Davanti ai drammatici fatti palestinesi, prevale disgraziatamente tra i lavoratori europei un atteggiamento di indifferenza. Laddove ci si mobilita, ci si appella a chi (l’Onu, la comunità internazionale, l’Europa, il governo Berlusconi) fa parte dei "poteri forti" mondiali che spingono avanti la mano di Sharon-Peres: non si può, all’oggi, fare altro, si dice. Noi pensiamo che si poteva e si può, si deve fare di più, e altro. È ciò di cui vogliamo discutere con chi ha sinceramente a cuore la causa palestinese, o anche solo con chi inizia a percepire che la devastazione portata in Medio Oriente dai "battaglioni della pace" occidentali, direttamente o per procura, ha qualcosa a che fare con la devastazione sociale che sempre più bersaglia la gente comune anche qui. Una franca riflessione sui fatti deve aiutare a tirare qualche conclusione sull’impostazione da dare a questa battaglia, necessaria, e sui soggetti cui essa deve rivolgersi se non vuole risolversi in un nulla di fatto. |
I fatti in terra di Palestina sono sotto gli occhi di tutti. È sotto i nostri occhi la mattanza -che neanche i telegiornali sono riusciti a occultare del tutto- di un popolo "reo" di contravvenire a un ordine mondiale che lo vuole per sempre senza terra e senza diritti. Chi vive qui il senso crescente di un’oppressione che pervade tutti gli aspetti della vita sociale, con condizioni di lavoro e salariali sempre peggiori, con prospettive di vita sempre più precarie, con una mercificazione a ritmi accelerati dei corpi e delle menti, in primis femminili, è nella condizione di sentire, di iniziare a sentire che quanto accade in Palestina ci riguarda.
Media e potere ci dicono che, sì, la condizione dei palestinesi non è delle migliori, ma l’azione dell’esercito israeliano è solo… una reazione al "terrorismo" di gruppi "estremisti" che non si vergognerebbero di utilizzare anche dei giovanissimi per gli attentati suicidi contro "vittime innocenti". Non ci dicono però della reale situazione di un popolo cui hanno portato via la terra, le case, l’acqua… con milioni di profughi dispersi in altri paesi, o di chi è rimasto in Palestina ingabbiato in "riserve indiane" controllate, di fatto o di "diritto", dall’esercito e dalle autorità israeliane, con la sola prospettiva di un’esistenza senza diritti e senza futuro. La realtà è che il popolo palestinese è vittima di un ordine ingiusto, e non può esservi vera "pace senza giustizia", ove giustizia vuol dire una sola cosa: liberazione dall’oppressione coloniale.
Noi siamo il Vulcano
I ragazzi dell’Intifadah
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È contro questo ordine, contro il tentativo di cancellarne la stessa dignità collettiva, che i palestinesi stanno lottando, con un eroismo che anziché "indignare" dovrebbe destare la nostra ammirazione. Con attentati suicidi? Yunis, giovane palestinese intervistato durante la preparazione ad una di queste operazioni, risponde così: "So che non posso ergermi di fronte a un carro armato che mi schiaccerebbe in pochi secondi, per cui userò me stesso come arma. Loro lo chiamano terrorismo. Io dico che è autodifesa" (Espresso, 11/4). Non ci pare che tra giornalisti, politici e "pacifisti" che "condannano" tali forme di lotta (mentre nulla da dire sugli armamenti ultramoderni forniti anche dall’Italia all’esercito israeliano!) ci sia qualcuno che sarebbe contento di vedere in mano ai palestinesi armi un tantino più funzionali… E non si dica che si tratta di atti che "sostituiscono" individualisticamente l’azione di massa quando è evidente a tutti che siamo di fronte a forme che sono parte della guerra colonialista da un lato e anti-colonialista dall’altro.
Essi inoltre lanciano -non è un paradosso- un appello a che gli stessi soggetti della società israeliana colpiti dagli attentati aprano finalmente gli occhi fermando la corsa verso l’abisso in cui li stanno portando lo stato israeliano e i suoi padrini occidentali. "Israele ha inflitto dolore alle nostre madri e ai nostri padri e io devo fare la stessa cosa con il suo popolo, finché le madri israeliane non inveiranno contro il loro governo e pregheranno il mondo di porre fine al conflitto"- dice ancora Yunis. L’appello, come dimostra il coraggioso gesto dei refusnik, inizia a essere raccolto!
Può sembrare che l’ennesima, efferata azione dell’esercito israeliano sia il colpo di testa di una variabile impazzita, di uno stato largamente autonomo da condizionamenti esterni. Ragion per cui la soluzione starebbe nel… condizionarlo/costringerlo a una politica di pace. Non è così!
Lo stato israeliano (non solo la destra di Sharon, la "sinistra" laburista ne è complice in tutto e per tutto) porta avanti, con il pretesto della "lotta al terrorismo", l’obiettivo da tempo perseguito di decapitare l’Intifadah, terrorizzare e demoralizzare la popolazione -preparando il terreno a nuove espulsioni di massa e a nuove occupazioni di terre tramite insediamenti- e cancellare anche quello straccio di "autonomia" palestinese che aveva dovuto concedere dopo la prima Intifadah, frantumandola in tante riserve non comunicanti amministrate da qualche notabile-kapò palestinese con compiti di repressione di ogni opposizione e alla totale mercé dell’occupante.
Azione "autonoma"? È pensabile che Israele agisca di testa sua, senza che Stati Uniti e paesi europei sappiano e approvino? C’è forse un altro stato sulla faccia della terra cui i governi occidentali abbiano permesso di fare quello che da cinquant’anni fa lo stato israelia
no? Il perché è presto detto: lo stato di Israele difende gli interessi strategici della finanza internazionale, delle borse e delle multinazionali, e per questo ha dietro di sé gli stati occidentali che, dalla sua nascita, lo hanno finanziato, armato coi sistemi più micidiali (compreso il nucleare), sostenuto diplomaticamente ed economicamente (v. anche solo il trattato commerciale con l’UE). Questo non vuol dire che ogni singola azione di Israele rappresenti la volontà delle maggiori potenze imperialiste, così come non esclude che tra Europa e Usa ci siano attriti quanto ai modi e ai tempi delle azioni israeliane, ma una cosa è certa: mai e poi mai le centrali del potere economico e politico mondiale potranno fare a meno o anche solo mettere parzialmente in discussione il ruolo di quello che è il bastione occidentale del controllo sul petrolio del Medio Oriente, che garantisce e preserva la divisione del mondo arabo in stati deboli e sottomessi alle cancellerie di qui, che è sempre pronto a schiacciare con ogni mezzo qualsiasi ribellione delle masse arabo-islamiche contro sfruttamento e rapina esterni e interni. In una parola, Israele come stato difende l’ordine neo-coloniale in Medio Oriente, e per questa sua funzione di avamposto i governi occidentali, Usa in testa, ne hanno "sponsorizzato" nel ’48 la creazione nel bel mezzo della prima ondata di lotte anticoloniali che dall’Asia stava per bussare al Medio Oriente e all’Africa.
Un occidentale, dal Libano "Vi scrivo da Tripoli (Libano del nord), roccaforte islamica. Vi scrivo per denunciare quanto sia critica e delicata la situazione nel Medio-Oriente… Le immagini e notizie "di parte" della Cnn rendono la situazione ancora più difficile in quanto incorrette e poco attendibili. Seguendo Al Jazeera, la tv siriana e altre tv arabe riceviamo incredibili dirette di orrore. A volte mi fermo e penso… quanto stiamo diventando insensibili, quasi tutti coinvolti nella nostra routine quotidiana mentre a pochi chilometri di distanza si sta giocando la sorte della Palestina, del popolo palestinese e probabilmente la sorte di questo pianeta. Sì, che triste pensare che forse occorre una tragedia catastrofica per destarci dalla nostra vita di occidentali sicuri dei nostri valori e della nostra pseudo pace." Sul manifesto del 2 aprile |
Ma non è utile e realistico, si dirà, puntare sui contrasti esistenti tra Europa da una parte e Usa e Israele dall’altra per spingere i governi europei a far pressioni su Israele e intervenire con forze di "interposizione"? È l’opzione che gruppi di pacifisti di diversi paesi occidentali hanno portato avanti in prima persona recandosi (e rischiando, anche) in Palestina. Guardiamo i fatti, però: l’offensiva dell’esercito sionista prosegue indisturbata nonostante qualche ipocrita esternazione delle cancellerie europee. In cambio si è amplificata a dismisura la propaganda che equipara al "terrorismo" la lotta del popolo palestinese.
Si dice: se solo l’Europa volesse… Già, ma perché non vuole? Gli attriti tra Europa e Usa non cambiano di una virgola i fini di controllo e di rapina che anche i paesi europei perseguono nell’area e che rendono indispensabile l’aiuto, quand’anche con metodi "sbrigativi", dello stato sionista. La maggior cautela europea è dovuta innanzitutto al timore che il panzer israeliano inneschi il contagio dell’Intifadah tra le masse dei paesi arabi infeudati all’Occidente e tra i proletari arabi e islamici immigrati qui con il rischio di rivitalizzare la lotta degli stessi lavoratori europei; e, secondariamente, al timore di veder precipitare la situazione verso uno scontro tutto militare in cui, all’oggi, hanno sicuramente più spazi di manovra gli Stati Uniti. Ciò non toglie che Israele lavora anche per l’Europa imperialista che, dunque, non "vuole" intervenire a favore dei palestinesi perché ciò equivarrebbe a intervenire contro i propri interessi!
Del resto basta vedere cosa chiede ai palestinesi il soggetto deputato, con l’appoggio della "sinistra" nostrana, all’interposizione di "pace": bloccare l’Intifadah, bollata come "terrorismo", in cambio, in un futuro non meglio definito, di un mini-stato bantustan per un popolo paria. Non va dimenticato, poi, che le masse palestinesi hanno già vissuto sulla propria pelle la tragica esperienza di interventi di "interposizione" occidentali e Onu che non hanno mai fermato (e qualche volta, anzi, hanno direttamente favorito, come a Sabra e Chatila) gli eccidi ai loro danni. Un’eventuale "interposizione" europea, se si desse, avrebbe la funzione di far rispettare ai palestinesi, dopo il lavoro sporco svolto dal democratico governo Sharon-Peres, nient’altro che le condizioni dettate dall’ordine neo-coloniale nell’area. Una "pace" strangolatoria per le masse (non migliore della guerra!) che legittimerebbe nel ruolo di "pacieri" quegli stati che hanno bombardato Jugoslavia e Afghanistan, che da più di dieci anni assassinano il popolo irakeno e che qui attaccano senza tregua le condizioni dei lavoratori.
L’idea dell’interposizione ha un ulteriore, micidiale effetto indotto. Ci si "interpone" tra soggetti che non possono convivere: così, lo si voglia o meno, si dà l’idea che il conflitto in atto sia tra popoli o tra religioni. Ma questa è una rappresentazione mistificata che non a caso è scientemente diffusa a piene mani dai media occidentali, da Israele e dagli stessi regimi borghesi arabi che -su piani diversi- hanno tutto l’interesse a stornare l’attenzione dalle vere cause.
In realtà in Palestina non si gioca un conflitto tra due popoli, né la guerra è il prodotto di "opposti estremismi". Essa è il portato inevitabile dell’ingiustizia e dell’oppressione esercitate sulle masse palestinesi e arabe tutte da un sistema di rapina e sfruttamento -di cui lo stato israeliano è il gendarme in loco- le cui chiavi sono in mano ai signori del denaro, ai padroni della finanza (e della guerra) che siedono negli uffici tirati a lucido delle cancellerie e delle banche occidentali. L’assassinio sistematico delle vite e delle speranze palestinesi è l’altra faccia, la più cruda, della globalizzazione capitalistica e delle leggi del mercato, le stesse che nei paesi "ricchi" spingono verso un’esistenza sempre più precaria e incerta la massa dei lavoratori e dei giovani, e che gli immigrati assaggiano qui una seconda volta in termini di "trattamento" differenziale cui sono sottoposti.
Per questo la lotta palestinese chiama in causa gli altri sfruttati: le masse arabe innanzi tutto; le stesse masse ebree non sfruttatrici chiamate a scrollarsi di dosso l’inganno che ne fa, nell’illusione di avere trovato finalmente sicurezza sotto lo stato sionista, l’aguzzino di un altro popolo (ne parliamo negli altri due articoli); i lavoratori e gli oppressi d’Occidente colpiti, in altre forme, dalla "guerra infinita" che padroni e governi hanno aperto anche contro i loro diritti e le loro condizioni di vita!
Dietro il terrorismo dello stato israeliano ci sono i governi occidentali, gli interessi di banche e super-imprese che stringono in una morsa d’acciaio le riserve di oro nero. Governi e padroni di qui intervengono nei fatti di Palestina e ne escono doppiamente rafforzati. Perché conservano il controllo sulla risorsa petrolifera a costi quasi zero. E perché dividono le forze mondiali del lavoro e degli oppressi, schiacciandone coi mezzi della guerra e della "pace" una parte -in Palestina come in tutto il Sud del mondo- e prospettando ai lavoratori di qui miseri "privilegi" immediati (in diminuzione, peraltro) in cambio del loro avvallo alle missioni di "civiltà" dei padroni occidentali. Ne è un esempio quanto succede già oggi con i lavoratori ebrei chiamati a soffocare in armi i loro fratelli di classe palestinesi e con ciò al tradimento dei propri stessi interessi di classe sfruttata. Jenin prefigura il futuro dei proletari dei paesi che opprimono altri popoli chiamati alle armi contro di essi e contro se stessi!
Rompere l’isolamento della lotta dei palestinesi è fondamentale o altrimenti lasceremo che le catene contro di noi lavoratori si rinsaldino sempre di più. Non è un sostegno dato ad "altri", ma una battaglia per gli interessi di classe del proletariato contro il sistema del profitto e del denaro i cui tentacoli sono mondiali e che solo unificando mondialmente le forze degli oppressi è possibile contrastare. Per questo è necessario lavorare per una mobilitazione che coinvolga i lavoratori, per il sostegno incondizionato alla lotta delle masse palestinesi e arabo-islamiche tutte, denunciando ogni equidistanza tra aggrediti e aggressori (di nuovo: non arabi contro ebrei, ma masse sfruttate contro imperialismo) e la vergognosa equiparazione tra lotte degli oppressi e terrorismo; non per far pressione sul "nostro" governo e sull’Europa, ma contro questi soggetti la cui politica imperialista non cambia di certo solo perché portata avanti con la sconfinata ipocrisia delle petizioni di "pace". Questa battaglia va portata all’interno del conflitto che si è aperto con governo e padronato e ovunque si dia una concreta attivizzazione -dalle campagne di boicottaggio contro i prodotti israeliani alla raccolta di fondi per la popolazione palestinese- e mobilitazione; in essa va intessuto un legame con i proletari immigrati arabi, che hanno già dato più di un segnale di mobilitazione sulla Palestina, senza fare delle bandiere che al momento essi sollevano una scusa per innalzare o rinforzare quei muri che già li dividono dai proletari d’Occidente e che sono a esclusivo vantaggio dei comuni sfruttatori.
Dagli Stati UnitiIl 20 aprile si è tenuta a Washington una marcia di 75 mila persone in
opposizione ai diversi aspetti della "guerra infinita" di Bush
(contemporaneamente 40 mila manifestanti sfilavano a San Francisco). La marcia
originariamente prevedeva quattro manifestazioni distinte: contro la guerra in
Afghanistan, contro il Plan Colombia, contro la repressione interna (soprattutto
ai danni degli immigrati islamici) e contro le politiche economiche del capitale
globalizzato. L’aggressione di Israele all’Intifadah ha legato insieme le
quattro iniziative, dalle quali è emersa la comune determinazione a vedere
nella "stessa radice la grande varietà di sofferenze in atto nel mondo
intero: il ruolo delle corporation e del governo degli Stati Uniti"
(Manny Fernandez, Washington Post Staff Writer). |