Un’altra Porto Alegre è possibile.


Indice


Qualche appunto soltanto su Porto Alegre, un tema sul quale occorrerà ritornare assai più estesamente e in profondità; quanto basta, per ora, per chiarirne gli elementi di fondo.

Non ci disperdiamo in cronache giornalistiche dell’"evento" perché di colore locale ed impressionismo vacanziero si sono già riempite fin troppe pagine. Giustamente e con onestà intellettuale, dal suo punto di vista, il corrispondente di Carta, venuto in loco chiedendosi "come non fare i giornalisti" (vedi n. 5), ha -giornalisticamente- riassunto così quanto gli è capitato sotto gli occhi: "Un grandissimo casino (scusate la parola) che moltiplica se stesso solo in orizzontale, dove decine di migliaia di persone fanno qualunque cosa, incluso innamorarsi… abbiamo lavorato come somari (possibile, n.n.) e abbiamo avuto la sensazione permanente che ci sfuggisse quasi tutto, come in effetti era".

Noi, confidando di esserci risparmiati un po’ quanto a somaraggine, crediamo che dietro l’apparente "casino" e le "qualunque" cose messe in cantiere dalle decine di migliaia di persone presenti, si possa stabilire una trama ordinata che collega le mille attività in agenda e si possa con ciò rispondere alla domanda: cos’è stato e promette di essere per il futuro il FSM di Porto Alegre?


La Porto Alegre ufficiale

Il filo che tiene assieme i vari aspetti del Forum, in orizzontale e in verticale, è quello della situazione economico-sociale via via sempre più "insostenibile" dell’America Latina (da cui è partita l’iniziativa) e del Terzo Mondo in genere, già con qualche puntata promettente entro il mondo affluente in seguito a quella che, correntemente, si chiama l’offensiva neo-liberista (che noi, molto più semplicemente, definiamo col suo nome proprio: la fase "ultima" e più sfrenata dell’imperialismo capitalista). Una via d’uscita da questo incubo deve essere immaginata e perseguita come possibile perché in questo mondo non c’è strada per sopravvivere da uomini; come recita l’insegna del FSM, "un altro mondo è possibile". Giusto. Ma quale, ed a che condizioni?

La delegazione più "nutrita" del mondo occidentale

Molti italiani a Porto Alegre. La delegazione più "nutrita" del mondo occidentale. Migliaia, quasi diecimila, stando ai flash informativi. Saremmo i primi ad esserne contenti se… se a tanta quantità corrispondesse altrettanta qualità, militante, comunista, internazionalista.

In realtà, una parte dei no-global in trasferta si è soprattutto data da fare per un’operazione pompieristica a livello dell’estensione dei documenti ufficiali nelle sedi di "vertice" e ne abbiamo sentita insistentemente la vanteria sulle proprie capacità di "mediazione" (con la scusa, sempre, di "non pregiudicare l’unità del movimento"), col bel risultato della schifezza di documenti finali usciti dal Forum. L’esempio di Genova è stato ben speso da questi "capi del movimento" contro le spinte "estremistiche" di Porto Alegre, e in particolare quelle che stavano fuori dall’ufficialità e, addirittura!, osavano invadere le piazze nel nome dell’unità latino-americana ed internazionalista nella lotta anti-imperialista.

Un’altra parte ha attivamente partecipato ai singoli incontri tematici (tutti, in generale, di estremo interesse) portandovi un proprio contributo, di per sé non irrilevante in certi casi, ma nel chiuso di discussioni "specialistiche", per così dire, senza un raccordo globale di programma ed organizzazione. C’è anche chi (come Radio Città Aperta) si è data molto da fare per raccogliere dal vivo le voci presenti, dentro e fuori il quadro ufficiale, e questa, se opportunamente socializzata, filtrata ed… organizzata, è senz’altro opera meritoria.

Ma, al di là di questi livelli, nessuna forza politica italiana -guarda caso!- si è fatta sentire come bandiera comunista ed internazionalista diretta al movimento di classe in campo. Su questo terreno noi eravamo soli, e gli unici (senza inutili vanterie perché sappiamo benissimo in proprio misurare i deboli coefficienti a nostra disposizione in termini di numeri, mezzi ed immediata influenza). Non suoniamo la grancassa per le nostre bandierine, ma segnaliamo un principio cui abbiamo dato, solitari, il nostro contributo "italiano".

E non nascondiamo poi il fatto che di tutta questa massa annunciata di italiani presenti a Porto Alegre si è avuta una traccia abbastanza ridotta anche sotto il semplice aspetto della presenza fisica. Molti "compagni" si aggiravano per il Forum cercando i tizio ed i caio promessi, regolarmente assenti. Dove stavano? Non è una malignità dire che, in buona percentuale, stavano altrove, molto più… alegres. E, per più d’uno di essi, sarebbe il caso di chiedersi: con quali mezzi ci sono venuti -per poi non esserci-? Sarebbe interessante disporre di una mappa dei viaggi organizzati gratuiti di rappresentanza e della fine che essi hanno fatto nella realtà. Siamo personalmente testimoni di alcuni episodi francamente imbarazzanti, ma non inattesi.

Gli organizzatori locali del Forum se ne sono fatti interpreti l’anno scorso sotto forma di una proposta "riformatrice" dei meccanismi del capitalismo internazionale: rispetto delle economie nazionali e dello sviluppo "sostenibile", limiti alla rapina delle multinazionali, reciprocità d’interessi negli accordi economici, nessuna intromissione politico-militare negli affari altrui, tutela dell’ambiente etc. etc. Tutte cose assolutamente… impossibili nel quadro del capitalismo. Ed allora, dentro o fuori? Vuoti appelli riformisti o lotta risoluta internazionale contro il capitalismo? I promotori del FSM hanno tentato e tentano invano di dar sostanza a programmi di aggiustamento senza potersi esimere in qualche modo dal dar voce e persino "organizzare" le spinte alla lotta delle masse che essi "rappresentano" perché, teniamolo ben chiaro, un riformismo conseguente in paesi come questi, a differenza che nei paesi metropolitani, significa comunque dover mettere in campo una forza di mobilitazione reale, difendere sedi sindacali e comunali, far conto che la propria vita, e non solo degli spiccioli in più o in meno nel portafoglio, è in questione. Al tempo stesso, tale riformismo, quand’anche "eroico", non può cessare dal rimanere tale, non cambia natura, per quanto un Lula possa posare da gigante rispetto ad un Cofferati. Anche questo riformismo, che pur sa pagare di persona (come di persona pagarono anche i socialisti italiani nel primo dopoguerra), non può immaginarsi né mettere in campo in prima persona un’azione rivoluzionaria di classe, ma, semmai, tenta di esorcizzarla.

Quest’anno esso ha compiuto un passo ulteriore in questo senso allargando i confini del Forum ad una più nutrita partecipazione europea, in particolare per dare alle proprie petizioni riformiste una concreta sponda d’appoggio. Già. L’Europa. Quale Europa? I proletari, i rivoluzionari (se mai ci sono) dell’Europa? Molto più modestamente, in realtà, le forze statali e… parastatali di quest’Europa che si presenta sullo scenario latino-americano come "concorrente" più equanime e rispettosa delle "sostenibilità" rispetto al big statunitense. Parlamentari ed amministratori pubblici europei sullo stampo Jospin o, addirittura, Veltroni ed il transgenico Pecoraro Scanio, gente che poco importa se ha mosso o sottoscritto la guerra a mezzo mondo, ma che ha la bella faccia tosta di assicurare ai propri partner latino-americani antiglobal che, d’accordo, un altro mondo è possibile… Al seguito di questi squadroni del "nuovo" un’infinità di Ong, Attac, Tobinisti etc. etc. (mettiamoci pure qualcuno onesto nelle intenzioni nel mucchio: non sta qui la questione, la questione è il mucchio e chi ne detta le regole).

Che se ne cava? Per capirlo basta dare un’occhiata al documento finale del Forum su "Resistenza al neoliberismo, al militarismo, alla guerra: per la pace e la giustizia sociale", che i delegati italiani ufficiali, spesati e stipendiati, abbiamo sentito vantare come un proprio successo. Un documento in cui si riesce nel miracolo di non nominare una sola volta capitalismo, guerra imperialista e meno che mai proletariato ed unità internazionale di lotta degli sfruttati. "Dopo" (si badi bene!) "gli attacchi terroristici (dell’11 settembre) che condanniamo assolutamente", gli Usa hanno fatto una guerra "in cui sono stati usati anche metodi terroristici". Vero che "noi" ci opponiamo fermamente a questo tipo di guerre, ma pacificamente, e in quanto "scegliamo di privilegiare il negoziato e la soluzione non violenta dei conflitti" (come già sperimentato in Iraq, Jugoslavia, Afghanistan: ed è solo un caso che tra i firmatari di questa brodaglia ci siano anche coloro che, in mancanza di negoziati, si sono dovuti rassegnare ad usare le bombe!). Sempre "noi" siamo per la "creazione di una società sostenibile alternativa" che, in realtà, non va al di là, e solo a parole, della prospettiva della preservazione delle vecchie società del… pre-liberalismo selvaggio nel ridotto delle proprie frontiere nazionali (un’utopia doppiamente reazionaria, sia perché irrealizzabile sia perché non pone il problema, essenziale per i marxisti, della socializzazione delle forze produttive mondiali in tutta la loro ricchezza per l’insieme dell’umanità). Inoltre, "noi" siamo per la democrazia, pensa un po’!, perché "i popoli hanno il diritto di conoscere e criticare le decisioni dei loro governi" e su questa base "sosteniamo la diffusione della democrazia elettorale in tutto il mondo". Una testa un voto, più in là di questo non si va: le teste conoscono, la mano critica nell’urna, il capitale decide ed agisce, ma la nostra individual-coscienza è a posto.

E, a proposito, "noi" chi siamo? "Siamo diversi -donne e uomini, adulti e giovani, contadini e urbani, lavoratori e disoccupati, senza casa, anziani e studenti, persone di ogni credo, colore, orientamento sessuale. L’espressione di questa diversità è la nostra forza e la base della nostra unità". Non ci unisce il filo di una comune oppressione e di una comune aspirazione, di una comune organizzazione per l’umanità, ma la "diversità", e, già che c’eravamo, potevamo inserire tra le diversità creative quella tra oppressori ed oppressi, di cui qui si è persa la nozione.

Possiamo comprendere come gli organizzatori locali del Forum si siano potuti e dovuti acconciare a questo distillato di chiacchiere, frutto di infinite contrattazioni e mediazioni (il termine non è nostro: se lo rigiravano come vanto tra di loro i vari protagonisti di spicco, naturalmente europei) in puro stile parlamentare. Resta sempre l’attesa che dalla parte "buona" del capitalismo, quella occidentale di "sinistra", possa ricadere qualche briciola sul piatto dei disgraziati, che accordi migliori possano essere trovati con forze politiche ed economiche statuali meno esose degli Usa. Che… una miglior schiavitù sia possibile. Il "realismo" degli organizzatori del Forum si è spinto, dietro pressione europea (il famoso Ramonet compreso!), sino al punto di inibire l’intervento ad esso di Castro, con la scusa che egli non rappresenta uno spezzone di "società civile", ma "uno Stato", e gli Stati non c’entrano. Del tutto ininfluente l’obiezione che a Porto Alegre sono convenuti, come sopra si è detto, fior di rappresentanti, diretti o indiretti, di stati imperialisti europei, a meno che qualcuno non riesca a spiegarci cosa ci stavano a fare e che spezzoni di società civile antiglobal rappresentassero tipi svirgolanti dai Veltroni ai portaborse di Jospin. Chiaro che lo stop a Castro significava uno stop all’eventualità che la presenza di un esponente di quella che è stata una vera rivoluzione (per quanto non comunista) e rimane il capo di un paese comunque (sempre per quanto non comunista) parzialmente indipendente dai diktat dell’imperialismo Usa, galvanizzasse gli umori anti-imperialisti e di unità rivoluzionaria latino-americana delle masse in gioco.

Lo stesso Lula ha pagato a quest’ideologia e prassi perverse il suo tributo in un intervento finale in cui ha spiegato che quando si hanno i capelli bianchi si cessa di sognar fuochi e fiamme e che, al massimo, gli accordi economici ed il debito iniqui si possono "ricontrattare", giammai mandare al diavolo.

L’altra faccia di Porto Alegre

Per nostra fortuna, il movimento sociale, e non solo in America Latina, non ha i capelli bianchi, ma scurissimi e irsuti e buone braccia da far valere. E questo è l’altro aspetto di Porto Alegre, con un tipo di risposta agli stessi problemi che i riformisti in campo si pongono, ma da tutt’altro punto di vista e con ben diversi accenti e conseguenze d’azione.

Nelle varie istanze del Forum si sono discussi, in un’infinità di sedi, praticamente tutti i problemi che si ricollegano alla realtà dell’oppressione capitalista, dalla a alla zeta, dalla guerra al riscatto dei bambini di strada, dal debito estero ai problemi della comunicazione e via dicendo, con una forza di argomenti e di calore partecipativo che derivano proprio dalla concretezza con cui tutti singolarmente e tutti insieme questi problemi si ricollegano ad un filo unitario e ad una sola, identica prospettiva di emancipazione. Questo, diremmo, anche nel caso in cui i "singoli" temi venissero affrontati in un’ottica di fiducia nel cambiamento graduale, pacifico, riformista (come non è possibile). In ogni casi l’esatto opposto delle fumisterie indistinte di cui sopra perché questa ricchezza di elaborazione ha chiamato direttamente in causa, qui, nel concreto, l’oggetto ed il soggetto vero del contendere: capitalismo imperialista e proletariato. Essa non è entrata a far parte dei documenti ufficiali se non pro forma ed in maniera distorta perché non può riassumersi in quella prospettiva di vuote chiacchiere. Non siamo ancora al contro-programma, alla contro-organizzazione, ma a fermenti in cerca di un elemento di catalizzazione che li unifichi e questo elemento, va da sé, sta per forza di cose al di fuori delle aule di studio e confronto intellettuale (usando, stavolta, il termine in senso non spregiativo). Quest’elemento può essere costituito solo da un movimento di classe in grado di promuovere e far propria la critica e l’elaborazione scientifica dei dati per la propria lotta.

C’era, a Porto Alegre, questo movimento?

Sì, noi lo abbiamo visto, senza sovraestimazioni, senza esaltazioni fuori di luogo. Stava nella massa vera, sfuggita all’attenzione dei tanti cronisti occidentali, che, fuori dalla cornice dell’ufficialità del Forum, si trovava assieme a discutere, ad organizzarsi, a promuovere un’infinità di piccole e grandi manifestazioni di comunanza, solidarietà ed unità internazionalista. Brasiliani, argentini, cileni, palestinesi, asiatici, europei (pochi) e così via. E qui il clima era ben diverso da quello ovattato degli incontri "ad alto livello" e dei documenti ufficiali. Non diciamo affatto, proprio perché non amiamo la retorica e non miriamo ad ingannare né gli altri né noi stessi, che qui tutto stesse perfettamente al suo posto. Al contrario, mentre il riformismo ufficiale (da quello carne e sangue di Lula a quello pappamolle e liquame di Veltroni) era in grado di darsi un quadro organizzato di incontro, qui l’istanza di classe si trovava a far fronte con l’assenza di un proprio quadro del genere col rischio della dispersione per mille rivoli "specifici" del torrente alluvionale dell’unitario problema di fondo. Però, ci ha lavorato, ha tentato di tessere un suo filo e, nella misura in cui c’è riuscita, l’ha fatto nei termini non di mediazioni parlamentari, ma di unità effettiva di lotta.

Il movimento di classe, giustamente conscio della propria debolezza, della propria attuale mancanza di organizzazione centralizzata, ha giustamente ritenuto di presenziare in forza ad un Forum in cui, sia come sia, tutti i problemi che lo concernono erano posti ed attorno al quale, quindi, si concentrava immediatamente, in mancanza di alternative, l’attenzione di tutti gli sfruttati e questo non per interloquire con l’ufficialità dei vertici, ma con la massa profonda, per ragionare con essa, per dare ad essa uno sbocco più in alto, e diverso, sul piano organizzativo e di lotta.

Il riformismo, noi lo sappiamo da vecchia data (vedi le Tesi di Roma del ’22), agita e raccoglie ai fini della conservazione sociale i temi di fondo cui gli sfruttati sono vitalmente interessati. Questo terreno non può essere scartato per inventarsene un altro. Esso è, per noi, un campo di confronto e di battaglia chiarificatrice e selezionatrice di forze.

Il nostro intervento

A Porto Alegre i nostri compagni hanno diffuso in migliaia di copie un volantone in due versioni, spagnola ed inglese (Globalicemos la lucha y la organizaciòn de clase – Let’s globalize the fight and the class organization) ed alcuni agili opuscoli di riassunto dal giornale delle nostre posizioni su alcuni temi di fondo (What is the Internationalist Communist Organization?; After Genoa: the choices that have to be made; On the fight against fascism, yesterday and today; Let’s mobilize against the new Usa-Nato aggression to the arab islamic peoples; Viva el proletariato argentino en lucha contra el capital globalizado!; Remember Jugoslavia!; Against Usa and european imperialism) nonché copie del giornale in italiano.

Il massimo di sforzo possibile, nei limiti delle nostre forze, è stato indirizzato alla discussione ed alla presa di contatto con gli elementi interessati dei vari paesi presenti. In generale abbiamo notato un interesse vivo verso la conoscenza delle forze politiche che si esprimevano al di fuori della cornice ufficiale del Forum ed un atteggiamento particolarmente attento nei confronti dei cosiddetti "esterni" al continente, con un’esplicita domanda ad essi di impegno internazionalista in una lotta di emancipazione sentita davvero come "globale". Una domanda cui le nostre esigue forze ci permettono di dare una risposta tuttora scarsamente visibile rispetto alla bisogna, ma di cui speriamo, nondimeno, di registrare delle conseguenze sul piano di una prima presa di contatto coi nostri "lontani" interlocutori.

Non parliamo qui di noi-OCI, del nostro intervento in questa sede (ci limitiamo a segnalare che esso è stato l’unico come organizzazione politica da parte italiana ed uno dei pochissimi europei), ma vogliamo segnalare, come indicativo di una tendenza coerentemente comunista internazionalista, l’esemplare "carta aperta ai militanti sindacali e popolari partecipanti al FSM-2002" firmata da esponenti della sinistra sindacale brasiliana della Cut. A questa carta manca certamente qualcosa di essenziale dal punto di vista (qui non esigibile) del partito, ma il resto c’è tutto, è perfettamente nostro e da esso discende necessariamente anche quello che… non c’è in superficie.

Invitiamo i nostri lettori a seguire passo passo questo documento e a confrontarlo con le immagini folk-vacanziere da manifesto e Liberazione (col loro "bellissimo casino" plurale).

"Viviamo una situazione terribile in tutto il mondo -esordisce il documento-. Il governo degli Usa, con la copertura dell’Onu (ignoto l’uno e innominata l’altra nei documenti ufficiali, n.n.), utilizza i condannabili attentati terroristici dell’11 settembre per intensificare (non "avviare", n.n.) una politica di guerra senza limiti cominciata coi bombardamenti dell’Afghanistan e lungi dalla fine". Si passa di qui all’esempio argentino, episodio di guerra "pacifica" del Fmi ed ai piani Alca per sottomettere l’intera America Latina al dominio imperialista Usa: "In questa situazione i padroni del mondo -multinazionali, speculatori, governi a servizio di istituzioni come Omc, Bm, Fmi- dichiarano una guerra economica e politica contro i lavoratori… La lotta di resistenza (giusta espressione per la fase difensiva attuale, n.n.) contro questa politica di terra bruciata pone la questione dell’unità dei lavoratori dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest del pianeta, della lotta dei popoli sfruttati ed oppressi per fronteggiare quest’offensiva (..) ed aprire la strada per un futuro di umanità". Esperanto marxista! I nostri fogli parlavano la stessa lingua!

"Siamo certi, continua il documento, che questo è il sentimento che motiva molti compagni e compagne a partecipare al Forum". Abbiamo constatato che così era. Ora, un "sentimento" buono nasce da buone… "ragioni" ed è la leva su cui operare. Per questo "noi stiamo qui", ma non "con le mani in mano", non dietro i vostri sentimenti, ma per chiarire, a voi e con voi, il loro senso ed il loro possibile scioglimento in positivo. La realtà del FSM corrisponde davvero a queste aspettative? Vorremmo porre alcune questioni e invitare i compagni e le compagne a tirarne delle conclusioni".

Il FSM mette al centro di tutto la cosiddetta "società civile" (l’insieme dei mille diversi sopra ricordati). Ma che significa quest’espressione tanto di moda se non "la soppressione delle frontiere di classe che esistono nella società concreta"? "La politica della ‘società civile’ è oggi la politica ufficiale della Banca Mondiale (Bm). Giudicate voi stessi da questo passo della relazione della Bm sullo sviluppo 2000-2001: ‘È conveniente che le istituzioni finanziarie proseguano i propri sforzi (..) per svolgere un dialogo aperto e regolare con le organizzazioni della società civile, in particolare con quelle che rappresentano i poveri (..) per riunire le parti contrarie in forum formali ed informali al fine di canalizzare le energie mediante processi politici invece di permettere allo scontro di proporsi come situazione ultima’ ". Abbastanza chiaro o no? E le famose Ong? Da un documento ufficiale della Bm: "Più del 70% dei progetti appoggiati dal Bm approvati l’anno scorso hanno coinvolto in qualche modo le Ong e la società civile". E quell’Attac che si ripromette di "cambiare il mondo" attraverso "un maggior controllo sulla globalizzazione"? Sentite il presidente della sua sezione francese, Bernard Cassen, tra i redattori di spicco di Le monde diplomatique: "Il presidente Bush sta facendo dei passi in direzione delle proposte di Attac dopo l’11 settembre (...) si sta avvicinando alle nostre posizioni". Non vi pare strano che, mentre sta facendo una guerra di oppressione, Bush si stia avvicinando ad Attac? Chi si avvicina a chi?

Il FSM evoca la questione delle aree di guerra, ma, tanto per dire, ne espunta Afghanistan, Iraq, Palestina, Somalia, Jugoslavia… Sarebbero, forse, aree di pace, oppure la guerra, in questi casi, può passare (purché, come abbiamo visto, non con atti "anche" terroristici?).

Ancor più recisa la sintesi che troviamo in un foglio politico brasiliano: da Seattle a Porto Alegre assistiamo a "fenomeni profondi di contestazione" del sistema che implicano "una mobilitazione di piazza" (e non solo, ovviamente!); con questa mobilitazione poco hanno a che vedere le forze riformistiche che si limitano a proporre "un’operazione cosmetica della globalizzazione senza rottura con le multinazionali"; stiamo andando incontro a "una polarizzazione sociale e politica crescente che genera convulsioni e rivoluzioni" e richiede, perciò, da parte nostra, "una contestazione aperta" ed un’"azione diretta" di massa contro l’imperialismo. Sì, "un mondo socialista è necessario e possibile", ma "costruire un mondo nuovo esige la distruzione dell’imperialismo attraverso una lotta di massa che apra la strada all’avvento del socialismo".

Per la massima concentrazione delle forze degli sfruttati

Due manifestazioni di strada hanno segnato questo appuntamento di Porto Alegre: all’inizio quella, grandiosa, contro la guerra, alla fine quella, anch’essa assai partecipata, contro il progetto Alca. L’una e l’altra hanno indicato il divario tra le alte elaborazioni dei vertici del FSM e i sentimenti di massa e lo sforzo organizzativo dal basso per un vero altro mondo possibile contro e senza il capitalismo. Non vi abbiamo incontrato gli ufficiali dei vari eserciti autoproclamatisi "dirigenti del movimento no-global" e, in particolare, quelli italiani ("la più nutrita -chissà in che senso?, n.n.- delegazione estera", v. riquardo), al solito più numerosi della truppa; ma vi abbiamo incontrato decine di migliaia di militanti, per lo più giovanissimi, di varie terre e lingue, senza (ancora) una linea programmatica precisa, senza (ancora) un’organizzazione, ma con idee ben chiare quanto all’essenziale: la lotta è tra sfruttati e sfruttatori, tra internazionale degli oppressi ed internazionale imperialista degli sfruttatori; le bandiere Usa non si riformano, ma si bruciano (la prossima volta porteremo qualche bandiera europea augurandoci faccia la stessa fine); dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest dobbiamo trovarci assieme perché siamo uguali, siamo gli stessi, e solo i confini imposti dal capitale ci fanno diversi fra noi e fra noi incomunicanti.

Nel giro di un anno, il FSM ha già maturato un’esperienza non da poco: il crescente divario tra le sue alte sfere dirigenti e sottoscriventi documenti-fumo ed una base che si va allargando, attivizzando ed unendo ai margini e fuori (domani: contro) la cornice ufficiale. Di questo si sono accorti anche gli organizzatori dell’iniziativa, titubanti di fronte alla prossima scadenza. Quest’anno -rispetto al precedente, di deferente attesa dei messaggi dall’alto- abbiamo già avuto delle contestazioni a presenze "no global" in odore di global pro-imperialismo e manifestazioni popolari e di classe fuori dal coro. Ed il prossimo anno? Posto che la morsa Usa sul continente è ben lungi dal potersi allentare e che dall’Europa si profilano, al massimo, lacci -per quanto "soft"- aggiuntivi, e considerata la mobilitazione anticapitalista che sta montando dal basso, è proprio certo che il FSM non rischi di trasformarsi da strumento di "incanalamento" in detonatore di rivolta? Il gioco vale la candela?

Sono interrogativi non ipotetici, ma che si sono espressamente posti taluni degli organizzatori. Gli intrepidi europei, dal canto loro, si stanno dando da fare per sbriciolare l’idea stessa di un incontro anti-global mondiale in rivoli continentali, lanciando, per intanto, un forum europeo, poi si vedrà (un forum nazionale, uno regionale, uno comunale e giù giù fino al forum di ciascuno nella propria testa e per sé). Sia chiaro: non è che noi siamo contrari ad un lavoro mondiale organizzato anche per sezioni continentali o sotto-continentali, visto che, nella realtà delle cose, allo stato attuale, un forum mondiale finisce sempre per assumere connotati "parziali" (nella fattispecie latino-americano, con una partecipazione dal di fuori ovviamente limitata, a parte l’afflusso polturistico europeo). L’essenziale è che l’articolazione del lavoro corrisponda ad un’esigenza di maggior concentrazione di forze e non a meccanismi di decentramento dispersivo. Per dirla con un esempio spicciolo: l’Internazionale di Lenin non aveva bisogno che confluissero a Mosca comitive di militanti (e tantomeno di gitanti) a frotte; vi si riunivano, però, delegazioni di tutti i paesi per portarvi e filtrarvi l’esperienza di un comune lavoro che ovunque si svolgeva sotto le stesse insegne e, in questo senso, rappresentava una reale concentrazione di forze. Senza che, per ora, si possa parlare di partito internazionale, questa è la dinamica che ci aspettiamo per il movimento reale in quanto pone l’esigenza del partito: è sicuro che alla prima fase di presenze fin troppo pletoriche e "pluraliste" dovrà succedere una fase di selezione ed organizzazione nel senso di un’effettiva unità di indirizzi e strumenti di lavoro, ma con maggiori coefficienti di continuità ed omogeneità nel tempo e nello spazio.

Questo tema, naturalmente, suonerà del tutto eccentrico per chi guarda al "movimento" come a un contraltare alla "politica tradizionalmente intesa", cioè al partito, e vede nel primo "l’unico ambiente in cui possa rinascere una progettualità e un nuovo partito" (non partito); per chi condivide il "sentimento generale" che si esprimerebbe nelle parole seguenti: "parliamo pure del futuro, riaffrontiamo i nodi della trasformazione sociale, ma senza i vecchi partiti di mezzo…" (Liberazione, 5 febbraio). Ciò che la situazione storica attuale mette in causa non è la "vecchia" forma partito, ma la putredine del contenuto controrivoluzionario che i partiti tradizionali di massa (compreso quello da cui…) hanno veicolato. L’"ambiente" del movimento è quello da cui una nuova esigenza di organizzazione rivoluzionaria, e quindi di partito, si fa avanti così come, nello stesso ambiente, si riproducono di continuo fenomeni di corruzione borghese a tutti i livelli, comprese le squallide "vecchie forme leaderistiche" riciclate dei vecchi partiti. Non confondiamo, per favore, forma e sostanza né aspettiamoci che, avendo scoperto un buono stampo, ne esca conseguentemente fuori un buon piatto. La "spontaneità" gioca brutti scherzi. Un buon movimento è quello che si estende, si seleziona, si organizza, si centralizza; è quello che sta "tradizionalmente", dialetticamente in rapporto con l’esigenza-partito.

Il prossimo anno, ne siamo certi, quest’esigenza si farà sentire ancor più viva. Noi ci saremo, e ci saremo ancor meglio di quest’anno di "apprendistato".