Movimento e partito:

le lezioni dell’Argentinazo


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Non siamo, come si vede, secondi a nessuno nell’esaltare una lotta che nessun partito politico, nemmeno il più sinistro tra essi, può pretendere di aver proclamato, iniziato e diretto e che, al contrario, ha messo con le spalle al muro un sacco di forze, anche "estremissime", che non se l’aspettavano, che ne sono rimaste sorprese e scioccate, e si industriano ora ad entrare nel "movimento" agitando bandierine di partito non sempre più avanti, e molto spesso, anzi, neppure al passo con esso.

Ma per intendere senso e valore del movimento occorre una metodica che non può essere certo quella dello "spontaneismo", delle "masse" opposte per definizione al partito, della rivoluzione che "non è un compito di partito". E, in questo quadro, occorre anche un esatto senso della misura per capire dove stiamo quanto a rivoluzione, quale e quanto è il cammino che ci separa da essa.

Cominciamo proprio da quest’ultimo punto.


Un’enorme capacità di lotta, un deficit di programma e di organizzazione politica

L’"argentinazo" ha visto scendere indomite in campo le più vaste masse –e, a differenza di storie passate, in tutto il paese e con epicentro la capitale- per una lotta di reazione "senza compromessi" e di resistenza accanita contro le conseguenze dei meccanismi imperialisti (mondiali per definizione) applicati al paese; una lotta che si è dispiegata parimenti contro i "responsabili" politici locali del carretto argentino al traino dell’imperialismo. Tutto ciò (re)inventandosi forme di lotta sempre più radicali ed avanzate: dagli scioperi generali in serie, con le organizzazioni sindacali ufficiali costrette -in più di un’occasione- a fare il proprio dovere (dio solo sa quanto di controvoglia e con quanti preservativi in saccoccia) alle battaglie di strada dei piqueteros, dalle innumerevoli lotte di lavoratori delle fabbriche e dei servizi per assumersi l’autogestione diretta (vedi ad esempio la Zanon) delle aziende in dismissione o pronte per essere consegnate ai predatori esteri, sino a momenti di coordinamento nazionale delle lotte stesse. Il risultato più significativo è stato certamente quello del licenziamento dalla piazza di una bella serie di governi e padrini politici che la conservazione (argentina ed internazionale) aveva messo in campo per sedare la rivolta. Nulla di meno, ma neanche nulla di più, stiamo ben attenti.

I dati di cui disponiamo direttamente ci confermano quello che anche dalla grande distanza potevamo supporre: all’enorme capacità di lotta dispiegatasi non corrisponde ancora un embrione di programma politico rivoluzionario, e neppure l’enuclearsi di forme di organizzazione e rappresentanza politica di tipo sovietico. Compiuto il primo passo (uno scossone di classe senza precedenti nella storia recente del paese), resta un handicap non da poco per il movimento: il potere economico-politico borghese ne è stato scosso, ma non è evaporato; determinate sue forme sono state licenziate, ma esso rimane integro nella sua sostanza, in Argentina e tanto più a scala mondiale (laddove si reggono i fili dell’economia e della politica "argentina"); il raccordo tra varie situazioni di lotta di resistenza generalizzata non trova tuttora un proprio sbocco politico adeguato, non riesce ancora a posizionarsi oltre questo livello iniziale -e sia detto col massimo del rispetto e la massima partecipazione!-.

Non siamo alla rivoluzione, ma ad un movimento pre-insurrezionale che non può fermarsi a metà strada, non può accontentarsi dei "risultati" immediati conseguiti, aleatori per loro stessa natura, mentre il vero risultato è l’unità realizzata nella lotta: lo sappiamo da sempre e da sempre sappiamo che esso stesso non è mai definitivo se si ferma ad uno stop. Il movimento deve andare oltre, conscio che il potere borghese non è infranto e che ad infrangerlo sarà solo la rivoluzione socialista, argentinaza e mundialaza assieme. Tutto ciò che è stato sin qui realizzato è oro, ma per andare avanti, o altrimenti sarà… piombo.

Noi marxisti lo dicemmo già nel 1920 ai "consiliaristi" torinesi convinti che, con l’occupazione delle fabbriche, la gestione operaia e abbozzi di soviet nel proprio carniere, la rivoluzione si fosse già data, che la borghesia si fosse "liquefatta" o auto-dimissionata. Non era così, in assenza di un programma e di un’organizzazione di partito in grado di dirigere fino in fondo la rivoluzione (non come "sovrapposizione" alla spontaneità irrinunciabile e decisiva delle masse, ma come riassunto e testa di essa). Tanto più lo possiamo e dobbiamo dire di fronte all’esempio argentino.

Un compagno di questo paese ci ha espresso una nozione giustissima di ciò dicendoci che quanto sta accadendo in Argentina può essere definito come un laboratorio della rivoluzione che richiede la continuità del movimento, il superamento da parte di esso degli stadi raggiunti e la sua concrezione politica, di partito. "Non sappiamo se sarà questione di mesi o di anni, ma questo è, a partire dai dati materiali in campo". Giustissimo, e senza alcuna iattanza da partito già in atto, bisognoso solo di essere "riconosciuto" dalle masse, ma anche senza alcuna iattanza "spontaneista", perché i due termini stanno tra loro dialetticamente assieme o cadono entrambi.

È giusto dire che una caratteristica peculiare dei movimenti di lotta maturati nel paese sta in una sorta di rigetto pregiudiziale verso i partiti politici esistenti ed il loro modo di "far politica" a base di escamotages parlamentaristici senza sbocco entro cui la lotta viene racchiusa e soffocata, ed è altrettanto giusto dire che a questa condanna non sfuggono neppure i tanti partitini "rivoluzionari" che già oggi vediamo spinti a far fronte unico in vista delle prossime scadenze… elettorali. In questo senso, la riappropriazione della lotta per via diretta da parte delle masse su obiettivi immediati -siano quel che siano- da conquistarsi nello scontro di classe rappresenta un enorme avanzamento rispetto ad una politica "tradizionale" sbugiardata nei fatti. Ma sarebbe del tutto gratuito, e francamente controrivoluzionario, desumerne che lo scioglimento della situazione possa derivare da un trionfo della "spontaneità" contro la prospettiva del partito. (Su ciò ci permettiamo sommessamente di dissentire anche dalle Madres, che hanno tutte le ragioni dalla loro parte quando svillaneggiano certi "partitismi" da operetta e possono, oltretutto, vantare un abbozzo di programma rivoluzionario per il movimento, ma forse eccedono un poco nell’attribuirlo al movimento "in sé", ad una forma di "spontaneità generalizzata" senza relazioni col tema del partito: lo diciamo procedendo coi piedi di piombo e senza assolutamente considerarle, come abbiamo letto in un foglio "trotzkista", "antipolitiche e votobianchiste" -!!!, il massimo, per certuni, della censura).

Quando si parla di "spontaneità" per gli avvenimenti di dicembre, bisogna precisare con molta accuratezza la nozione di cui si parla. Sarebbe del tutto improprio scindere tale "spontaneità" da tutto un corso lunghissimo di lotte ininterrotte e in crescendo di cui, in tutti gli anni che ci sono alle spalle, la politica è sempre stata in campo e le diverse forme "popolari" o "proletarie" di essa sono state messe alla prova. In Argentina una combattività di classe non è mai venuta meno. Il problema sta nel capire come e perché essa si è manifestata attraverso "rappresentanze" non comuniste rivoluzionarie, a cominciare dal "classismo" peronista. Uno studio approfondito della storia del movimento operaio argentino nel quadro di quello internazionale e, con esso, in relazione ai dati specifici dell’America Latina e dell’Argentina in particolare, si impone, per capire come si è determinata una sua linea di sviluppo che non solo ha contraddistinto il passato, ma pesa sul presente ed il futuro, che neppure questo poderoso movimento può permettersi di saltare d’un colpo e per virtù (nazionale poi…) propria.

È necessario un salto di qualità del movimento.

Un di più nella lotta non svelle antiche radici, né ne crea di nuove, alternative "pure". La tentazione a ripiegare su un "rinnovato" terreno di competizione parlamentare e/o su una prospettiva, al massimo, "latino-americana" di "indipendenza nazionale", un po’ Castro un po’ Chavez, è per forza di cose presente nel movimento attuale così com’è, a meno che non ci ingannino i dati di cui disponiamo e la stessa nostra concezione del cammino verso la rivoluzione. Lasciamo pure da parte quei "trotzkisti" che oggi vaneggiano del "ritorno alle tradizioni del "vero" peronismo" (abbiamo letta anche questa!), ma sarebbe del tutto fuorviante pensare che certe "prospettive" appartengano ai soli partiti e partitini declassati e ne rimanga, invece, immune il movimento stesso.

Il movimento reale, invece, è precisamente il laboratorio di cui sopra in cui le formidabili spinte dal basso (in quanto pongono oggettivamente il tema del partito) si scontrano, si separano e si riuniscono più in alto attorno ad un programma ed un’organizzazione politiche. Lo scardinamento di determinate forme del potere borghese sarebbe campato nel vuoto se non implicasse la messa in campo di un dualismo di potere basato su proprie forme sovietiche; se questo dualismo si fermasse ai confini argentini anziché proiettarsi non solo a tutta l’America Latina, e sulle sue stesse basi, non su quella di un raccordo con presunti stati maggiori, e Stati tout-court, rivoluzionari in senso nazional-borghese; se non entrasse, quindi, in rapporto con l’insieme di tutte le frazioni mondiali del proletariato rivoluzionario, a cominciare da quello decisivo delle metropoli; se si limitasse a forme di "autogestione" entro il sistema presente, nazionale e mondiale, nell’improbo compito di realizzare una "migliore gestione sociale" di esso a prescindere dai meccanismi imperialisti sovrastanti; se assemblee popolari, cazerolazos e piquetes non fossero in grado di porsi il problema dell’armamento proletario per distruggere la riserva intatta della macchina repressiva diretta dello Stato tuttora in piedi (per quanto zoppicante, come fu in Italia da Giolitti a… Mussolini). Tutte questioni, lo ripetiamo, poste dal movimento, ma irrisolvibili senza un salto di qualità dello stesso e senza o al di fuori di una politica di partito.

È veramente curiosa l’idea, che vediamo oggi riproposta dalla gran parte di quanti esaltano l’Argentinazo (vedi un Ferrando), di una "spontaneità" in grado di andar diritta verso la rivoluzione sospendendo o rinviando le questioni politiche e di partito (contro Bertinotti, ma seguendo pari pari la sua logica secondo cui, essendo "il movimento tutto e il fine del movimento stesso nulla", il movimento di classe non può e non deve porsi il fine della rivoluzione sociale). Se nel movimento, o meglio: nei plurimi movimenti che si incontrano, non esiste un marchio di partito, ciò non significa affatto che le questioni di cui sopra restino sospese o assenti. Al contrario, nell’assenza di un reale partito comunista agente -e ne andrà ben compreso il perché!-, altre politiche ed altri "partiti" vanno a surrogarla, e tutt’altro che per il meglio. Non esiste "un" movimento che possa farne astrazione, ma una pluralità di tendenze che si danno, per forza di cose, forme organizzative proprie, programmi propri (che sono tutti al di qua di quello rivoluzionario).

Le migliori battaglie, proprio perché battaglie e migliori, sono costrette a definirsi. Come? Alcune di esse hanno trovato la loro concrezione nel Frenapo, un’autentica truffa controrivoluzionaria che riesce a combinare lotte immediate e "corporative" vere con un assurdo programma di "controllo" sulle politiche neo-liberali che non dispiace, a quanto sembra, ai vari Soros. Altre vanno assai più in là, come nel caso della Corrente Classista Combattente o dei piqueteros, ma, tanto per dire, tutte e due queste tendenze hanno espresso delle dirigenze che le hanno trattenute dall’impegnarsi nelle azioni di dicembre in quanto elemento di direzione rivoluzionaria, sino a proclamare apertamente che il compito del "movimento" non è quello del "potere del popolo", ma la contrattazione di un proprio "potere" nell’ambito di un sistema da "riformare". (Questi dati li traiamo da un controllo incrociato sulle informazioni dirette che ci vengono dall’Argentina e non da un’isolata fonte in vena di sputtanamenti. E, chiariamo subito, il fatto di dire che persino un movimento come quello dei piqueteros si è arrestato sulla via della rivoluzione non significa affatto svalutarlo, ma porre come va vistoil problema della direzione di spinte effettive, ed eroiche, ma che proprio per questo non consegnamo alla "spontaneità", cioè all’organizzazione disfattista del riformismo, nel migliore dei casi).

Non ci sta bene la contrapposizione tra movimento e partiti "comunisti" nemmeno quando di questi ultimi possiamo pensare il peggio del pensabile. A Porto Alegre, ad esempio, e non è un caso, non c’era alcuna rappresentanza "basista" dell’Argentinazo. C’erano vari, e spesso squalificati o squalificabili, partiti e partitini politici che, forse, non rappresentano alcun futuro in proprio, ma che concretamente pongono la questione della "socializzazione" dell’esperienza argentina all’insieme dei compagni militanti latino-americani e mondiali. Partiti, più o meno veri o fasulli, contro CCC e "piqueteros"? È vero il contrario. L’enorme potenziale di lotta di queste organizzazioni "spontanee" può e deve trovare la sua consequenzialità unicamente in un ambito politico di definizione politica ed organizzativa non chiusa nell’immediato "argentino". A noi non è piaciuto e non piace nessuno di questi partiti, ma i compiti da essi segnalati sono i nostri compiti, e vanno risolti nel nostro senso, su questa e non su altre strade.