Indice
Le esigenze di riscatto che molti lavoratori hanno riversato nella Lega sono messe a dura prova dalla politica del partito sempre più sottomessa ai "poteri forti" che una volta si dichiarava di voler contrastare. È indispensabile un bilancio di questa esperienza. È indispensabile sottrarsi dal ruolo di puntello di un governo e di un partito che dichiarano senza ambiguità la loro scelta di classe anti-proletaria.
La nostra organizzazione non ha mai considerato i lavoratori aderenti alla Lega come dei nemici di classe. Al contrario abbiamo sempre tenuto presente come la gran parte di loro hanno vissuto con attiva partecipazione gli "anni fulgenti" della Lega perchè hanno riversato su di lei le proprie aspettative di riscatto in quanto lavoratori, deluse da una "sinistra" sempre più convergente verso i "poteri forti". Su questo piano ci siamo rivolti a loro in più d’una occasione nel corso di alcune loro manifestazioni, e abbiamo partecipato a quelle contro l’aggressione alla Jugoslavia. Ciò, naturalmente, non ci ha trattenuto mai dal fare una denuncia e una lotta senza sconti al programma e alla politica del partito-Lega. Fin dai tempi, ci corre l’obbligo di ricordare, in cui non erano molti a cogliere le potenzialità reali della disgregazione federalista, innanzitutto per il proletariato, ma per lo stesso stato borghese italiano. E compresi i tempi in cui furono molti a "sinistra" a considerare il partito-Lega un "alleato" utile contro il berlusconismo.
Molti di loro sono, oggi, perplessi dinanzi alla condotta del partito e dei suoi capi. In buon numero si sono ritirati in un’astensione elettorale e, spesso, politica, altri dedicano il loro impegno solo alla Cgil, mentre molti di quelli che sono ancora attivi nel partito continuano a sperare in una conversione di Bossi o a giustificare le sue attuali mosse come necessitate da inevitabili compromessi per giungere all’obiettivo finale della Padania, certi che una volta realizzato, o dinanzi al riesplodere delle contraddizioni, vedranno di nuovo il partito tornare sugli assi antichi di combattimento.
Si tratta davvero di una (più o meno giustificata o giustificabile) momentanea eclissi della battaglia leghista sui temi cari ai lavoratori, o si tratta, invece, di un venire al pettine di nodi pre-esistenti?
Per rispondere a questa domanda è inevitabile trarre un bilancio complessivo della politica leghista. Come sempre cercheremo di farlo rivolgendoci ai lavoratori leghisti come a fratelli di classe, nella consapevolezza che le ragioni che li hanno spinti ad aderire a questo partito siano quelle di ritenerlo in grado di battersi per il proprio riscatto.
Da cosa, dunque, riscattarsi? Anzitutto dalla mano morta del parassitismo, quel complesso finanza-stato-chiesa che si alimenta con un prelievo crescente sul prodotto del lavoro dei lavoratori dipendenti come di quella massa di lavoratori autonomi che possiedono piccoli o piccolissimi capitali. Che li costringe a livelli sempre più elevati di produttività, rendendogli la vita sempre più difficile. Che gli impone la rincorsa del denaro a tutti i costi, mentre li de-priva progressivamente della stessa possibilità di sopravvivere con il declino di salari e redditi da lavoro autonomo. Qualche tempo fa le denunce della Lega contro il parassitismo dello stato, della finanza e dei "poteri forti", la messa all’indice dei "vescovoni", sembravano, agli occhi di molti lavoratori, raccogliere quelle istanze di riscatto e tramutarle in seria battaglia per realizzarle. Oggi con i "poteri forti" si va a braccetto, se ne applica fedelmente la politica su pensioni, mercato del lavoro, art. 18. Ai "vescovoni" si prepara il regalo di una buona fetta della scuola. Dello stato si dice di volerlo alleggerire, e se ne alleggerisce ogni spesa sociale a favore di una ridistribuzione verso i più ricchi e l’incremento delle spese militari. Alla grande finanza si prepara il regalo persino di una buona fetta di salario, consegnando alle Wanne Marchi delle borse i soldi delle pensioni e del tfr dei lavoratori.
Il territorio su cui realizzare quelle aspettative è stato sempre inteso in senso abbastanza limitato (la Padania), ma pure non si esitava a vedere come la battaglia doveva essere data contro una politica mondiale. La lotta alla globalizzazione aveva come obiettivo quello di crearsi una "piccola patria" a misura d’uomo, ma pure veniva data contro i centri mondiali del potere finanziario e militare. Quando la Nato aggredì la Serbia ci si mobilitò contro l’aggressione imperialista e le corporations, i "venti banchieri folli" che dominano da New York e dall’Europa e che volevano terrorizzare un popolo colpevole di difendere la propria dignità e indipendenza. Oggi che costoro attuano l’identica politica ai danni dell’Afghanistan e dell’intera Asia, ci si schiera servilmente a loro lato, ci si propone, anzi, come paladini della "guerra di civiltà" contro la presunta inciviltà islamica. Ieri si riconosceva nel popolo palestinese un fratello in lotta contro l’oppressione, oggi si sostiene a spada tratta la politica del "democratico" Israele di fare dei palestinesi tutto ciò che gli conviene. Ieri si denunciava lo strapotere Usa in tutto il mondo, oggi ci si accuccia nelle loro braccia, li si segue in ogni "avventura", nella speranza di poterne lucrare buoni affari per l’imprenditoria padana e italiana.
Un’altra battaglia che veniva data era contro il ruolo repressivo dello stato che rispondeva con la violenza a ogni manifestazione di dissenso. Oggi si sbraita contro la "forcolandia" europea, mentre si collabora a mettere in piedi una "forcolandia" tutta italiana, difendendo la dura repressione di Genova (come quei "giovani padani" che il 25 febbraio a Brescia a proposito di Carlo Giuliani urlavano; "uno di meno, uno di meno"), accettando e promuovendo una legislazione di feroce repressione di ogni dissenso.
Della battaglia contro la "globalizzazione" rimane solo la lotta all’immigrazione, ma anche questa con una modifica peggiorativa. Prima era fatta sottolineando la necessità di "aiutare i popoli a casa loro" per fermare davvero i flussi. La soluzione era già allora fortemente orientata a tenere gli immigrati lontani e separati invece di intrecciare con loro una alleanza di lotta contro la "mano morta" unitaria che opprime e sfrutta loro, come sfrutta i lavoratori occidentali. Oggi questo stesso, già ambiguo, argomento rimane solo come preambolo "buonista" di una legge che vuole trasformare gli immigrati in nuovi schiavi al servizio degli imprenditori; senza diritti, e soprattutto senza il diritto di organizzarsi per resistere allo sfruttamento, e si scatena contro di loro (non contro chi è causa della loro miseria, cioè la rapina economica e finanziaria dei "venti banchieri folli" occidentali) una campagna di odio e una vera e propria campagna militare. Bossi ha concordato coi suoi alleati di schierare la marina militare contro i clandestini, col chiaro intento di provocare un buon numero di morti che rallenti i flussi d’immigrazione. Morti certi per qualche nuovo "incidente" o perché i traghettatori pressati dalle navi militari butteranno a mare i disperati in rotta verso l’Europa.
A cosa sono dovute queste "giravolte"? A motivi tattici dovuti alla ragione di tenere in piedi un governo dal quale ottenere qualche seria concessione per la costituzione della Padania? Se si guarda alla ultime settimane si vede che Bossi ha ripreso ad alzare la voce, per smarcarsi in qualche modo dall’eccessivo schiacciamento finora avuto nei confronti degli alleati. In quale senso sono andate le sue iniziative? Prima ha tuonato contro i centristi della Casa delle Libertà che volevano annacquare la legge sull’immigrazione ed ha ottenuto l’impiego della marina. Poi ha iniziato a rivendicare con forza di partecipare alla gestione della Rai, anche questo ottenuto. In seguito, assieme al ministro Castelli, ha promesso la dura reazione dello stato se i movimenti in atto dovessero divenire troppo radicali contro il governo (Corriere, 25.2). La verità è che le elezioni amministrative si avvicinano, e il rischio di un ulteriore débâcle è concreto. Per la Lega le cose non vanno bene. La sua base militante ed elettorale ha già mostrato di gradire poco l’alleanza con Berlusconi, e dopo nove mesi di governo gradisce ancora meno. Il bilancio dell’esperienza non è, per i leghisti, complessivamente positivo. Su nessun piano. La Padania promessa arranca. I passi verso la devolution non sono mancati, soprattutto nei campi della sanità, della scuola e delle milizie locali il potere delle regioni è in via di concreto ampliamento. Ma manca, tuttora, quel colpo esplicito che possa far dire che si è davvero imboccata la strada verso una Padania in grado di auto-governarsi senza interferenze del "centralismo romano", anzi quest’ultimo sembra, a molti leghisti, rinvigorirsi sotto la spinta del governo Berlusconi, includente, per somma ironia, la stessa Lega. Sul piano sociale le promesse estive di Bossi di sottrarre l’adesione dei lavoratori alla Cgil si sono miseramente infrante con la gestione dei provvedimenti più esplicitamente anti-operai messa nelle mani del fido Maroni. Ma quando Bossi decide di rialzare la voce non lo fa certo per recuperare le venature pro-lavoratori degli "antichi temi", anzi per rinforzare i fondamenti politici di tutte le "giravolte" fatte.
Uno spassionato bilancio della politica leghista deve, dunque, prendere atto che tutto ciò non può essere rubricato sotto la voce "svolte tattiche contingenti", da cui si possa, una volta ottenuta la Padania o nel caso si dovesse inasprire la lotta per ottenerla, ri-svoltare per tornare allo spirito dei natali. Né può intendersi come il puro frutto di un golpe interno realizzato da una dirigenza (di cui lo stesso Bossi sarebbe vittima) che con un’adeguata mobilitazione della base si possa scalzare. Sappiamo che molti militanti leghisti la pensano così, e hanno dato battaglia nei congressi territoriali, spesso rifiutando i dirigenti scelti dal centro e imponendo dei dirigenti espressione "della base". Il loro tentativo di ri-appropriarsi del partito, sottraendolo al dominio dei "poteri forti", per ri-trasformarlo in uno strumento al servizio delle proprie aspettative è comprensibile. Ma essi non possono evitare di porsi la domanda se quella che è avvenuta sotto i loro occhi è soltanto una "degenerazione" di un corpo in origine sano, o se non si tratta, invece, di uno sviluppo naturale di presupposti esistenti fin dalla nascita. La domanda riguarda anche coloro che hanno già abbandonato il partito, o se ne sono allontanati. Come riguarda anche quei lavoratori che, delusi dalle "svolte" della Lega, si dedicano oggi solo alla militanza sindacale nella Cgil (percepita come unico argine organizzativo contro lo strapotere padronale), compresi quei pochi che dalla delusione sono stati spinti ad aderire a Rifondazione.
La nostra risposta è che dati i presupposti la Lega non poteva finire che laddove è finita. Il punto decisivo della sua attuale collocazione è di uno schietto schieramento di classe: dal lato dei "poteri forti", dello stato, dell’imperialismo pacifico e armato. Quand’anche ritornasse (e non è da escludere) a una più decisa battaglia padanista questo schieramento di classe nella sostanza non muterebbe. Fin dall’origine, infatti, il "padanismo" si fondava sull’idea che fosse possibile contemperare gli spiriti selvaggi del capitalismo con il diritto dei lavoratori a una vita dignitosa. Un’idea palesemente mutuata dalla tradizione riformista ben rappresentata dal Pci (non aveva torto D’Alema a considerarla una "costola" di questo partito), e, in fin dei conti, propria ancora di un Bertinotti e della "sinistra critica". L’aspetto che differenziava il padanismo dal riformismo operaio è solo che il primo circoscriveva in un territorio più limitato un programma più o meno simile. Ciò era determinato anche dalla necessità di fare i conti con lo stato.
Il riformismo classico aveva fatto dello stato lo strumento principale delle trasformazioni, fino al punto di trasformare sé stesso nel più fedele dei servitori dello stato. Il gigantismo statale, favorito dallo stesso riformismo, ha finito con il diventare sempre più insopportabile per la società. Non allo stesso modo per padroni e lavoratori, i primi non sopportano esattamente quei caratteri dello statalismo che i secondi invocano, invece, a propria difesa. A ogni buon conto lo statalismo si è, progressivamente, rivelato una gabbia, oppressiva e condizionante, per lo stesso riformismo operaio. La rottura territoriale del padanismo si presentava, di conseguenza, soprattutto come rottura del gigantismo statalista, del suo opprimente centralismo.
Il riformismo operaio classico ha dovuto sciogliere, lungo alcuni decenni, la sua ambiguità (contemperare capitalismo e interessi proletari), e l’ha fatto, conformemente alle premesse, assumendo sempre più esplicitamente le leggi del mercato contro gli interessi dei lavoratori, con tutti i risvolti che ciò comporta (aggressione ai Balcani e ogni dove sia da difendere la rapina imperialista). La Lega ha compiuto lo stesso percorso nello svolto di un tempo molto più limitato e a tappe brucianti (due anni soltanto tra l’opposizione all’aggressione ai Balcani e il sostegno a quella all’Afghanistan). Il motivo di entrambe le "conversioni" è lo stesso: il sistema capitalista non può più tollerare di dar conto alle necessità proletarie, deve passare come un rullo su di esse e sulle loro pretese di difendersi, impone dunque scelte nette e definitive: o di qua, o di là; o col sistema fino in fondo o con chi lo vuole distruggere. La Lega e Bossi hanno scelto senza tanti patemi d’animo, e la scelta esula da motivi contingenti. Non a caso fin dall’inizio avevano cercato di rappresentare un indistinto popolo padano, ed era, fin da subito, emerso, quanto fosse mistificante. Ora la stessa borghesia padana chiede di stemperare sempre più le dichiarazioni pro-lavoratori e attuare una politica concreta che non la isoli dalle opportunità d’affari, partecipando, se necessario, anche a guerre di conquista e oppressione d’altri popoli.
È profondamente giusto che i lavoratori, i proletari, si battano per costruire un proprio partito, ma questo deve, però, evitare una a una tutte le trappole in cui sono cadute le esperienze dei partiti cui, finora, il proletariato ha dato il suo apporto. Tanto per i lavoratori leghisti, che per quelli di sinistra (delusi o meno), come per quelli che militano nei sindacati, è, quindi, necessario un bilancio impietoso di tutta l’esperienza riformista (compresa la variante leghista). Ciò che serve è un partito che difenda gli interessi della sola classe proletaria, che lavori per coalizzare tutte le forze mondiali del proletariato e delle masse oppresse dalla rapina imperialista, che lotti contro lo stato in quanto espressione del dominio di una sola classe e difensore dei rapporti produttivi sui quali essa basa la sua ricchezza e il suo potere, che lotti contro il parassitismo, la finanza, i "poteri forti", non per acquietarne gli appetiti, ma per strappargli il potere su tutta la società e conquistarlo all’umanità lavoratrice organizzata. I lavoratori leghisti possono dare a questo processo un contributo utilissimo, riprendendo tutte le ragioni di fondo che li hanno spinti verso la Lega (lotta al parassitismo, statalismo, imperialismo) ma respingendo la soluzione che ne dà la Lega. Una soluzione che per il proletariato è falsa e pericolosa, non meno di quella della "sinistra" anche nelle sue appendici bertinottiane.
Questo partito lo si può creare solo in stretto raccordo con la lotta e il protagonismo di massa. È per questo importante che tutti i lavoratori, anche quelli tuttora aderenti alla Lega, non si tengano fuori dallo scontro in atto provocato dalla politica anti-proletaria del governo Berlusconi-Bossi. A loro tocca rifiutare lo scambio infame tra arretramenti immediati e promessa di una futura Padania che restituisca ai lavoratori la dignità. Non sono cedimenti momentanei. In nessun futuro si potranno recuperare. Innanzitutto perché la Lega ha dimostrato ormai ampiamente il suo carattere di classe, e lo conserverebbe ancor più solidamente in una eventuale Padania. Secondariamente perché i lavoratori possono contare solo sulle proprie forze, che sono enormi se collegate sul piano internazionale, e sono invece debolissime se confinate in staterelli sempre più minimi.
La risposta di lotta all’attacco governativo e all’aggressione infinita ai popoli asiatici, africani, latino-americani, l’estensione della lotta internazionale contro il capitalismo sono altrettanti terreni su cui impegnare energie di lotta e d’organizzazione, e a cui collegare strettamente anche l’inevitabile battaglia per un partito che abbia tutti gli attributi necessari a realizzare il programma di liberazione dell’umanità dalla schiavitù del profitto, del denaro, della concorrenza, della guerra.