Speciale Genova

Nessun dialogo con il capitalismo è possibile.

Né in "pace" né in guerra.


I grandi poteri capitalistici hanno compreso chiaramente le caratteristiche e le potenzialità del movimento. Per questo hanno cercato di soffocarlo sul nascere, con le profferte di un falso dialogo prima, con la repressione poliziesca poi, di fronte ad una mobilitazione di massa che ha visto la presenza delle giovani generazioni e del proletariato di fabbrica, con la sua proiezione internazionale e la globalità delle tematiche sollevate. Ciò che le cancellerie e i poteri forti vogliono impedire in ogni modo è che la protesta approfondisca le proprie ragioni e rivendicazioni perché esse, se portate fino in fondo, sono irriducibilmente contrapposte al sistema capitalistico e alla cupola politica che lo rappresenta.

Le giornate di Genova hanno dimostrato che non è possibile nessun dialogo con le istituzioni economiche e politiche del denaro e del profitto. Queste conoscono solo la propria forza e la usano contro di noi! L’aspirazione a un mondo realmente diverso dalle radici potrà essere realizzata solo se sapremo contrapporre alle intimidazioni (fisiche e politiche) e alla forza del potere borghese la forza, l’organizzazione e l’unità degli sfruttati. Trasformando il bisogno di schierarsi e di stare insieme che comincia a venir fuori in mobilitazione attiva. Non più soltanto in occasione dei vertici internazionali, ma ogni giorno, nei posti di lavoro, nelle scuole, nei quartieri, in tutti i luoghi in cui si materializzano quotidianamente le mille facce dell’oppressione della globalizzazione capitalistica, gli effetti del sistema sociale fondato sulla concorrenza e sul profitto. Le battaglie fin qui intraprese dal movimento hanno iniziato a porre i temi fondamentali dell’antagonismo a questa società. La disponibilità alla mobilitazione che s’è manifestata va ora organizzata ed estesa, coinvolgendo chi ancora non è sceso in piazza ma ha guardato con simpatia la mobilitazione: l’insieme del proletariato, in primis la classe operaia, o comunque chi non può sfuggire alle conseguenze della globalizzazione possono sentirsi incoraggiati ad andare avanti, a non accettare ciò che dettano le regole della globalizzazione, a farsi spina dorsale di una ripresa di mobilitazione generale contro la precarietà e la spremitura dell’intero mondo del lavoro salariato, quello giovane e quello meno giovane, indigeno e immigrato.

È evidente che i recenti avvenimenti internazionali costringono il movimento no-global a fare i conti con se stesso, con le proprie illusioni, con l’immagine semplificata che ha di sé, e innanzi tutto con l’idea che "un mondo migliore è possibile" senza ingaggiare una guerra contro il capitale, per la sua distruzione. Pensava di poter esprimere la propria protesta in una situazione tutto sommato di pace, ma deve fare i conti con il fatto che... la "pace" è in realtà una guerra. È quindi chiamato a rispondere alle "nuove" urgenze, imposte dall’acuirsi crescente dello scontro di classe a scala mondiale, a confrontarsi con i necessari passaggi ulteriori. Non è la prima volta che un movimento si viene a trovare di fronte ad una stretta, ma questa volta essa è davvero decisiva per la possibilità di un proseguimento e rafforzamento della lotta intrapresa.

Resistenza globale

Le lotte di cui abbiamo a più riprese trattato nel che fare -dalla ripresa sindacale e dei neri negli Stati Uniti, alla Corea e a tutta l’Asia, al Sud del mondo- sono il tema anche del libro di T. Costello e J. Becher, Contro il capitale globale: strategie di resistenza (Feltrinelli). Questo resoconto offre una efficace descrizione dei processi di resistenza alla globalizzazione capitalistica sviluppatisi nell’ultimo decennio, della spinta a un loro intreccio a scala internazionale e dell’incontro, in questa dinamica, tra lavoratori e altri settori sociali precedentemente distanti (movimento sindacale e un certo ambientalismo, agricoltori, consumatori, studenti, ecc.). Dalle sollevazioni e dagli scioperi nel Sud del mondo (Venezuela ’89, India ’92, Bolivia ’94, Chiapas , per citare alcuni casi) alla sindacalizzazione nei paesi di nuova industrializzazione (Brasile, Asia, Sud-Africa), fino alla campagna contro il Nafta che ha portato al collegamento multinazionale tra lavoratori sottopagati e sovrasfruttati messicani e movimento sindacale statunitense "costretto a impegnarsi in una lotta che, solo pochi anni prima, sarebbe stato appannaggio di un pugno di dissidenti": sono i passaggi principali che gli autori ripercorrono dando atto di quel "nuovo internazionalismo del lavoro" che è la stessa globalizzazione capitalistica, suo malgrado, a evocare.

Ora, se non vuole andare all’indietro, la massa dei partecipanti deve evitare di cadere nel tranello di un (impossibile) "neutralismo" nella guerra di classe (non di religione!) che è in atto tra un pugno di super-stati occidentali (che corrispondono esattamente alla centralizzazione del potere economico nelle mani di un pugno di super-imprese multinazionali) e le masse sfruttate arabo-islamiche. Berlusconi ha denunciato la "singolare coincidenza tra islamici e anti-global", entrambi nemici del modo di vivere dell’Occidente. Nella sua politically uncorrect denunzia (dove il suo opposto correct sta per ipocrita!) oltre a dare un monito al movimento perché non si impegni sul terreno della lotta alla guerra e a sostegno della lotta antimperialista, ha colto un elemento reale. Non, ovviamente, che Agnoletto sta con bin Laden (e chi potrebbe crederci?!), ma che tra la rabbia e la lotta delle masse arabo-islamiche e il risorgente protagonismo dei proletari delle metropoli c’è oggettivamente -e va costruita soggettivamente- unità di battaglia e una comune prospettiva di liberazione. Perché globale ed unitario è il sistema di oppressione e nessuna "singola" questione può essere affrontata e risolta isolatamente. Non sono forse gli stessi stati imperialisti, il dio mercato, a produrre (come pure a Genova si è detto) lo sfruttamento dei lavoratori, la rovina economica degli agricoltori, i programmi di "sviluppo" che espropriano le popolazioni indigene, la distruzione dell’ambiente… e -ieri come oggi- a condurre la guerra contro gli sfruttati arabo islamici? La posta in gioco è unitaria, globale, e richiama la necessità di un nuovo ordine sociale che soppianti il sistema capitalistico e tutto il disordine mondiale che ne consegue. Una cosa è certa: all’interno dell’attuale "ordine internazionale" non sarà possibile costruire nessuna società "più umana", come non sarà possibile nessuna vera pace.

Arriva troppo presto la necessità di questo passaggio, troppo alto il compito che si prospetta innanzi a questo movimento? Forse, ma alternative non ce ne sono. Le "mezze misure" vanno rapidamente bruciandosi e non basta gridare "pace" quando c’è la guerra. Il movimento anti-global è chiamato a dare continuità alla lotta già avviata da Seattle in poi, il che oggi comporta inevitabilmente mobilitarsi senza alcun neutralismo contro la guerra Usa-Nato, sostenendo incondizionatamente la lotta antimperialista delle masse sfruttate arabo-islamiche, costruire una lotta comune per un mondo diverso, un mondo che non può essere altro che quello del comunismo.

Questa strada non si darà da sé, spontaneamente, ma richiede che una parte del movimento, quella più consapevole della portata dello scontro e che non vuole limitarsi a ritocchi di facciata del sistema, faccia sua l’esigenza di un programma e di un’organizzazione di battaglia conseguenti, in grado di dare una risposta alla pressione e alla propaganda dell’avversario su tutti i campi. Questa esigenza sta nelle cose, nella profondità dello scontro. Noi lavoriamo per farla emergere, per darle uno sbocco conseguente, perché intorno ad essa si raccolga un’avanguardia di classe in grado di svolgere tutti i compiti che la situazione richiede. Non si tratta di separarsi dalla massa, di scindere il movimento, bensì di portare fino in fondo le sue istanze di lotta e, per questo, di fargli dismettere quelle illusioni, quell’inconcludenza che rischiano di portarlo in un vicolo cieco.