Speciale Genova

Quanti ne ha uccisi la polizia democratica


Un pregiudizio ha corso, pressoché incontrastato, nel movimento anti-global: non sarebbe proprio dello stato democratico reprimere, con i mezzi più violenti, la protesta di piazza. Un’illusione deleteria, ma scusabile per la massa dei giovani che non possono avere memoria della sfilza di eccidi e assassinii perpetrati dalle democratiche forze dell’ordine nel corso del cinquantennio democratico. Non lo è, però, per gli eredi, a vario titolo, del Pci o della "sinistra extraparlamentare" che, ancorché in un quadro del tutto istituzionale, qualcosina sulla polizia democristiana l’avevano a suo tempo denunziata. Ma tant’é: anche la trasmissione della memoria è un fatto eminentemente politico (e le "amnesie" di oggi erano in nuce nella politica della "sinistra" di allora). Noi, sicuri che i fatti apriranno gli occhi e le orecchie alle nuove generazioni, vogliamo per intanto ricordare qualche dato.

(Tralasciamo il periodo dopo-unità 1861-1943, in cui ci fu una vera e propria strage di contadini, braccianti, briganti e, in minor misura, operai di fabbrica: 19mila caduti sotto il piombo di polizia, carabinieri ed esercito).

Dal 1943 al 1978, dalla caduta del fascismo alla fine del ciclo di lotta apertosi nel ’68, si contano in Italia almeno 460 uccisi dalle forze statali tra dimostranti, sia operai che contadini, e militanti politici. Anche a far data dal ’46 superiamo comunque i duecento caduti. Parliamo di caduti sotto il fuoco: è immaginabile la violenza di sfondo che li ha accompagnati con ferimenti, arresti e relative torture.

1 poliziotto ogni 50 abitanti!

In Italia negli ultimi 25 anni le forze di polizia (inclusi i carabinieri, guardia di finanza, carcerarie, portuali, forestali, nonché i vigili urbani sempre più trasformati in polizia municipale) sono aumentate di più del 40%, fino ad arrivare a circa 500.000 effettivi. Il che significa che vi è un poliziotto ogni circa 112 abitanti, compresi anziani e bambini. Se consideriamo anche i militari professionalizzati dell’esercito (sempre più spesso impiegato in operazioni di polizia interna), il rapporto scende a circa 1 poliziotto ogni 90 abitanti. Se poi consideriamo gli 80.000 addetti (nel ’98) delle polizie private in travolgente espansione, si arriva a 1 poliziotto ogni 50 abitanti, se si escludono anziani e bambini. Un autentico stato di polizia...

Cile fascista di Pinochet ’73? No, Italia democratica di Ciampi, Berlusconi e Rutelli 2001.

Più in particolare, per il periodo repubblicano, si distinguono due fasi della repressione di piazza (che, si badi, non è la sola, essendo "semplicemente" il culmine di tutta un’attività di controllo e "prevenzione" da parte di un apparato statale in continua crescita). Senza contare la transizione badogliana (più di cento morti nelle manifestazioni seguite al 25 luglio per festeggiare, illusoriamente, la fine della guerra; e un centinaio ancora nel ’44: ma non era l’Italia "liberata" e passata dalla parte della super-democrazia anglo-americana?), abbiamo la fase dell’immediato dopoguerra, del consolidamento del "centrismo" democristiano, fino alla fine degli anni ’60. Dapprima la riorganizzazione della polizia neo-democratica a opera del "socialista" Romita nel ’47 (gli effettivi della sola PS salirono a più di 50mila, dopo il benservito ai "rossi" provenienti dalle fila resistenziali, e l’assorbimento della famigerata Polizia dell’Africa Italiana che aveva ben meritato sul campo con i più efferati metodi di repressione e tortura), la conferma (quando si dice discontinuità!) dei prefetti (solo otto "neo"-prefetti su 133 del periodo fascista) e con il rafforzamento delle loro funzioni di controllo, prevenzione e repressione. Quindi ecco comparire l’uomo giusto al posto giusto: il ministro degli interni Scelba (dal ’47 al ’53 ). Nascono i reparti "celeri" della polizia, crescono ulteriormente gli effettivi (carabinieri e guardie di finanza arriveranno a oltre 180mila unità), si scatena una durissima repressione contro le rivendicazioni contadine del Mezzogiorno e le proteste operaie. Tra il ’47 e il ‘50: 62 proletari uccisi; tra il ’48 e il ‘54: 75 assassinati nelle piazze. Per "garantire l’ordine pubblico" democratico, s’intende. Restano negli annali dello scelbismo -secondo una prassi abituale della repressione democratica in fasi di forti scontri sociali- l’eccidio a freddo dei contadini calabresi di Melissa che il 30 ottobre ’49 avevano occupato le terre incolte di un grande proprietario, e quello anti-operaio di Modena il 9 gennaio ’50, in occasione di uno sciopero generale contro i licenziamenti, con sei morti e un numero altrettanto alto di feriti. Questa fase, che vede altri 19 proletari assassinati negli anni ’50, si conclude con le lotte del luglio ‘60 contro il governo Tambroni che, per tutta risposta, perpetrò il massacro di Reggio Emilia (fuoco ininterrotto dei carabinieri per quaranta minuti, cinque operai uccisi).

Con il centro-sinistra segue una fase più "tranquilla" in cui, in mancanza di forti e generali lotte, polizia e carabinieri possono controllare la piazza senza uccidere. Dal ’68 si riapre, più profonda della precedente, la conflittualità sociale, ed ecco aprirsi puntuale il secondo tempo della repressione democratica con gli assassini di Avola sul finire del ’68 e di Battipaglia all’inizio del ’69. Ricompare anche la strategia dell’affiancamento degli assalti fascisti contro lavoratori, studenti, sedi, ecc. fino alla vera e propria strategia della tensione (manovrata, al fondo, dallo stato) da Piazza Fontana in poi (con la costruzione di falsi colpevoli, come l’anarchico Pinelli torturato e "suicidato" alla questura di Milano alla presenza del commissario Calabresi). La violenza extra-statale ben si inserisce nei gangli dello stato, foraggiandosi dalle sue casse e dai suoi depositi, coadiuvando (non, attenzione, sostituendo) con l’intimidazione (impunita) la repressione contro la crescente ondata di lotte. Una divisione del lavoro già vista negli anni Venti, con la differenza che stavolta non è stato necessario superare il "quadro democratico"? Dal ’68 al ‘77: 26 manifestanti uccisi, e poi cariche e pestaggi in piazza, sgomberi violentissimi (come alla Casa dello studente di Roma il 2 febbraio ’71), persecuzioni poliziesche e giudiziarie. Seguono poi le operazioni "anti-terrorismo": 68 caduti sotto il fuoco delle forze di repressione, secoli di carcere comminati (più di duecento i prigionieri politici a tutt’oggi), generale incrudimento della legislazione repressiva dalla Legge Reale in poi (con l’ampliamento a tutto campo della "licenza d’uccidere" che ha fatto decine e decine di morti ammazzati da carabinieri e polizia).

Potremmo continuare, ma tanto basta -e abbiamo ricordato solo i casi più eclatanti- per smentire la favoletta di cui sopra. Sempre che si voglia iniziare a pensare sul serio come rispondere alla repressione che la democrazia del capitale, e non altri, scaglia inevitabilmente contro ogni vero movimento di lotta.

(Per i dati fino al ’77: A.D’Orsi, La polizia, Milano ’72 e G. Viola, La repressione, Stampa Alternativa).