Nel pieno di una eccezionale campagna sciovinistica a supporto della nuova aggressione Usa-Nato, il 29 settembre a Washington una mobilitazione contro la guerra ed il razzismo ha rotto il clima di concordia nazionale con cui si prepara la guerra. Questa coraggiosa iniziativa ha dato voce ad un sentimento di "preoccupazione" e di "allarme" diffuso tra la popolazione bianca americana, in primo luogo quella lavoratrice, sotto la ruvida crosta nazionalista imperante. Allo stesso tempo ha in qualche modo riflesso l’"ostilità" delle masse latino americane, nere, asiatiche e medio-orientali statunitensi verso l’imperialismo americano. È stato, anche, il primo banco di prova del giovane movimento anti-globalizzazione messo brutalmente a confronto con la realtà "sporca ed insanguinata" della lotta di classe internazionale e con le radicali soluzioni militari e politiche con cui il "sistema mondiale globalizzato del profitto", in particolar modo nel suo caposaldo statunitense, difende la sua "civiltà".
Noi eravamo lì, a entrambe le manifestazioni del 29, per portare la nostra solidarietà ad una mobilitazione che ha portato in piazza una frattura presente "nel cuore dell’impero", per partecipare attivamente alla protesta, per cercare contatti e confrontarci sulla risposta alle questioni presupposte dallo slogan della manifestazione, "the war is not the answer" (la guerra non è la risposta); insomma, per spingere in avanti verso una risposta più demarcata sul terreno di classe.
Il riscontro, se visto come un inizio, è stato più che positivo. Non che, ovviamente, si sia già a un’opposizione di classe alla guerra. Tantomeno ci sfuggono le difficoltà e gli "arretramenti" con cui deve fare i conti anche lì il movimento contro il capitalismo globalizzato. Ma intanto una prima e pronta risposta c’è stata. E questo è il primo dato importante: non scompaiono le inconciliabili fratture di classe che hanno determinato la ripresa del protagonismo proletario negli Usa degli ultimi anni. Anzi. Chi non si ferma alle rilevazioni sondaggistiche di plebiscitaria adesione alla "nuova guerra" di Bush sa che questa è una guerra anche interna di ulteriore stretta economica, politica e repressiva sull’intero proletariato, innanzi tutto sugli imponenti avamposti delle masse sfruttate latino-americane, asiatiche, nere. Sono questi i motivi per cui, nonostante l’imperialismo Usa metta sul piatto tutto l’insieme della sua forza militare, tutta la sua potenza finanziaria, tutto l’imponente apparato propagandistico per sostenere lo sciovinismo razzista di cui ha bisogno per condurre la guerra… nonostante tutto questo con il crollo delle Twin Towers non c’è stato il "ground zero" della mobilitazione anti-capitalista.
In questi primi segnali emerge più d’una indicazione su cui farebbe bene a riflettere chi, anche qui da noi, ha intenzione di opporsi ai venti di guerra, ma rischia di impantanarsi già ai primi passi nelle sabbie mobili del nostrano pacifismo. La manifestazione di Washington, per quanto improntata ad una astratta "richiesta di pace" -nell’illusione, quindi, che si possano contenere gli effetti distruttivi dello scontro in atto senza mettere in campo la necessaria "guerra alla guerra" (come indicava uno striscione del black block)- non ha indugiato affatto nella "condanna della violenza terroristica". Il minuto di silenzio per le vittime delle Twin Towers è stato seguito da un minuto di silenzio per le vittime dell’aggressione in Iraq e Medio-Oriente. Questa "equidistanza" nel cordoglio non è stata affatto accompagnata da una equidistanza nella denuncia della causa prima e vera della "spirale di violenza" e cioè la politica imperialista del "proprio" stato! Pur se con un atteggiamento più defilato, abbiamo visto i cartelli dello IAC, e non solo, con slogan sul ritiro immediato di tutte le truppe americane dal Medio Oriente, la condanna del "terrorismo israeliano", le denuncie alla "CIA come sede reale del terrorismo internazionale" (lapidario il cartello "L’unico vero terrorista lavora alla Casa Bianca"). Nemmeno al più etereo peace-lover di Washington è passato per la testa di giustificare un "legittimo e mirato uso della forza" da parte dei massacratori del proletariato mondiale, così come invece hanno fatto i "pacifisti" guerraisti nostrani alla Agnoletto! La denuncia dell’aggressione razzista e l’attacco agli immigrati è stato poi uno dei punti principali della mobilitazione, e non nel senso del patriottico riconoscimento a neri, ispanici ed islamici di appartenenza al comune blocco nazionale (da difendere, dunque, in quanto "americani"); la parola è passata alle vittime stesse della campagna discriminatoria in atto senza previa richiesta di "condolance" e di dichiarazioni di giuramento di fedeltà alla patria.
La manifestazione del 29 settembre a Washington è stata, per numerosi aspetti, un inaspettato successo. Per tre settimane le organizzazioni che stavano lavorando alla protesta internazionale contro la Banca Mondiale e il FMI hanno tradito lo smarrimento di fronte all’"inaspettato" "attacco terroristico" al Pentagono e alle Twin Towers. Inoltre, il governo americano ha portato avanti una vera e propria propaganda nazionalista e razzista con il ricatto "o siete con noi o siete con i terroristi". Questo clima e l’impreparazione di fronte agli eventi dell’11 settembre hanno causato lo sbandamento del movimento, al punto che, su quaranta organizzazioni che partecipavano all’organizzazione del raduno del 29 settembre, soltanto l’International Action Center ha saputo prendere immediatamente una posizione di supporto nei confronti delle popolazioni mediorientali ed islamiche e degli immigrati e ha deciso di portare comunque avanti l’organizzazione della manifestazione. L’appuntamento era dunque particolarmente delicato.
Il 29 settembre ci sono state due manifestazioni. La prima, al mattino, organizzata dalla Anti-Capitalist Convergence, con una partecipazione al corteo di circa 1000-1500 persone e un sit-in sotto la sede del Fondo monetario, lo stesso nemico del movimento anti-global che ora trasforma la "guerra finanziaria" in guerra di missili e bombe contro gli sfruttati. Tale sana propensione è stata poi sfumata dalle stesse dichiarazioni dei leader del blocco che hanno, almeno nelle prese di posizione ufficiali, tenuto a "tenere separate" la risposta alla "globalizzazione" e "la lotta contro la guerra e la violenza terroristica". Inutile dire che da parte della polizia c’è stato un diretto attacco al corteo del bloc ed al suo tentativo di sit-in (11 arresti). I militanti anti-capitalisti sono poi confluiti nella manifestazione generale del pomeriggio, quella dello IAC. Anche quest’ultima era stata vietata e solo dopo una prova di forza e di coraggio degli organizzatori è stata all’ultimo momento autorizzata con spazi e percorsi limitati. Ma la presenza in forze in tenuta anti-sommossa della polizia e le provocazioni delle pattuglie mobili che percorrevano il perimetro del meeting a sirene spiegate davano l’idea di quanto si volesse scoraggiare i manifestanti.
Dato il momento, il tono della manifestazione principale era prevalentemente pacifista. Act Now to Stop War End Racism è il nome che si è dato il coordinamento per far fronte all’esigenza di denunciare ogni eventuale nuova aggressione occidentale coinvolgendo il numero più ampio possibile di voci di dissenso ed è anche lo slogan che ha dominato la giornata. La piazza si è andata gradualmente riempiendo, la maggior parte dei partecipanti era costituita da giovanissimi, principalmente da studentesse delle scuole superiori. La composizione del corteo era internazionale: dal Porto Rico, al Vietnam, alla Corea, al Messico, alla Colombia, alla Palestina, alla Somalia, alla Repubblica Domenicana, al Guatemala, all’Argentina oltreché alla Finlandia e alla Germania. Erano presenti il San Francisco Central Labor Council, il portavoce di tutti i sindacati di San Francisco, e significativamente il Local 1099 of the Service Employees International Union, che rappresentava molti dei lavoratori e delle lavoratrici del World Trade Center. Va poi sottolineata la presenza di attivisti palestinesi come Al-Awda-Palestine Right of Return Coalition, di gruppi islamici come Women from Afghan, Arab Women’s Solidarity Association, Arab Cause Solidarity Committee, Muslims Against Racism and War, Aisha Sabadia, di organizzazioni ebraiche come Jewish Against Occupation e A Jewish Voice for Peace, asiatiche, Sakhi for South Asian Women, e somale, Safrad Somali Association, di associazioni di immigrati e rifugiati, African Immigrant and Refugee from North America, attivisti neri, Black Voices for Peace, People for Revolution, organizzazioni in sostegno di Mumia Abu Jamal. Molteplici anche i settori rappresentati che andavano dai lavoratori, agli studenti, agli immigrati, ai rifugiati, ai gay, ai pompieri, alle donne contro la violenza domestica, alle organizzazioni contro la US American Army School, alle chiese. I gruppi più radicali sono rimasti ai margini della piazza; la bandiera americana con la svastica e i pochi cartelli che denunciavano i governi occidentali come i veri terroristi non hanno mai superato la barriera delle colombe.
Una partecipazione quindi giovane e spontanea da una parte, internazionale e determinata dall’altra. Chiaramente questi due aspetti erano appesantiti, soprattutto all’inizio, da un clima di americanismo e di lamento. I minuti di silenzio "per la tragedia" delle Twin Towers, la preoccupazione per la "democrazia" e l’ostentato pacifismo hanno avuto, certo, presa sui manifestanti, ma solo fino a un certo punto. Ad un iniziale sentimento predominante di "pace", di "non guerra", di "war is not the answer" (lo slogan principale) sulle note di "redemption song" (per dire...), sono andate via via affiancandosi precisazioni e denunce. Il giovanissimo corteo ha iniziato a sostenere le accuse nei confronti del terrorismo americano che si levavano sempre più numerose. Ha cominciato una donna palestinese di Al-Awda col chiedere perché i popoli islamici odiano l’"America", ha continuato una donna sudamericana ricordando che il terrorismo è un boomerang che torna indietro, fino al portavoce nero dell’International Socialist Organization che ha messo i puntini sulle i chiamando gli Stati Uniti il primo governo terrorista al mondo e a Black voices for peace che ha denunciato il terrorismo americano in Costa Rica, Guatemala, Ecuador, Nicaragua, El Salvador, Cile... Gli americani bianchi, considerati generalmente le uniche vere "vittime" della "tragedia", sono riusciti anche loro nel corso degli interventi a fare qualche passo in avanti rispetto al piagnisteo iniziale. Si è così passati a: "Il governo americano adesso vuole fare una guerra in nostro nome: dobbiamo alzarci e dire che non gli permetteremo di fare nessuna guerra con la scusa di farla in nostro nome", e anche: "Il governo ci dice che dobbiamo sostenere la guerra per difendere i morti, noi rispondiamo che dobbiamo organizzarci tra di noi per difendere i morti". Esplicita anche la posizione del pastore delle United Churches, che ha denunciato il ricatto "o con noi, o con loro" usato dal governo per imporre lo schieramento dalla sua parte pena il marchio di traditore e di terrorista, ed ha esortato a rifiutare qualunque tipo di intimidazione o di imposizione del silenzio. Uno degli slogan più diffusi, inoltre, era: "Our grief is not a cry for war" ("Il nostro dolore non è un grido di guerra"). È poi di un certo valore, dato il clima, che tra quelli che hanno preso apertamente posizione contro il governo ci siano state anche persone che nelle torri gemelle hanno perso i familiari.
Si è fatto più chiaro nel corso degli interventi il passaggio da un’identificazione con la "patria violata" ad un’identificazione con tutti i popoli schiacciati e vittime del potere terroristico dei governi occidentali, fino ad un’esplicita dichiarazione di appoggio e di "lotta fianco a fianco" di tutte "le sorelle e i fratelli" palestinesi e mediorientali. La posizione ingenuamente ma genuinamente pacifista della gran parte del giovane corteo è stata, quindi, messa alla prova da buona parte degli interventi, fino al punto cruciale del Black Voices for Peace: "La risposta è la pace. Ma la pace verrà solo con la lotta. Dobbiamo cominciare una guerra per avere la pace".
Se il movimento anti-globalizzazione ha sbandato di fronte alle torri gemelle, si può però dire che i suoi figli e le sue figlie più giovani hanno tenuto comunque gli occhi aperti e sono scesi in piazza. Un risultato non da poco che -in un’"America attaccata e vulnerabile", dove è consigliato sventolare la bandiera per dare coraggio alla patria e cantare l’inno americano prima di entrare in classe -ancora prima degli attacchi abbiano sfilato nella capitale del potere circa 15-20 mila persone.