forse non uno Stato ed una Patria qualsiasi –neppure lo stalinismo lo diceva!-, perché entrambi vanno rinnovati, per diventare "di tutti e di ciascuno": ce lo sapevamo!

Nel frattempo, con il "vecchio schema" di far politica di partito scompare, conseguentemente, l’internazionalismo (e lasciamo pur stare l’aggettivo proletario che lo accompagnava in modo del tutto obsoleto). Anche perché, sentite sentite!, è nel frattempo scomparso l’imperialismo di cui vaneggiava Lenin. Oggi siamo di fronte al negriano Impero e, se mai c’è qualcosa da combattere, è uno "strapotere" imperiale a-statuale che ha per epicentro gli USA. Contro di esso ognuno, nel mondo, si arrangi come può (autonomo e "solidale"). Noi potremmo, intanto, muoverci come… Europa; un’Europa, ovviamente, rifatta a nuovo grazie al "movimento dei movimenti" di qui (persino i forum sociali dovrebbero funzionalmente decentralizzarsi, rinunziando a quella che ne è stata, nei punti alti, la prima acquisizione: il senso di una lotta mondiale unitaria). La Patria non sarà più sul Grappa, ma può benissimo stare a Strasburgo se ci mettiamo di uzzo buono.

Dire che Rifondazione si è spostata (a destra) nel senso del "movimentismo" è poco: essa si sposta in questa direzione per gettare alle ortiche in primo luogo i suoi esangui connotati "comunisti" e, poi, annacquare i movimenti in atto per bloccarli (o farli regredire) nel senso del più piatto conformismo riformista.

Troppo arduo, per lo stomaco soprattutto, continuare ad esaminare i vaneggiamenti "teorici" esplosi al Congresso. Essi hanno spazientito persino certi "scrittori" del manifesto, tanto per dire!, ed hanno dato il destro ad un’opposizione interna, preoccupata dell’abbandono dei più elementari criteri di classe. Non diremmo, però, che da alcuna di queste parti, pur diverse tra loro, sia venuta una parola chiara di demarcazione e prospettiva alternativa.

Un congresso di comunisti che volesse sul serio fondare o rifondare alcunché procederebbe secondo il metodo del vero Manifesto, quello di Marx. Primo: lo spettro del comunismo si aggira per il mondo, è una potenza riconosciuta; perciò "è ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso". Secondo: l’analisi del sistema di classe capitalista e dell’antagonismo socialista. Terzo: la "posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione". Qui, innanzitutto, non si crede al comunismo né in carne ed ossa né al suo spettro (ci credon di più i suoi avversari confessi). Secondo: la critica del capitalismo resta tutta interna al sistema vigente in assenza di un chiaro punto di orientamento e, pertanto, non c’è nulla da esporre apertamente se non dubbi ed ipotesi. Terzo, e conseguentemente, non vi è una posizione autonoma rispetto alla generica "opposizione" in cui, di volta in volta, a seconda delle contingenze occasionali, ci si tuffa avendo rinunziato anche solo a pensarsi come partito distinto ["Siamo tornati a riflettere sul processo rivoluzionario, fuori da ogni tentazione giacobina (leggi: i soliti vecchi noti, n.) e lontani da ogni suggestione crollista (!) (…) la coscienza non la si porta dall’esterno del movimento (…) è l’intero movimento che deve considerarsi e diventare, per noi, l’intellettuale collettivo (..) e il partito dentro come un pesce nell’acqua (in realtà: nella frittura, n.)", etc. etc.). Beh, forse era tempo che i non-comunisti esponessero apertamente quel che non siamo, quel che non vogliamo…]

Ma tutte le chiacchiere, già di per sé teoricamente destrissime, sul movimento come risposta al vecchio modo di far politica e come concreta alternativa al sistema, si sgonfiano poi d’un colpo all’atto di passare alla pratica politica.

Proprio mentre si accingeva a presentare al congresso la svolta-jogging contro il sedentarismo corrente ed a porre una pietra tombale teorica sul centro-sinistra, il buon Bertinotti già deragliava sul piano dell’intesa col defunto in vista dei prossimi appuntamenti elettorali amministrativi. Voglia o no, il movimento più comodo ed importante resta sempre quello delle urne. Per far quadrare il cerchio si dirà al congresso che non si tratta di rincorsa al successo elettorale "a sinistra" né alla sconfitta elettorale di Berlusconi, ma di porre (… nelle istituzioni e per via istituzionale) "la questione del governo locale" attraverso il "bilancio partecipativo" che "non è un modello astratto, ma è un’idea generale di governo della città, del territorio, fondato sulla partecipazione popolare e sulla necessità di rivitalizzare una democrazia rappresentativa indebolita e depotenziata dall’alto (…) attraverso un’iniezione forte di democrazia diretta", "per portare negli enti locali il vento dei movimenti che attraversano il paese". Tradotto in parole povere: posto che ai movimenti non si può e non si deve porre un irrealistico obiettivo rivoluzionario "globale", si cominci dal basso, dal governo delle città, perché è lì che le cose si possono cambiare nella propria nicchia concreta più vicina ai "soggetti". Non vi tocchiamo in alto (nei forzieri), ma siamo terribilmente pronti a fregarvi in basso (la cresta sulla spesa). E’ l’istituzionalizzazione dei movimenti, veri e presunti, come programma. Ma non si dica neppure che, in questo, essi giocherebbero in prima persona: l’iniezione dal basso di cui si ciancia deve passare per le robuste vene del centro-sinistra in alto in quanto delegato esclusivo in partenza alla raccolta del voto e, poi, alla sua gestione. O, a nostra insaputa, il grande Fausto è riuscito a farsi riconoscere dall’interlocutore (defunto) di centro-sinistra l’impegno acché "la campagna elettorale delle alleanze in cui stiamo esprima la ripresa di partecipazione che vive il paese, che sappia valorizzare e collegarsi al conflitto sociale"? Fassino, Rutelli, De Mita (uno che di movimenti… tellurici se ne intende!), la Pivetti etc. etc. che si collegano al conflitto sociale "rivitalizzati" dai movimenti entrati in cabina elettorale! Ma via!, dite le cose come stanno!

Successivamente, il grande successo delle manifestazioni e degli scioperi sindacali a guida Cgil o Cofferati, come ducisticamente si suol dire, ha ulteriormente convinto Bertinotti che il movimento è in marcia -persino dal lato operaio!-. Per concluderne che cosa? Che la potenzialità dimostrata proprio da questo movimento dei lavoratori non va spinta più in avanti, non va fatta entrare in conflitto con la direzione che oggi la solletica per portarla in seguito alla sconfitta (come già un cieco non potrebbe non vedere), ma va, esattamente come sopra, istituzionalizzata, inglobata nei giochetti elettoraleschi, indotta a portar acqua al mulino della rappresentanza ufficiale del "cambiamento". Dalla piazza alle urne, sempre! Dai movimenti "indipendenti", "plurimi", "alternativi" alla rappresentanza ufficiale del "capitalismo dal volto umano" (perché "partecipato") in cui ritrovarsi assieme padroni e schiavi.

Come si vede, per ritornare alle nostre notazioni iniziali, non si tratta di dividersi sul fatto se si è a favore del partito o dei movimenti (questione mai affacciatasi in campo marxista: vedi proprio il Che fare? di Lenin), ma se partito e movimenti, coscienza e spontaneità ed anche se lotta legale ed illegale stiano saldati tra loro dal filo di un’impostazione rivoluzionaria o non obbediscano entrambi ad una prospettiva riformista di "composto" rinculo permanente. Bertinotti dice meno o niente "vecchio partito" e tutto "nuovo movimento". In realtà il suo partito più che mai si attiva per spegnere nel collaborazionismo di classe gli embrioni dei movimenti a vocazione antagonista –che sono un fatto!- attraverso il grimaldello del loro "riconoscimento" e della loro "compartecipazione" al sistema. Bertinotti movimentista? No, Bertinotti anti-movimento in quanto anti-socialismo!

Ci sono già dei brillanti esempi applicativi di tutto ciò. Non ce li inventiamo noi, ma li prendiamo direttamente da un sito di sinistra rifondarola (vedi www.arcipelago.org) che dà la misura dello stato di decomposizione del partito "rifondato", con tanto di sputtaneggiamenti ad personam (come sempre succede quando un collettivo è andato in frantumi). Uno per tutti: la manifestazione alternativa pro-Palestina di Roma, da cui la direzione si è dissociata perché… troppo sbilanciata e da cui si è fatto dissociare il locale Social Forum attraverso il suo principale dirigente rifondarolo (che ci stava come un pesce nell’acqua, per l’appunto…)

L’ultima uscita "rifondata" di Bertinotti è stata quella sulla Francia: "Fossi lì voterei Chirac". Giusto: qui si appresta a votare per i Chirac di casa! C’entra qualcosa con un movimento anti-Le Pen effettivamente di classe? Un movimento del genere, sempre e più che mai giustificato, riconoscerebbe le proprie ragioni, si batterebbe per esse con le proprie forze, riconoscerebbe la bestia lepenista quale frutto diretto indissociabile dal sistema capitalista pluriel con cui entrerebbe in antagonismo attivo proprio per eradicare di netto la sua estrema propaggine nera; non si affiderebbe alle urne e, nelle urne, men che mai si affiderebbe ad uno Chirac faute de mieux (in mancanza di meglio), perché un movimento di classe vero ha in se stesso il proprio meglio cui inchiodare avversari "vicini e lontani" e, quando rinunziasse a ciò, rinunzierebbe allo stesso "meno peggio". Il moralismo e l’estremismo massimalista non c’entrano: la questione è di disposizione di forze e del loro gioco reciproco. I giochi alla Bertinotti ci han sempre fregati, come classe.

Sarà per questo che, in certi ambienti, non propriamente rossi, si dice che "Bertinotti ha classe da vendere".