[che fare 56]  [fine pagina]

Le insanabili contraddizioni del capitalismo
sono esplose in una nuova guerra.

Bisogna battersi senza esitazioni contro di essa,
e in essa aprirci la strada alla rivoluzione sociale!

O altrimenti sarà una barbarie senza fine


Indice

Il vero nemico di Bush&C.

I fuochi delle devastanti guerre scatenate dall’Occidente contro i popoli dell’Iraq e della Jugoslavia ardono ancora, e già una nuova guerra è in corso. L’Afghanistan è bombardato e, tra poco, invaso. Sarà una guerra lunga. Una guerra "sporca", combattuta senza esclusione di colpi, e cioè di armi, belliche e "pacifiche". Bush e la sua banda l’hanno dichiarato e promesso. E, non ne dubitiamo, così sarà.

Non si tratterà, però, di una crociata contro il "terrorismo islamico" di Bin Laden e dei suoi sodali. Questo è soltanto lo schermo di comodo o il bersaglio più immediato, come lo furono in precedenti occasioni Saddam e Milosevic. Il bersaglio grosso di lungo periodo degli Stati Uniti, della Nato e dei loro alleati in questa impresa criminale, l’Italia di Ciampi, Berlusconi e D’Alema inclusa, è ben altro che un bersaglio individuale o di piccoli gruppi. È un bersaglio di massa, di classe. Ciò che si vuole colpire, punire, schiacciare, terrorizzare, sradicare (la parola più rivelatrice) è l’inarrestabile moto anti-imperialista delle masse arabo-islamiche. Un moto rivoluzionario che dalla Palestina fino all’Indonesia sta di continuo superando sé stesso in estensione e in radicalità. E che, ad onta della sua simbologia sempre più spesso religiosa e delle sue attuali direzioni, sta rinfocolando l’odio anti-occidentale ben al di là dei confini del mondo islamico.

Ma la guerra a cui la santa alleanza imperialista ha dato inizio è insieme ed inseparabilmente anche una guerra contro il proletariato metropolitano. Una guerra volta a stroncarne sul nascere il risveglio di lotta, a ricacciare indietro nella passività, in una disciplina da caserma, se non nello sciovinismo, quella nuova generazione di proletari bianchi che da Seattle a Genova sta cominciando, finalmente, a gridare anch’essa un "basta!" sempre più globalizzato agli infiniti soprusi che il capitalismo le impone. Una guerra volta a prevenire e impedire il contatto, il contagio, l’affratellamento, l’unità tra la lotta già semi-armata delle masse supersfruttate delle "periferie" del mondo e quella ancora tiepida, ma in via di riscaldamento, del proletariato metropolitano. Di qui il suo carattere realmente mondiale. Poiché mondiale è il nemico unitario che gli strateghi del capitale, con giustificato orrore, hanno intravisto profilarsi dai quattro angoli della terra, per entro le solenni barbe islamiche, i visi sbarbatelli dei no global, i pugni energici degli operai coreani, la protesta internazionale delle "nuove streghe" e quant’altro. E questo nemico, il vero nemico di Bush e soci, non è altro se non la rivoluzione sociale, la rivoluzione proletaria mondiale, che si riaffaccia sulla scena non in virtù di quattro arditi cospiratori rifugiati sulle montagne afghane, ma per effetto della profondissima crisi globale che vive il capitalismo come sistema.

Bisogna dar atto all’ariana Fallaci di averlo inteso per bene quando ha lanciato l’altissimo allarme: è dell’intera civiltà capitalistica che si tratta, guai a non combattere questa guerra fino alle più estreme conseguenze, senza alcuna pietà per i nemici. Dall’altra parte della barricata, lavoreremo senza soste perché si comprenda che per davvero la posta in gioco, oltre gli schermi, i pretesti e le esitazioni del momento iniziale, è quella suprema. O una rinnovata barbarie capitalistica alla scala mondiale, con più sfruttamento del lavoro, più oppressione, più diseguaglianze, più devastazioni e massacri che mai, oppure la rottura violenta dell’ordine costituito per dare avvìo alla trasformazione rivoluzionaria e comunista del mondo. O la controrivoluzione mondiale o la rivoluzione mondiale!

La guerra non sarà "chirurgica".

Sappiamo bene, invece, che tra quanti si oppongono in un modo o nell’altro alla guerra la percezione prevalente è molto diversa. Mentre scriviamo (ai primi di ottobre) i più sono convinti, e speranzosi, che il tutto possa ridursi ad una operazione di "polizia internazionale", ad una o più azioni di tipo "chirurgico". Tra i "pacifisti", diciamo così, c’è anche chi, per preservare la "pace" internazionale, si spinge fino a invocare in prima persona simili azioni, magari sotto supervisione dell’Onu (il benemerito ente che si è distinto in Iraq e in cento altre missioni umanitarie del genere). E se non ci tradisce l’udito, tra gli invocanti una giusta e ben calibrata punizione ci par di sentire anche l’erremoscia di Bertinotti con mezzo elmetto calato sugli occhi, nevvero?

Il "ritardo" con cui è partito l’attacco degli Stati Uniti pare avvalorare questa prospettiva, e fornire dei buoni elementi a chi è sempre pronto a darci dei catastrofisti. Ma se solo ci si ferma un istante ad analizzare il perché di questo "ritardo", non si fatica ad intendere che esso non ha nulla a che vedere con i filistei inviti alla moderazione.

L’11 settembre è stata una giornata shock per i potentati capitalistici di tutto il mondo. E per Bush e gli altri non è stato meno pesante constatare quali e quante difficoltà ci siano già nella stessa cerchia dei più fidati regimi islamici a entrare in guerra apertamente al loro fianco. Il mondo arabo-islamico è un vulcano a tante bocche che non è mai stato come ora, neppure ai tempi dell’assalto all’Iraq, pronto a esplodere in più punti. I primi ad esserne carbonizzati sarebbero proprio i loro fedelissimi Saud, al-Sabah, Musharraf, Mubarak, Abdallah con effetti a catena più destabilizzanti e pericolosi, per la dominazione occidentale, dell’insurrezione iraniana del 1979. Anche perché si va materializzando il grande incubo che le ragioni degli oppressi islamici siano sentite proprie, in un vero e proprio plebiscito anti-occidentale universale, da tutti i popoli di colore, da Cuba al Sud Africa alla Cina. E in Cina, e non solo lì, a remare contro sono anche i poteri statali, non soltanto i sentimenti di massa. Né Washington né le capitali europee, perciò, possono permettersi il minimo passo falso.

La cooperazione di Mosca, non incondizionata peraltro, non basta a riequilibrare la bilancia. Ed il sì incondizionato, epperò non entusiastico dell’Europa aggiunge alla grande coalizione un elemento di forza e insieme di debolezza. Non da ultimo, poi, la metropoli stessa è inquieta e socialmente molto più polarizzata di quanto non fosse soltanto un paio di decenni fa. Da qui un’obbligata prudenza statunitense nel fare le primissime mosse. Una prudenza che, come hanno inteso anche dalle parti del Manifesto, deve far paura a chi sogna di guerre brevi e "incruente" più, e non meno, di quanto poteva farlo un’immediata e violenta rappresaglia a caldo.

Riprendere saldamente le redini di un mondo islamico che gli sta sempre più sfuggendo di mano, con il suo petrolio, il suo gas, la sua sterminata forza di lavoro. Fare dell’Afghanistan e delle zone vicine un secondo e più grande Kosovo dal quale preparare il nuovo, inevitabile assalto disgregatore alla Cina, e dal quale minacciare contemporaneamente l’altro colosso asiatico, l’India, perché pieghi le sue ginocchia come ai bei tempi del colonialismo britannico. Ricompattare e galvanizzare per una guerra infinita all’Islam e ai paesi più poveri, un mondo del lavoro occidentale che sta sopportando da tempo sacrifici e bastonature che non si possono certo addebitare all’Islam, bensì proprio ai grandi potentati che oggi chiamano alla guerra. Assolvere un simile compito è estremamente complicato anche per la massima potenza imperialista. E lo è tanto più quanto più essa sta appena ora uscendo da una colossale sbornia da (presunta) onnipotenza.

Nessuno s’illuda, perciò. La via tracciata dai portavoce di Wall Street & Pentagono è obbligata. La cosiddetta pace, una "pace" punteggiata in questo dopoguerra da decine di guerre e oltre cinquanta milioni di morti (sì, d’accordo, non erano della nostra razza…), è morta e sepolta. Siamo in una nuova grande guerra di classe, "esterna" e interna, che non consente diserzione alcuna, e che è il più naturale sbocco di quel turbocapitalismo di cui si è appena finito di cantare la sempiterna gloria.

L'11 settembre

Questa guerra non è iniziata l’11 settembre con le azioni contro il Pentagono (che, curioso, nessuno più rammenta) e le Twin Towers, e il suo scoppio non si può certo addebitare ai kamikaze islamici. Essa, in quanto guerra del colonialismo e dell’imperialismo dell’Occidente contro le popolazioni islamiche, dura da secoli, ed è bene che la leva più giovane del movimento che si fa di tutto per tenere nell’ignoranza della storia reale del capitalismo reale, se ne renda chiaramente conto. Come è indispensabile prendere atto che tutte, proprio tutte, le tendenze anti-sociali e repressive che un certo piagnonismo "di sinistra" addebita all’11 settembre non sono state affatto partorite da quegli eventi. Lo scudo stellare e il rilancio generale della spesa bellica erano un fatto compiuto già da molto prima (in Italia questa è cresciuta del 20% negli ultimi 4 anni, anche prima che incombesse l’ombra di Bin Laden; e negli Stati Uniti una prima ondata di keynesismo di guerra si ebbe proprio quando i tipi alla Bin Laden erano in buoni rapporti con la bandiera a stelle e strisce, uniti nella comune guerra al "comunismo"). Le manganellate e gli arresti di Seattle, quelli di Praga, Goteborg, Napoli e Genova non furono impartiti o avvennero in esecuzione di qualche fatwa del mullah Omar, ma sono arrivati come naturale effetto di un processo di blindatura delle democrazie occidentali che viene da lontano, solennemente sancito nelle fatwe emesse dai nostri sacri parlamenti. Le nuove vili leggi renano-padane contro gli immigrati, con tanto di schedatura di massa e il massimo di loro precarizzazione, sono figlie dell’europeissimo patto di Schengen, anno di grazia 1992 (non 2001). E lo spargimento di sangue palestinese è forse cominciato da quando in Palestina i cortei portano le effigie dei "terroristi", o non è da sempre che il palestinese militante viene equiparato al terrorista, e che i palestinesi cadono sotto il piombo di Israele? O vorremo accollare al "terrorismo islamico" anche l’eccidio di Sabra e Chatila? E non suona beffardo sentir dire che è stato solo dopo l’11 settembre e a causa di esso che la Cia è stata ri-autorizzata a ricorrere all’omicidio politico? Andiamo, signori, andiamo, voi vi coprite di ridicolo.

Del pari anche la caduta delle borse mondiali, l’avvitamento della stagnazione in recessione, il peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori, le raffiche di licenziamenti, la fine della concertazione, etc., precedono, non seguono, il crollo delle Torri. Ciò che si può concedere, tutt’al più, è che gli avvenimenti di New York e Washington abbiano accelerato dei processi già in moto, del tutto indipendenti da essi.

È su tutt’altro piano, invece, che l’11 settembre può essere considerato un salto di qualità. Ed è in quanto esso segnala che le popolazioni islamiche, e le formazioni politiche generate dalla loro lotta, e non solo, sono determinate a portare lo scontro con il capitalismo imperialista fino a Washington e a New York, ed a farlo con tutti i mezzi disponibili (il Pentagono, anche se nessuno -noi esclusi- vi diede il giusto rilievo, fu preso a bersaglio già in precedenza, due anni fa, da una dimostrazione contro l’aggressione alla Jugoslavia; in quel caso fu bersagliato solo di invettive verbali…). Sì, sotto questo profilo l’attacco al Pentagono e la distruzione delle due Torri, "i due pilastri del capitalismo mondiale" (Corriere della sera, 24 settembre), segnano per i Berlusconi di tutto il mondo "il giorno più nero dalla fine della seconda guerra mondiale", e per gli sfruttati di colore di tutto il mondo, in primis per quelli islamici, un giorno fausto, di orgoglio, di forza. E non perché, come si vuole a tutti i costi vigliaccamente insinuare, essi si siano felicitati della morte di migliaia di innocenti, veri o presunti. Ma perché -come si è avuto il coraggio di riconoscere dall’interno stesso degli Stati Uniti nel testo che pubblichiamo a p. 11 - "un potere arrogante, che è riuscito finora a mettersi al riparo dai colpi mortali vantandosi della propria invincibilità, si è rivelato vulnerabile". Vulnerabile per opera non di super-armi sconosciute bensì della più nota e determinante di tutte le armi da combattimento, l’uomo. E tale vulnerabilità sul suo stesso territorio dell’imperialismo n. 1 non può che agire da potentissimo corroborante per tutti coloro che, dal Messico alle Filippine, sono in lotta contro le istituzioni del brigantaggio internazionale con scarsi mezzi meccanici ma possono schierare in campo moltitudini di sfruttati.

Comprendiamo la sorpresa, lo sgomento e, anche, il dispiacere di tanti lavoratori americani (e non) per quegli avvenimenti. Ma chiediamo ad essi di capire che si tratta soltanto di un legittimo atto di resistenza e di reazione del mondo islamico ad uno schiacciamento da parte del capitalismo yankee che dura da troppo tempo e che è diventato ormai intollerabile. E chiediamo loro, e ai lavoratori bianchi più in generale, di sottrarsi alla vergognosa strumentalizzazione di quegli avvenimenti, di non prestarsi a legittimare una guerra che in nome della lotta al "terrorismo" islamico colpirà in modo devastante le masse degli sfruttati islamici; che già oggi si presenta come una guerra contro il proletariato metropolitano, chiamato a pagarne il prezzo con nuove rinunce, perdite di "diritti" e lutti, come una guerra fratricida per e contro tutto il proletariato mondiale. Li chiamiamo, anzi, a frapporsi ad essa, a battersi contro di essa, a trasformarla in una grande guerra di classe contro quel meccanismo irriformabile da cui questo incontrollabile e sanguinoso caos deriva: il capitalismo putrescente.

 

Con un bombardamento propagandistico tambureggiante si cerca di arruolare i lavoratori e la gioventù dell’Occidente nella crociata anti-islamica e anti-proletaria dei Bush, Blair & C. Si ricorre ad ogni mezzo per farci sentire lontani, alieni, nemici, inferiori gli sfruttati dell’Islam. Ci si parla con orrore del loro "fanatismo religioso", a noi che per fanatizzarci bastano e avanzano il rombo della Ferrari di Schumi o i glutei di Del Piero. Ci si sbatte in faccia i loro severi turbanti, mentre noi siamo alle prese con le severe regole del kalo-uomo. Ci si sbatte in faccia il loro Corano proprio mentre noi, da membri di una civiltà superiore, ci stiamo abbeverando all’oroscopo del giorno o palpitando per l’ultima estrazione del lotto. Ci si esibisce la loro povertà, che noi per primi abbiamo procurato, quasi fosse una colpa essere stati oppressi e derubati, invece che l’avere oppresso e derubato. Ci si mostra fino all’ossessione il velo delle loro donne, quasi fossimo lì per liberarle dalle loro prigioni domestiche, "noi" che ambiamo esclusivamente a farne le nostre serve domestiche e ci macchiamo quotidianamente, anche verso di loro, di stupri etnici a raffica. E, al di là e a sintesi di tutto questo bombardamento, a suo modo cruento come quello fatto di bombe vere, si pretende di presentarci come delle pecore belanti dietro il "mito" del rais di turno dei fratelli di classe dalla cui fierezza, dalla cui combattività, dal cui comune sentire al di là dei recinti nazionali, dal cui internazionalismo (ancorché limitato all’Islam), dalla cui capacità di auto-superarsi nella lotta (anche sbarazzandosi dei propri miti), tanto ci sarebbe da imparare. Tanto avrebbero da imparare, per esempio, i proletari italiani, così infrolliti da sopportare crescenti usurpazioni ai propri diritti, così passivi -ancora- da avere per capi degli impresentabili bonzi quali un Cofferati o un Pezzotta, così arretrati da essere succubi tuttora di pregiudizi nazionalistici e localistici…

Né basta. I lavoratori e la gioventù dell’Occidente sono invitati, pressati, intimati a lasciar perdere le loro proteste, più o meno globali, a lavorare sodo (se non sono licenziati) e disciplinatamente, a fare un solo blocco con i propri sfruttatori e grassatori poiché il nemico, un nemico esterno, è ormai alle porte, anzi: dentro le porte, e può colpire selvaggiamente e alla cieca ovunque.

I proletari più coscienti e il "popolo di Genova", anche contro gli squallidi cedimenti dei "propri" portavoce del momento, a petto dei quali davvero un bin Laden si staglia come una sorta di Che Guevara islamico, non possono che respingere senza esitazioni e senza compromessi questo invito e questa intimazione all’omicidio e al suicidio di classe. È guerra?, e guerra sia. Ma non contro altri sfruttati come e più di noi, bensì in strettissima unità con loro contro i nostri, che sono anche i loro, sfruttatori. La lotta di liberazione degli oppressi arabo-islamici è la nostra lotta; la nostra lotta, crescendo in quantità e qualità, può e deve diventare un punto di riferimento per tutti gli oppressi del Terzo e Quarto mondo.

Il nostro nemico non è fuori dai nostri confini. È qui, in casa "nostra". È la classe capitalistica, sono gli Agnelli e i Berlusconi, che si ingrassano sul nostro lavoro e sul sangue dei nostri fratelli di colore. Sono gli usurai delle borse, delle banche, delle assicurazioni che lucrano sulla vita e sulla morte, sulla pace e sulla guerra, sul Sud e sul Nord, i banditi che per un pugno di dollari o di euro sono pronti a ogni crimine. Sono i gangster degli stati maggiori militari, del Pentagono certo, ma anche dei nostri "corpi speciali" e meno speciali sempre disposti a coprirsi di ogni disonore in ogni guerra di saccheggio. È questo sistema capitalistico la cui lugubre decadenza ci appesta da un secolo con le sue crisi, le sue guerre, lo sfiguramento senza limiti della natura e degli esseri umani.

Il no forte alla guerra fratricida, un no che ancora non sentiamo pronunciare da nessuna parte con la determinazione che è necessaria, questo no deve tradursi in vera, ampia, inequivoca mobilitazione di massa contro la nuova guerra Usa-Nato. Dobbiamo assicurare il nostro totale sostegno alla battaglia delle masse afghane e islamiche aggredite dall’imperialismo. Dobbiamo non attenuare né tanto meno sospendere, bensì rilanciare la lotta sindacale e politica in tutta la metropoli occidentale, a cominciare dallo stesso movimento contro il capitale globalizzato. Si deve offrire un presidio più che mai militante ai lavoratori immigrati, bersaglio di nuove inaudite discriminazioni. Ci si deve scrollare di dosso l’influenza immobilizzante, deviante di ogni sorta di forza riformista, apertamente obbediente al capitale nazionale ed internazionale o fintamente disobbediente ad esso che sia. Si deve mettere all’ordine del giorno, è il momento!, la ricostituzione della teoria, del programma e del partito rivoluzionario di classe.

Non ci aspettiamo che ciò si dia in un giorno, in un mese o in un anno. Ma siamo assolutamente certi che chi ha orecchie per intendere intenderà, e si unirà a noi. Viva il moto rivoluzionario anti-imperialista delle masse sfruttate islamiche, da chiunque esso sia provvisoriamente guidato! Viva l’unità internazionale degli sfruttati nella guerra di classe all’imperialismo! Viva il comunismo!

[che fare 56]  [inizio pagina]