Per fermare le politiche anti-proletarie del governo lo sciopero generale si deve inquadrare in un generale rilancio dell’opposizione di massa al governo italiano e al capitalismo globalizzato, fondato sul protagonismo e l’organizzazione diretta di massa, per un programma degli interessi dell’umanità lavoratrice, autonomo e contrapposto a quelli di profitto e mercato.
Quello del governo Berlusconi è un attacco a tutto campo alle condizioni dei lavoratori sul piano economico e del potere contrattuale. È un attacco politico di classe. I lavoratori devono stare sul mercato come semplici individui o, al più, con organizzazioni sindacali direttamente dipendenti dai padroni e dallo stato. Le deroghe all’art. 18 vanno in questa direzione. Per Cisl e Uil la botta è forte, ma, tutto sommato, relativa. Il "sindacato partecipativo" si può anche coniugare con un solo (quello aziendale) livello contrattuale e con i contratti regionali. Entrambi professano, dunque, opposizione alle deroghe, mentre cercano di conservare il ruolo concertativo sugli altri singoli provvedimenti del governo, mettendo in conto ai lavoratori ulteriori cedimenti. Per la Cgil non vi sono attenuanti: l’attacco ai lavoratori è eccessivo per la sua disponibilità concertativa, e, inoltre, Berlusconi-Maroni e Confindustria l’hanno messa nel mirino, non perché sia più antagonista degli altri, ma perché ne vogliono distruggere l’aspetto particolare con cui sostiene la concertazione: conservare una forza in grado di condizionare davvero i livelli di compromesso. Un sindacato non pregiudizialmente contrario alle aziende, al mercato e allo stato (anzi!), ma che rischia di mettersi di traverso al loro pieno potere di disporre della manodopera per il fatto che ne vuole collettivamente contrattare persino i cedimenti.
Lo sciopero dei "sindacati di base"La manifestazione del 15 febbraio del sindacalismo "di base" è stata forse la più massiccia nella storia di questa galassia, ed è riuscita anche a catalizzare forze non direttamente "proprie". È stata anch’essa un segnale significativo di come sia avvertita in settori crescenti del proletariato la necessità di rispondere in modo adeguato al duro attacco del governo della Casa delle Libertà. Questa volta, inoltre, si è respirato, pur con accenti diversi, un sentimento di unità verso il resto dei lavoratori non extra-confederali. È un fatto importante. Combattere la linea concertativa di Cgil-Cisl-Uil è un conto, dare per persi, se non addirittura per nemici, i lavoratori che aderiscono a quei sindacati tutt’altro. L’unità del proletariato è quanto mai urgente, ma essa non può fondarsi su una semplice raccolta dei "dissenzienti". Deve fondarsi su una battaglia politica che combatta tutte le illusioni concertative, predominanti nei confederali, come tutte le illusioni, predominanti negli extra-confederali, di conservare o resuscitare un compromesso sociale la cui morte il capitalismo ha dichiarato a chiare lettere e inequivocabili fatti. |
Anche il riluttante Cofferati ha dovuto prendere atto che si tratta di un progetto politico unitario di tutto il governo e di tutta Confindustria diretto contro tutti i lavoratori, tutta la Cgil e ogni sua branca. Concertare si può solo la durata dell’agonia, non rimane che rispondere con la lotta. Assieme a chi? Cisl e Uil hanno iniziato un (sempre meno) sotterraneo sabotaggio, l’Ulivo ha… s’è da un’altra parte. Non resta che ricorrere ai lavoratori. Un primo assaggio c’è stato con gli scioperi regionali, indetti con Cisl e Uil. La risposta dei lavoratori è stata positiva, quella del governo è stata no su tutto il fronte, salvo all’inizio di febbraio sottoscrivere il contratto del pubblico impiego e in seguito offrire un’effimera riapertura del "dialogo" sull’art. 18. Il contratto è una sostanziale proroga della concertazione, un passo indietro per il governo che la vuole abrogare del tutto. Il passo indietro momentaneo e il "dialogo" hanno il fine di dividere il fronte di lotta, scongiurarne l’estensione e la radicalizzazione, e dare a Cisl e Uil qualche argomento per giustificare il diniego allo sciopero generale sostenendo che se si affrontano le cose una a una si può dialogare anche con Berlusconi.
La Cgil ha proclamato da sola lo sciopero generale, confortata da scioperi diffusi in molte fabbriche. Ma la questione non è semplice: finalizzare lo sciopero solo a testimoniare la propria forza, mostrare l’imprescindibilità del proprio ruolo contrattuale, non servirebbe a nulla senza il ritiro delle deroghe all’art. 18 e mutamenti sostanziali della politica governativa. Una lotta di pura facciata (come nell’84 contro il taglio della scala mobile di Craxi) non serve, la questione è maledettamente seria, si discute ormai della vita o della morte, non perché i provvedimenti attuali già decretino la morte, ma perché rendono arduo aggregare in futuro un fronte di lotta in grado di bloccare il definitivo snaturamento del sindacato "generale".
Le cose, in casa Cgil, sono complicate dal fatto che non si può chiamare i lavoratori a una generica "resistenza" all’attacco berlusconiano, ma se ne deve precisare il fine. Per Sabattini (segretario Fiom) bisogna lottare per "un nuovo sindacato di classe", che difenda i diritti residui, e lotti per estenderli ai lavoratori che ne sono privi. La de-privazione è avvenuta, però, in virtù di accordi che gli stessi sindacati, Fiom compresa, hanno sottoscritto per fornire alle imprese il di più di flessibilità richiesto. Si possono annullare quelle concessioni senza rimettere in discussione la linea sindacale che le ha partorite? L’estensione dei diritti avrebbe, inoltre, una ricaduta destabilizzante per l’intero sistema, ipotesi non contemplata da un sindacato che, per quanto aspiri a essere "di classe", esclude di trasformarsi in sindacato rivoluzionario. La quadratura del cerchio viene, così, cercata in una politica generale che riconosca le esigenze dei lavoratori, anche di difendersi in quanto classe, e le governi in modo da evitare effetti destabilizzanti per il sistema. Una politica generale richiede un partito, e Sabattini invoca la costituzione di un "partito del lavoro". Una politica generale non può esercitarsi nel ristretto di un paese, e la Fiom "apre" ai movimenti no-global, partecipa ai Social Forum e prende contro la guerra una posizione più "dura" d’ogni altra organizzazione sindacale confederale.
Il "più moderato" Cofferati indica un quadro generale di tutela della democrazia, con un fronte di lotta che respinga un attacco a una libertà generale, a un diritto individuale, non di classe. Anche lui sa bene che non basta rivendicare un diritto, o difendersi da un attacco, se non all’interno di un quadro generale, politico, in grado di governare l’insieme dei problemi collegati. Pure lui è costretto a far di conto con la necessità di una prospettiva politica, e delinea un Ulivo rigenerato (e, perché no, co-diretto da lui) più attento alle esigenze dei lavoratori, ma in grado di governare contemperandole (senza mai negarle) con quelle delle imprese e del mercato.
Entrambe le soluzioni cozzano contro un acuto dilemma: è possibile nell’epoca del turbocapitalismo conservare un compromesso tra le classi che consenta al capitalismo di accrescere i profitti e ai lavoratori di tenere a freno lo sfruttamento? Berlusconi ogni giorno ricorda che "il comunismo è morto". A suo modo segnala un problema vero degli oppositori: per resistere al "neoliberismo" dovete darvi una prospettiva totalmente antagonista al capitalismo, e il comunismo è "morto", e voi stessi non volete "resuscitarlo"; evitate dunque di frapporre ostacoli al dispiegarsi del capitalismo reale, viceversa otterrete solo di rallentarlo, con ciò impedendo ai lavoratori di riceversi le briciole, pur misere, che da un suo maggior "sviluppo" possono derivargli. Ebbe a dirlo anche prima di Genova, e colse anche allora nel segno: il mercato non ammette "correzioni", si è con lui o contro di lui.
Cofferati, Sabattini (pur a diversi livelli), Cgil e Fiom, non vogliono, né possono (per i legami politici, storici, strutturali con il capitalismo, con il proprio paese capitalista e con lo stato) porsi su di un piano di lotta antagonista al sistema. Così, inevitabilmente, invocano la lotta ma non perdono occasione per cercare compromessi che la evitino. Quando, per loro disgrazia, vi siano costretti fanno il possibile affinché sia il più circoscritta e limitata, che serva, tuttalpiù, a ripararsi da qualche danno senza mai sfociare in una mobilitazione contro tutti i danni. Un sabotaggio più "morbido", e se si vuole meno venduto, ma pur sempre un sabotaggio, che alla lunga si trasforma, per quanto sembri paradossale, anche in auto-sabotaggio.
L’impostazione che si dà alle lotte è, quindi, in diretta linea di continuità con tutta l’impostazione politica riformista, e ciò determina, ormai, una difficoltà a mettere in piedi una solida lotta per fermare la rovina delle condizioni dei lavoratori e per la propria stessa sopravvivenza. Questione sindacale e questione politica sono, come non mai, strettamente intrecciate, e l’intreccio che ne fa il riformismo rivela una crescente incapacità anche a garantire una resistenza sui bisogni proletari più elementari.
Andare con queste premesse allo scontro con il governo espone il movimento dei lavoratori a sicura sconfitta. Si può anche riuscire a parare momentaneamente qualche colpo (non è da escludere dato che lo stesso governo non sembra in grado di costruire la coesione politica e sociale necessaria per resistere nel caso il movimento di scioperi fosse prolungato), ma ciò avverrebbe al prezzo di qualche altro cedimento, lungo una spirale che sta portando il proletariato a indebolire sempre più le capacità di resistenza organizzata.
Molti lavoratori iscritti alla Cgil e tutto il "sindacalismo di base" avvertono questo rischio e si battono, anche tramite il Coordinamento Rsu, per evitare ulteriori arretramenti, e propongono, per questo, una piattaforma di obiettivi comuni a tutti i lavoratori. L’esigenza è più che giusta, ma il mezzo corrisponde al fine? È sufficiente una bella piattaforma sul piano sindacale per chiamare in campo un fronte di lotta capace di reale resistenza? Spieghiamo già nella pagina precedente perché non è sufficiente e perché bisogna lavorare con forza affinché il movimento si batta contro tutto il governo, contro tutta la sua politica. Buttare giù il governo Berlusconi e prepararsi a lottare contro ogni altro governo che attui politiche anti-proletarie è l’unico modo per costruire un argine di difesa serio e durevole. È un obiettivo troppo "politico", troppo "alto"? I lavoratori non lo comprenderebbero e si rifiuterebbero di partecipare alle lotte? Bene, ma si sappia che in alternativa non rimane che la "concertazione", quella al ribasso veloce, tipo Cisl, o quella al ribasso lento, tipo Cgil. Senza dimenticare che un governo che non si sente minacciato dalla piazza è più forte, e la sua forza l’attuale governo la mette al servizio dell’abolizione della stessa concertazione.
La separazione tra "sindacale" e "politico" si traduce in un elemento di maggior debolezza per il movimento, non di maggior forza. Ma è, poi, possibile davvero una tale separazione? In realtà anche chi la rivendica non la applica, e non può applicarla. Dietro la presunta "separazione" non manca mai una qualche precisa politica. Se ci si rifiuta di dichiarare l’obiettivo di buttare giù il governo, non è per rifiuto di "far politica", ma perché si sta facendo una determinata politica. Quale? Della Cgil s’è già detto, la sua separazione tra i due aspetti è figlia del suo riformismo. Di conseguenza, ove mai il governo cadesse, accetterebbe un qualsiasi nuovo Dini (Prodi, D’Alema, ecc.), cioè un governo non troppo nemico, senza per questo essere veramente "amico" dei lavoratori, a cui concedere qualcosa in meno di quel che pretende Berlusconi.
La "sinistra critica", alcuni settori della Cgil e il "sindacalismo di base" (pur con toni diversi) giudicano, giustamente, questa politica fallimentare. Ma quali conseguenze ne derivano? Di rivendicare un governo che risponda unicamente agli interessi proletari? Mai! Al più rivendicano un governo "più democratico", più "aperto alle istanze sociali", che tenga equamente conto delle necessità capitalistiche e di quelle dei lavoratori, un centro-sinistra un po’ più sbilanciato sul "piano sociale", insomma, con all’interno una sinistra più forte e decisa nel rappresentare i lavoratori.
Sia pure con tinte (apparentemente) più fiammeggianti l’eterna illusione della "terza via", che gli stessi soggetti giudicano fallimentare, si ripropone. Il pericolo non è che cerchi di tenere in vita miti obsoleti ma che finisce con l’avere una funzione smobilitante anche rispetto al concreto piano della lotta.
Intendiamoci, non stiamo sostenendo che sia sufficiente lanciare, qui e ora, la parola d’ordine "tutto il potere ai soviet" per ottenere che il proletariato si riversi nelle piazze determinato alle battaglie decisive. Non siamo di quelli che scambiano lucciole per lanterne, ma preferiamo fare i conti con i fatti reali. E questi ci dicono che una vera resistenza sul "piano sindacale" si può organizzare solo lottando contro tutta la politica del governo, come ci dicono che la prospettiva di ripetere un’esperienza come quella dell’Ulivo produce in vasti settori proletari un effetto decisamente deprimente. Che fare, allora, posto che rinunciare alla lotta sarebbe per il proletariato suicida? Mettere le lotte al servizio del rinnovamento della sinistra, di un Ulivo rigenerato e meno acquiescente ai comandi capitalistici? Nell’attesa che l’alternativa di governo sia pronta ci teniamo, magari, anche un Berlusconi "ridimensionato" nelle pretese?
Ma il più rigenerato degli Ulivi spezzerebbe il cordone ombelicale con le leggi del mercato? Metterebbe in cima alle sue preoccupazioni il lavoratore invece che l’impresa? Servirebbe l’interesse degli esseri umani a scapito del profitto? Si opporrebbe alle guerre per procacciare al mercato occidentale le vitali materie prime e forze di lavoro al più basso prezzo possibile?
Due cose sono, allora, certe. La prima è che la questione del governo si pone in modo decisivo anche solo per dare corpo e forza alla più elementare delle lotte di resistenza. Da essa non si può decampare. La seconda è che la questione non si risolve mettendola in mano a forze politiche che hanno per programma la convivenza pacifica tra interessi dell’umanità lavoratrice e interessi del profitto, perché altro non vuol dire che assoluta prevalenza dei secondi, o, per meglio dire, nient’altro che la dittatura del capitale.
Ciò che serve è, dunque, una forte e diffusa organizzazione in prima persona delle masse lavoratrici, sul piano sindacale e politico, che non sia succube della cappa mortifera del riformismo. Può essere frutto solo del combinarsi di due azioni: la ripresa della mobilitazione delle masse, l’iniziativa di un’avanguardia che dia una chiara battaglia su tutti i fronti, che non rimanga confinata a un illusorio e perdente "piano sindacale".
Ricostruire la propria organizzazione sindacale di classe, agire per il collegamento nazionale e internazionale per la resistenza su tutti i terreni alle politiche che mondialmente il capitalismo porta contro i proletari d’Occidente e contro le masse oppresse del Terzo Mondo, è quanto mai necessario, e si può fare solo se contemporaneamente si lotta per ricostruire l’autonomia del proletariato sul piano politico, con una feroce critica del riformismo, per un programma fondato solo sugli interessi dell’umanità che vive del proprio lavoro, per un partito che raccolga nel modo più coerente e organico le forze mobilitate per questa battaglia.
Per noi comunisti non può che essere un partito coerentemente comunista. Pur tuttavia chiamiamo tutti i compagni, i lavoratori, i giovani, le donne, gli immigrati che mettono le loro energie al servizio di quella resistenza, a dare battaglia, dentro e fuori i sindacati, contro le politiche che hanno portato i lavoratori allo stato attuale, contro la sinistra della "terza via" e d’ogni riproposizione del riformismo, a non esitare a battersi perché l’insieme del proletariato si dia le sue proprie organizzazioni, senza le quali si continuerà a decampare dal problema centrale, quello di imporre il "suo proprio governo", il suo potere di classe, per realizzare i suoi bisogni e le sue aspirazioni, senza cedere a compromessi con il profitto, il mercato, il denaro, il capitalismo.