Lo sciopero generale non ha provocato nessun passo indietro del governo. Per fermare le sue contro-riforme non esiste altra possibilità che continuare la lotta e la mobilitazione. È necessario, per questo, proseguire ed estendere il movimento di lotta e non esitare a esprimere nelle piazze e con gli scioperi il completo rifiuto di tutta la politica del governo. Solo l’attività e l’organizzazione sindacale e politica in prima persona di tutta la classe lavoratrice potrà portare fino in fondo senza cedimenti la lotta contro Berlusconi. |
La mobilitazione per il 23 marzo e per lo sciopero generale è stata notevole. Milioni di lavoratori (pur con l’inevitabile tara sulle cifre di parte sindacale) hanno scioperato e riempito le piazze perché sanno che la politica del governo Berlusconi è per loro molto dannosa. Buona parte delle riforme conquistate dal movimento operaio negli anni fulgenti rischiano di essere spazzate via: pensioni, sanità, scuola e fisco vengono contro-riformate secondo una più stringente logica di mercato, la totale flessibilità del lavoro apre alle aziende immense praterie per nuovi profitti e ai lavoratori nuovi gironi infernali, e le modifiche all’art. 18 puntano a sottrarre ai lavoratori la possibilità di reagire come un tutt’uno organizzato a un’aggressione di cui ora si vede solo l’inizio. Ce n’è quanto basta per giustificare le grandi mobilitazioni degli ultimi mesi.
Bisogna, tuttavia, prendere atto che non hanno smosso di un millimetro le intenzioni del governo. Il massimo di concessione offerta è un’attenuazione dell’attacco all’art. 18 in cambio dello sfondamento sul restante fronte. L’esca viene tenuta in caldo nel caso le mobilitazioni proseguissero. Intanto è già sicuro che Cisl e Uil abboccherebbero, e, rimosse le modifiche all’art. 18, tornerebbero ai tavoli disponibili a nuovi cedimenti. E la Cgil? Cofferati tiene ancora una linea "dura"; rifiuta qualunque modifica allo Statuto dei Lavoratori e la decontribuzione pensionistica, ma anch’egli avanza la propria disponibilità a "contrattare" sul resto. Anche senza stralcio dell’art. 18, la Cgil tornerebbe a "contrattare" rinviando, magari, questa questione a un referendum. Si può dubitare che "contrattare" non voglia dire fare ulteriori concessioni alle aziende e al governo?
Molti lavoratori condividono quest’impostazione, cederebbero qualche altro pezzo dei propri diritti, senza cedere del tutto alle pretese padronal-governative e, soprattutto, conservando al sindacato un ruolo decisivo nel far la guardia a ciò che rimane. Sono, per lo più, i lavoratori di aziende medio-grandi e pubblico impiego, che hanno ancora in dotazione una certa qual sicurezza occupazionale e un relativo potere contrattuale collettivo. I lavoratori che non hanno né l’uno né l’altro vedono le cose da un punto di vista diverso. Anche molti di loro hanno partecipato alle mobilitazioni, anzitutto per uscire dal purgatorio in cui sono tenuti, secondariamente perché sono consapevoli che se si riducesse ancora il potere generale di contrattazione la speranza di divenire, un giorno, più "garantiti", perderebbe ogni appiglio. La loro condizione li rende, di necessità, particolarmente sensibili agli esiti dello scontro: un successo pieno gli aprirebbe una possibilità di riscatto, un compromesso dignitoso fornirebbe energia alla tendenza a organizzarsi sul piano sindacale e politico, una sconfitta netta li lascerebbe senza alcuna speranza.
Quello che per i primi potrebbe essere un compromesso accettabile, per i secondi potrebbe, però, valere come un sostanziale e definitivo abbandono a sé stessi. L’unità tra questi due settori di proletariato, iniziata a emergere negli scioperi della Fiom, potrebbe subire un brusco arresto e rinculare. L’esito riguarda, naturalmente, gli stessi "garantiti". Un compromesso troppo al ribasso segnerebbe un nuovo pesante strappo della fiducia verso i sindacati. Il filo è già piuttosto esile. L’adesione alle mobilitazioni sindacali avviene, infatti, con un atteggiamento guardingo. La piena fiducia dei decenni andati non c’è più, troppi sono stati i cedimenti sindacali e troppo amare le delusioni ricevute dai governi di centro-sinistra. Quando il sindacato chiama alla lotta si aderisce senz’altro, ma poi è come se si rimanesse a guardare. In ogni precedente tornata di lotta agli scioperi "ufficiali" se ne affiancavano altri più o meno "spontanei", il cui senso era di dare più forza alle richieste sindacali per evitargli di soccombere alla tracotanza dell’avversario. Questa volta nulla. Persino il debole tentativo del coordinamento Rsu è svanito non appena Cofferati ha preso le redini dello scontro. Totale fiducia nella Cgil? Di fiducia nella Cgil ne viene senz’altro riposta, la sua azione è la condizione indispensabile, tuttora, per poter mobilitare il necessariamente vasto schieramento di forza. Per il resto, però, si avverte, nell’insieme della massa, l’impossibilità di poter davvero influire sugli orientamenti di questo sindacato, di cui pure si è sperimentata la non totale affidabilità. Si paventa, come dire, la fregatura dietro l’angolo. Per evitarla bisognerebbe altrimenti spendersi in una battaglia sindacale sì, ma -gioco forza- anche politica. A ben vedere, dunque, è anzitutto la fiducia nelle proprie forze che traballa. Non è un fatto precipuamente, o principalmente, quantitativo, ma tutto politico.
Quel che viene emergendo è una crisi sempre più evidente del riformismo di sinistra così come s’era costruito negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Nei primi tempi la sua politica (riformare il capitalismo con correzioni graduali dall’impronta "sociale", se non presuntamente "socialista") era stata corroborata con prove sostanziali: conquista di diritti sindacali e politici, espansione di un relativo benessere economico, riforme che andavano incontro alle necessità proletarie. Da un certo punto in avanti, sotto l’incedere di una pressione crescente del fronte padronale, interno e internazionale, e di governi sempre più esplicitamente uniformati a quest’ultimo, la sua politica è mutata. Ha abbandonato ogni pretesa di "riformare il sistema", e si è progressivamente adeguata a esso: non più nuove conquiste, ma anzi un progressivo arretramento dalle precedenti, lungo una via che appare senza fine, perché se all’inizio i cedimenti erano giustificati con necessità contingenti, superate le quali sarebbero state ripristinate le condizioni di partenza, successivamente la promessa di un "secondo tempo" è miseramente scomparsa ed è rimasta un’unica realtà dichiarata immodificabile, quella del mercato. A un padronato che vuole il proletariato sottomesso totalmente a essa, il riformismo di sinistra e quello sindacale oppongono unicamente un tentativo di moderare gli spiriti più selvaggi del mercato.
Il proletariato, per parte sua, pur avendo ormai abbandonato ogni pur blando richiamo all’"ideologia di classe", non è approdato alla piena "ideologia di mercato" richiestagli da padroni e governi, abbandonandosi individualmente in sua balìa con la correlata rinuncia a ogni forma di difesa collettiva. Non hanno fatto tale passo i proletari che hanno conquistato e sperimentato le "tutele collettive", non l’hanno fatto nemmeno i proletari che non le hanno mai sperimentate. Gli uni e gli altri manifestano apertamente la necessità di avvalersene. Con ciò non contestano il sistema nel quale sono costretti a vendere la propria vita sotto forma di forza-lavoro, semplicemente cercano di non essere completamente schiacciati dai suoi micidiali meccanismi. Oppongono al capitalismo un’elementare, quanto convinta, difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita che rimane saldamente ancorata a un piano riformista. L’istanza è rivolta alle forze che tradizionalmente l’hanno rappresentata nel ciclo precedente, sindacati e partiti di sinistra.
L’ultra-moderato e "realistico" riformismo delle masse coincide, dunque, negli obiettivi con quello politico-sindacale, ma deve fare i conti con un capitalismo sempre meno disposto a fargli concessioni. I lavoratori sono, perciò, chiamati a prendere atto di ciò, che ogni "tutela" si sta sgretolando sotto l’attacco capitalistico, che nessun "realistico" riformismo è in grado di fermare questo processo e che occorrono dei passi decisi, sul piano della lotta e della battaglia politica, per invertire la rotta e dare vita a una reale difesa delle condizioni proletarie.
Il fatto non è semplicemente (e stupidamente) che le masse "vogliono lottare e il riformismo no". L’uno e l’altro vogliono ridurre, secondo la legge del minimo sforzo, la lotta al minimo indispensabile. Ed entrambi escludono di voler creare seri problemi al sistema capitalista. Dobbiamo difendere la nostra condizione senza far male al capitalismo, a quello nazionale innanzitutto. Lo dice la Cgil, lo pensa la grande maggioranza dei lavoratori, tutelati o no, con gradazioni diverse (i secondi propendono, per le condizioni stesse di lavoro e di vita, verso una maggiore radicalità). Una conflittualità accesa e continuata nel tempo di problemi, invece, ne creerebbe al sistema, e, soprattutto, favorirebbe una radicalizzazione dello scontro che potrebbe portare settori significativi della classe proletaria oltre i limiti di una lotta tutta interna al sistema capitalista.
Chi e come stabilisce il limite da non oltrepassare? Se il limite posto dalla Cgil e dalla sinistra si dovesse rivelare troppo angusto (nel senso di compromessi eccessivamente al ribasso), allora bisognerà cercarne un altro. Il definitivo fallimento della sinistra capitalista non avrebbe il potere, di per sé, di schiodare le masse dalla propria attitudine e coscienza riformista, non darebbe la stura a un’immediata dislocazione anti-capitalista del movimento dei lavoratori, ma lascerebbe sul terreno lo stesso problema di come conciliare la propria necessità di difesa con quella di non arrecare danni al sistema. Se non si riprende un’iniziativa forte sul terreno della difesa intransigente degli interessi di classe c’è il concreto rischio che la "quadratura" tra questi due elementi sfoci in un’ulteriore deriva, rafforzando, all’immediato, le tendenze a là Le Pen che prospettano di difendere le condizioni dei lavoratori "insieme" a quelle del capitalismo nazionale nell’ambito di un aperto sciovinismo social-imperialista contro gli immigrati, contro i popoli oppressi per un rilancio del colonialismo e dell’imperialismo "in proprio", contro gli altri popoli-nazione. In un pezzo almeno d’Italia c’è chi lavora apertamente per una simile prospettiva: la Lega Nord.
Il passaggio di parti del proletariato dalla "sinistra" alla destra avverrebbe, come in Francia, senza cesure con la coscienza riformista della massa. Anzi l’educazione del riformismo di sinistra (difesa di classe ben all’interno delle compatibilità del "proprio" capitalismo, oltre che del capitalismo in generale) costituirebbe una naturale passerella per lidi più apertamente social-sciovinisti.
L’unica alternativa a questa deriva è costituita, al momento, da ciò che si agita nel movimento "no global". Una parte del proletariato, soprattutto giovane, è già attratta in certa misura dalle tematiche che sottostanno al suo sviluppo, in particolare quelle di una lotta a base internazionale e internazionalista contro i poteri unici mondiali che gestiscono l’aggressione alle masse lavoratrici di tutto il mondo e quelle che pongono la necessità di una fusione in un unico programma e in un unico fronte delle lotte contro le mille contraddizioni antagoniste scatenate dal sistema capital-imperialista. Al momento, la forza attrattiva di questo polo nei confronti dell’insieme del proletariato è, però, molto limitata. Esso si presenta sul piano politico in modo fumoso e contraddittorio, non costituisce una vera alternativa dai chiari programmi e prospettive, e quelli propugnati dalle leadership costituiscono delle riedizioni in sedicesimo di un riformismo piagnone verso i potenti di turno. Lo stesso movimento "no global", è, dunque, da tempo di fronte a un bivio: o rappresentare una corrente sotto-riformista per rendere meno "selvaggio" il dominio capitalistico e imperialistico o svilupparsi in un potente fattore di diffusione della lotta e dell’organizzazione mondiale di classe.
Per un tal processo non può bastare una semplice "contaminazione" tra movimento dei lavoratori e movimento "no global" presi per quello che al momento sono. Così come sarebbe inane puntare a modificare solo l’uno o solo l’altro per poter poi avviare una "contaminazione" al livello "più alto". La battaglia va data all’interno di entrambi i soggetti nello stesso tempo, e la lotta contro Berlusconi offre un concreto terreno per darla.
Entrambi hanno interesse che questo scontro non si concluda con una sconfitta. Si può ottenere, a condizione di dare continuità e forza al movimento di scioperi, fino a un nuovo sciopero generale. Abbisogna, perciò, una campagna politica assidua verso la massa dei lavoratori, e bisogna che i lavoratori riassumano nelle proprie mani l’iniziativa, dentro e fuori i sindacati. È questa l’unica condizione per impedire che i sindacati si prestino a compromessi inaccettabili, o che, in seguito a essi, i lavoratori si disperdano nella delusione e nella sfiducia. L’argine contro compromessi al ribasso può essere dato solo sviluppando una lotta contro tutta la politica del governo, che neghi di poter trattare con lui su qualunque tema. Il governo Berlusconi se ne deve andare e chiunque lo sostituirà deve trovare i lavoratori organizzati e pronti a difendere con la lotta ogni attacco alle proprie condizioni, senza ripetere l’errore del ‘94, quando il movimento di lotta delegò al parlamento e alla scheda elettorale le sue sorti.
La lotta va, poi, data fin da subito con una proiezione internazionale: il governo italiano non è isolato dagli altri governi europei e americani, e una sua vittoria contro i lavoratori italiani sarebbe il prodromo di un attacco anti-proletario più violento in ogni paese europeo ed extra-europeo, così come costituirebbe un ulteriore trampolino di lancio dell’aggressività italiana (e occidentale) contro i popoli oppressi a partire da quelli ribelli di Palestina, Iraq, Afghanistan, Argentina, Cuba, Colombia, Venezuela. Un ponte va gettato, dunque, a tutti gli altri lavoratori occidentali, affinché sostengano la lotta dei lavoratori italiani e per intrecciare con loro una lotta di resistenza ad attacchi analoghi che subiscono e ancor più subiranno in caso di vittoria di Berlusconi. Non meno indispensabile è lanciare un ponte ai popoli oppressi dall’imperialismo, che pagano con la propria vita la fame di profitti che muove le politiche -interne ed estere- dei Berlusconi, Blair, Bush ecc., a partire dai loro distaccamenti già presso di noi, i lavoratori immigrati, già capaci di lotte straordinarie e che la legge Bossi-Fini vuole ripiombare nell’assoluta impossibilità di organizzarsi per resistere al super-sfruttamento cui sono sottoposti.
Tutto ciò e nulla di meno serve per evitare di essere sconfitti da Berlusconi, o per creare le premesse affinché l’eventuale sconfitta o il compromesso a perdere non si trasformino in ulteriore dispersione delle forze di classe e in un massiccio arruolamento dietro bandiere social-scioviniste.
Una battaglia a tutto campo che può essere avviata solo enucleando un’avanguardia che recida nettamente i ponti con ogni tipo di riformismo e si sottragga fino in fondo dalla logica delle compatibilità del mercato, delle aziende e del paese. Un’avanguardia comunista, organizzata nella lotta e sul piano politico, che faccia dell’internazionalismo, dell’anti-capitalismo, del protagonismo "per sé" delle masse gli assi portanti della sua iniziativa rivolta all’insieme delle masse proletarie e non.