Critica n. 1 |
Partiamo dall’osservazione di chi ci ha obiettato:
"Come fate a non rendervi conto che nell’azione dell’11 settembre e nella guerra che ne è seguita le masse lavoratrici del mondo islamico non c’entrano niente? Come fate a non rendervi conto che è una guerra tra il signore del dollaro e il signore del petrolio? Che vede contrapposti non i ‘primi’ e gli ‘ultimi’ del mondo, ma i ‘primi’ e i ‘secondi’, la coalizione delle potenze occidentali capitanata dagli Stati Uniti e un coagulo di forze reazionarie ex-amiche capeggiate da bin Laden?"
Per noi è scontato che la contesa sul petrolio è un punto centrale dello scontro in atto, e lo abbiamo denunciato per tempo. I capitalisti e i governi occidentali si trovano a fronteggiare un tentativo di "ribellione" di alcuni settori delle classi dirigenti del mondo islamico, non più solo in Iraq o in Iran ma nella stessa Arabia Saudita. Bin Laden ne è solo uno dei rappresentanti. Essi denunciano che i proventi derivanti dall’estrazione e dalla lavorazione del petrolio sono incassati in misura eccessiva dall’Occidente. Chiedono che una quota di essi maggiore di quella attuale rimanga nel mondo islamico. Non abbiamo mai negato una cosa del genere. Anzi, lo abbiamo spiegato anche ai muri. Quello che abbiamo negato e che neghiamo è che i due schieramenti borghesi siano sullo stesso piano, e che a una simile contesa siano estranee e possano restare estranee le masse lavoratrici del mondo islamico e gli stessi lavoratori occidentali.
Lo schieramento borghese occidentale è mosso dall’interesse di saccheggiare (come e più di ieri) il petrolio mediorientale e caspico, per continuare a dominare il mercato mondiale e il lavoro degli sfruttati di tutto il mondo. Con ciò esso tende a prosciugare (come e più di ieri) una delle fonti con cui la borghesia locale può sostenere uno sviluppo economico minimamente equilibrato dell’area: un’adeguata disponibilità di capitali. Sarebbe stato possibile il decollo dell’Europa capitalistica nei secoli scorsi senza l’accumulazione di ingenti quantità di denaro nelle mani dei primi nuclei di borghesia? Evidentemente, no. E quel denaro fu, in non piccola misura, rastrellato con l’espropriazione dei continenti di colore, come racconta Marx a lettere di fuoco nel capitolo del Capitale sull’accumulazione originaria.
Il tentativo dei nuclei borghesi del mondo islamico di sviluppare una moderna economia industriale è iniziato grosso modo nel ventesimo secolo. Ha dovuto scontare gli effetti regressivi del colonialismo, l’impossibilità di rapinare il resto del mondo, l’ostacolo di dover emergere su una scena capitalistica già occupata in ogni dove dai monopoli occidentali, e, oltre a ciò, la difficoltà a mantenere nelle proprie mani il denaro derivante dall’unico settore in grado di offrire i proventi per il decollo: quello petrolifero. È da qui che nasce il conflitto del progetto borghese islamista con la struttura di dominio occidentale. L’interesse che lo muove, però, non è quello di dominare il mondo e di bloccare lo sviluppo capitalistico nel resto del mondo. Bensì quello di rimuovere questo blocco nell’area islamica. Non è una differenza da poco, perché alla rimozione di tale blocco sono interessate anche le classi lavoratrici del mondo islamico (e dell’Occidente), visto che è questo blocco a condannarle a un’esistenza stentata e all’annullamento degli spazi di agibilità sindacale e politica. Non è un caso che le masse diseredate e sfruttate del mondo islamico abbiano simpatia per l’appello lanciato da bin Laden all’intera nazione dell’Islam: vi vedono la possibilità di riscattarsi dal destino di oppressione sociale e nazionale in cui sono costrette a vivere.
Al di sotto del conflitto tra l’Occidente imperialista e alcuni settori delle borghesie indigene ed intrecciato con esso c’è, quindi, l’antagonismo tra l’imperialismo e le masse sfruttate dell’area islamica. Ed è questo il motivo essenziale per cui l’Occidente ha scatenato l’aggressione in Afghanistan. Tagliare le gambe all’esile tentativo di bin Laden di conquistare un minimo di autonomia locale borghese dall’Occidente? Certamente, anche questo. Ma lo si potrebbe fare con poche e "indolori" mosse. Se si scatena l’ira militare delle potenze occidentali, è soprattutto perché la sfida lanciata da bin Laden, al di là della sua volontà, rischia di mettere in moto un meccanismo incontrollabile di lotta antimperialista degli sfruttati e di sollecitare in qualche modo l’unificazione di questa lotta al di sopra dei confini dei vari paesi islamici, l’unico mezzo davvero in grado di mettere in discussione il blocco imposto sull’area dalla finanza e dalle potenze imperialiste.
Come sarebbe possibile, in tal caso, continuare a trattare da schiavi la manodopera occupata nel settore petrolifero dei paesi del Golfo? Come sarebbe possibile metterla sotto torchio nelle zone speciali di esportazione in Giordania, in Pakistan, in Egitto, in Tunisia? Dove si troverebbe quella montagna di sovra-profitti con cui gli stati occidentali possono ridurre l’impatto dell’attacco capitalistico contro i proletari delle metropoli ed ritardare il processo di riconquista dell’autonomia di classe da parte di questi ultimi?
Se in gioco non ci fosse anche e soprattutto l’obiettivo di colpire la resistenza di massa degli oppressi islamici, come ci spiegheremmo il comportamento militare dell’Occidente non solo in questa tornata ma anche in quella precedente contro il bin Laden del 1990, ossia contro Saddam Hussein? Come spiegare l’accanimento con cui si continua a sottoporre a embargo il popolo iracheno? Quando Bush e Berlusconi e Blair parlano di terrorismo e di lotta al terrorismo si riferiscono a questa resistenza indomita ai loro voleri dei lavoratori e dei diseredati dell’Islam. Lo ha detto fuori dai denti David Satterfield, assistente per il Medio Oriente del ministro statunitense Powell, con la frase: "L’Intifada è terrorismo".
Lo scontro non è, quindi, tra il signore del dollaro e quello del petrolio. Ma tra il signore del dollaro, che è anche il signore del petrolio, dell’elettronica, del potere militare, il signore dell’unico, vero, grande terrorismo che imperversa su tutto il globo da un lato e le masse lavoratrici del mondo arabo e delle periferie dall’altro.
Il nostro "giù le mani dall’Islam" vuol dire giù le mani dalle masse lavoratrici dei paesi islamici e dalla loro lotta. Vuol dire schieramento incondizionato al loro fianco. Piena assunzione delle ragioni della loro battaglia. Che poi sono anche le ragioni dei lavoratori e dei giovani dell’Occidente, coinvolgono i loro "diritti", le loro "libertà". La schiavizzazione delle masse lavoratrici del mondo islamico e delle periferie non è solo affar loro. Se "là" il blocco dello sviluppo economico condanna alla disoccupazione una massa enorme di semi-proletari e, grazie a ciò, spinge i salari al livello di un dollaro l’ora, ne risentono anche i lavoratori occidentali. Se "là" vengono imposte nuove catene, esse stringeranno anche i polsi dei proletari di qui. È già successo prima dell’11 settembre: il pugno di ferro degli anni novanta sulla Jugoslavia, sull’Iraq, sul Kurdistan e sulla Palestina è alfine arrivato anche sulle teste degli sfruttati occidentali a Genova, non appena si è provato a protestare anche qui contro la globalizzazione. E non c’è forse qualcuno che già sussurra che è terrorismo anche il no alla revoca dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, visto che così ci si oppone alla "libertà duratura" dell’impresa di fare profitti?
È evidente che il progetto politico di bin Laden non è in grado di portare avanti e di vincere lo scontro con l’imperialismo che pure evoca. E che le masse lavoratrici del mondo islamico sono chiamate, se vogliono difendersi coerentemente, a costituire un’altra direzione politica della battaglia antimperialista. Una direzione che individui nel meccanismo dell’accumulazione capitalistica in quanto tale e non in una cattiva gestione del processo mondiale di distribuzione della ricchezza la causa del blocco che grava sullo sviluppo economico del mondo islamico. Questa direzione, però, gli sfruttati dell’area e il proletariato internazionale potranno forgiarla solo nel fuoco dello scontro in atto, solo partecipandovi. Solo se i proletari d’Occidente sapranno sostenere in modo incondizionato la lotta dei loro fratelli di classe islamici. E prima di tutto se cominceranno a vederla. La "cecità" dei Casarini, Agnoletto e soci non è poi così "disinteressata": al fondo, la possibilità di ritagliare uno spazio (più o meno conflittuale) entro l’ordine metropolitano vigente per il loro progetto di esangue rilancio del welfare state, dipende anche dal mantenimento della schiavitù dei popoli islamici. Non ci sembra, però, che la massa dei giovani "no-global" abbia interesse a condividere la "cecità" (tutt’altra che neutrale tra i contendenti in lotta) dei loro dirigenti...