Unione sacra! L’invocano destra e sinistra. L’una con piglio più esplicitamente bellicista, l’altra con sottili distinguo "pacifisti", vogliono che il proletariato le segua nella guerra contro i popoli che si ribellano alla rapina dell’imperialismo. Il proletariato vi avrebbe tutto da perdere, per le sue condizioni materiali e soprattutto perché dall’altra parte della barricata vi sono i suoi stessi fratelli di classe, con i quali serve invece costruire l’unità di lotta e d’organizzazione contro il vero nemico comune: il sistema capitalista-imperialista.
A un giovane che chiedeva come poter vincere la paura, Ciampi ha risposto: solo l’unità può farlo. È vero: la paura si può vincere solo se si è uniti da un forte vincolo d’unità con una moltitudine che condivide ragioni e sentimenti e che agisce come una potente forza collettiva capace di infondere al singolo la speranza nel successo della lotta comune. L’unità di Ciampi, destra, sinistra, borghesia tutta, è quella del popolo italiano, in comunione con i popoli "civili" aggrediti da un nemico che vuole distruggere la "nostra civiltà" per affermare ideologie fanatiche e oscurantiste. Un terrorismo che colpisce ciecamente, senza distinzione, che mette in pericolo la vita di tutti, politici e comuni cittadini, padroni e lavoratori, finanzieri e artigiani, speculatori di borsa e addetti alle pulizie.
In nome di questa compattezza -dicono- si potrà ben rinunciare a qualche "diritto civile" che lo stato in epoca "di pace" graziosamente concede ai sudditi, ma che, guerra in corso, deve necessariamente sospendere (dimostrazione palmare di come lo stato non sia per niente di "tutto il popolo", ma che per difendere se stesso e gli interessi di una ristretta parte della società, non esita a sottoporre il popolo a stretto controllo, e, se è il caso, a dura repressione). Rinunce vanno fatte anche sul piano economico e delle condizioni di vita. Ogni risorsa va concentrata sulla guerra, soprattutto quella della forza-lavoro. D’altronde, l’economia mondiale rischia il caos per colpa del terrorismo, di conseguenza, i lavoratori occidentali hanno anche un diretto interesse, sul piano economico, a sconfiggerlo. Tutto ciò per il tempo necessario alla vittoria, che sarà seguita da un futuro di nuova stabilità e benessere, e tutti raccoglieremo i frutti della nuova era di pace.
Quest’assordante campagna già comincia a dar vita a primi fatti e a delineare inequivocabili tendenze politiche. Il governo ha presentato la nuova legge sull’immigrazione anche come strumento di controllo su di un settore che potrebbe fornire "appoggio al terrorismo". Gli immigrati attuali e i futuri sono i primi, dunque, a subire le conseguenze della guerra, e contro di loro è acuita una campagna dai contorni sempre più esplicitamente razzisti. Subito dopo nel mirino sono i lavoratori, ai quali si comincia ad annunciare un’"economia di guerra", per dirottare fondi dalle "spese sociali" a quelle belliche, e, a seguire, un restringimento della libertà di protesta, perché le loro rivendicazioni vanno subordinate allo sforzo bellico e alle necessità di una crisi economica che si profila grave, e poi perché un "eccesso" di protesta potrebbe minare la necessaria compattezza sociale e politica. Nel mirino finisce anche chi manifesta opposizione al capitalismo globalizzato. Militanti "no-global", associazioni per l’azzeramento del debito, lavoratori che inseriscono la loro lotta in un contesto internazionalista e generale (non limitato, cioè, solo alle proprie condizioni economiche), giovani stanchi della vita assurda che sono costretti a condurre, contadini e allevatori mobilitati contro un’agricoltura schiava del profitto, che distrugge la natura, la loro vita e quella di tutta l’umanità. Tutti diventano potenziali disfattisti, inconsapevoli fiancheggiatori del terrorismo, sabotatori della comune patria occidentale, che deve reagire come un sol uomo alla minaccia terrorista.
Tutta questa costruzione sembra godere al momento di vasto consenso. Suscita, invero, delle perplessità in chi vorrebbe un Occidente sì vittorioso ma senza impegnarsi in una vera guerra che avrebbe le fastidiose conseguenze che s’è detto. Sono quelli che dell’Occidente apprezzano la democrazia, altrove calpestata dai soliti "dittatori", ma non gli "eccessi" con i quali s’impone a tutto il mondo, o che, tra un "capitalismo occidentale" e "islamico", scelgono senz’altro il primo perché ha almeno un "maggior rispetto per le donne" (giuriamo di averla sentita persino dalla bocca di una militante dei centri sociali anti-tute bianche). Perplessità che si sciogliereanno di fronte alle prossime azioni, magari in Europa (non ci vogliono gli astri o …informatori segreti per prevederle, vuoi come risposta alla guerra che tutto l’Occidente ha dichiarato, non da ora, al resto del mondo, vuoi come prodotto dei servizi segreti allo scopo di vincere proprio certe resistenze a vestire la divisa). Ma è un consenso che deve fare i conti con non pochi problemi.
Innanzitutto non si tratta di una passeggiata, o di uno sforzo a termine. Bush ha realisticamente bruciato ogni illusione di "secondo tempo" con la promessa di una guerra infinita. Estirpare il "terrorismo" è impossibile, per il semplice motivo che non si tratta di far guerra a qualche banda di fanatici, sconfitta la quale si torni alla "pace". Il fatto è che dall’altra parte della barricata ci sono moltitudini di esseri umani che covano un giustificatissimo crescente odio contro i padroni finanziari, politici e militari della Terra. Quel che oggi appare uno scontro tra "civiltà occidentale" e "bande terroriste" è destinato a diventare sempre più chiaramente uno scontro tra imperialismo e masse oppresse di tutto il mondo.
Il comandante in capo dell’imperialismo occidentale è consapevole di non poter mai mettere a questa guerra la parola "fine", ed è eroso dal dubbio che i terribili strumenti di distruzione dell’Occidente non possano mai avere ragione di interi popoli che non temono di perdere anche la propria vita pur di liberarsi dal giogo dell’oppressione e dello sfruttamento.
La guerra infinita metterà duramente alla prova la compattezza delle società occidentali. Ma, al momento, sono così compatte come uno sguardo superficiale potrebbe far credere?
Riportiamo in altra pagina la dichiarazione d’un giovane afro-americano apparsa su l’Unità. Opinione isolata di un fanatico? O sintomo di una più profonda separatezza nei confronti del "proprio" stato avvertita, esplicitamente o potenzialmente, nella grande maggioranza della comunità afro-americana cui non sono mai state realmente aperte le porte di un’effettiva integrazione, ma che è stata sempre sfruttata come forza-lavoro sotto-pagata, rinchiusa in ghetti e prigioni, confinata nei bassifondi della piramide sociale, in modo che chiunque riesca a salire più su di un gradino rispetto a lei si senta, per ciò stesso, "integrato"? Gli afro-americani hanno già sperimentato come partecipare alle guerre del potere bianco non li ripaghi con un vero riscatto sociale, politico e culturale. Potranno sopportare di essere intruppati di nuovo e per di più contro popoli di cui si sentono sempre più fratelli? La stessa domanda riguarda un numero crescente di "americani" delle ultime generazioni, la massa di latinos, asiatici, africani, arabi, attratti dalla promessa americana e ripagati con politiche di sfruttamento, ghettizzazione e razzismo appena un po’ più tenui di quelle dedicate agli afro-americani. Per nessuna di queste comunità ed etnie sarà indolore sostenere una "guerra infinita" contro i propri popoli o popoli in condizioni simili d’oppressione.
Non è, sia beninteso, solo una questione di contiguità etniche o di popolo, il legame è ben più radicale e, se si vuole, materiale. Il fatto è che il lungo e indiscusso dominio che gli Usa (in combutta con gli altri grandi stati) esercitano sull’intero globo terracqueo non si traduce più in benessere "diffuso". Le briciole di questo dominio che prima finivano sotto il tavolo si fanno sempre più rade, e le forze lavoratrici "interne" sono chiamate a uno sforzo sempre maggiore e a rinunce crescenti (su ogni piano: economico, sociale, politico), al fine d’ingrassare il sistema finanziario-industriale che sottopone alla sua usura tutto il mondo. La similitudine è, quindi, più vicina a una identità di classe che non semplicemente a una identità di etnia o di popolo. Tanto è vero che inizia a riguardare anche settori di proletariato bianco. Non per caso, negli ultimi anni c’è stata una ripresa dell’attività sindacale e il suo rivolgersi oltre frontiera e oltre la razza bianca; non per caso c’è stata una ripresa di attività delle comunità etniche più sfruttate; non per caso c’è stata Seattle, che, pur con gli inevitabili limiti di ogni serio inizio, ha lanciato l’esigenza di una lotta comune dei lavoratori, contadini, donne, giovani americani e di tutto il mondo.
Fatte le debite differenze, i problemi degli Usa sono estendibili a tutti i grandi stati che si spartiscono il bottino rapinato al Terzo Mondo e alle proprie classi lavoratrici. La mobilitazione e l’attenzione che le manifestazioni di Genova contro il G8 si sono guadagnate tra gli stessi settori sociali in svariati altri paesi ne sono la prova migliore.
L’unione sacra che le borghesie occidentali perseguono, con il corollario di governi, stati, partiti, e la gran cassa debordante degli apparati di propaganda di massa, si fonda, insomma, su un terreno franoso. Lavoratori, giovani, donne, contadini, artigiani, hanno già avuto modo di cominciare a chiedersi se non sia meglio separare le proprie sorti da quelle di un sistema che sta portando alla distruzione la loro vita e il mondo intero. Questa domanda ha iniziato pure a trasformarsi in azione, magari secondo direttrici varie e persino contraddittorie (su queste pagine abbiamo parlato di come, per esempio, anche intorno alla Lega s’è raccolto un sentimento che, in ultima istanza, mira a cambiare radicalmente il mondo attuale, seppure -illusoriamente- in un limitato anfratto). Con gli impulsi di movimento nati a Seattle, questa azione ha cominciato a delineare una strada più precisa per trasformarsi in lotta e in organizzazione dichiaratamente internazionale.
Non la facciamo facile, né ci aspettiamo che la lotta riprenda, all’immediato, più determinata e consapevole che prima. Un rinculo di quel movimento (non solo di quello già espressosi nelle piazze, ma anche di quello magmatico che si va diffondendo con mille reazioni e parziali elementi di coscienza) che s’era andato manifestando in questi anni lo mettiamo ampiamente nel novero delle possibilità. Ma di due cose siamo assolutamente certi: 1. Nessuna delle contraddizioni antagoniste del sistema capitalista può recedere dal livello altissimo di esplosività cui è giunta; 2. I primi passi d’azione stanno già sospingendo avanti un’avanguardia che comincia anche a farsi soggettivamente carico del prosieguo della lotta, della sua organizzazione e della necessità di finalizzarla a soluzioni vere, che siano un’alternativa reale al sistema attuale.
Tutto quanto accade sotto i nostri occhi mostra, ormai, come non ci sia più alcuno spazio per terze vie, per compromessi tra il capitalismo imperialista e le necessità di riscatto di immense masse lavoratrici del Terzo Mondo e delle metropoli. La scelta non può essere che netta, o dalla parte della civiltà occidentale e, quindi, coerentemente contro quelle necessità di riscatto, oppure contro il sistema del capitalismo e dell’imperialismo a fianco di quelle masse in qualunque continente si trovino. L’han ben detto Bush e Berlusconi: o con noi o contro di noi! Mettersi con loro vuol dire accettare tutte le conseguenze politiche, militari, economiche, sociali, e accettare d’arruolarsi nella guerra d’oppressione permanente di altri popoli, che non può che essere infinita e infinitamente cruenta. Mettersi contro di loro vuol dire schierarsi contro il sistema che questa guerra produce all’infinito per lottare, assieme alle sterminate masse di tutto il mondo, per un sistema che sia l’esatto opposto del capitalismo, in cui mancando denaro, salari, capitali e profitto scompaia la necessità stessa di dominare e opprimere altri popoli e, dunque, della stessa guerra. In questa lotta è possibile realizzare quell’unità, quella compattezza, quella comunità umana che può, con la sua forza, vincere questa immane guerra e può, anche, sollevare il singolo dalle sue paure e dalla sua impotenza. È questa l’unità a cui mirare, non quella mistificatoria che mette il popolo lavoratore al servizio dei suoi sfruttatori, per aiutarli a sfruttare di più e meglio altri popoli e altre razze.
Per realizzare questa comunità di lotta bisogna cominciare a rifiutare quella che ci propongono il nostro imperialismo e i suoi corifei. Non rinunciare a difendere i nostri interessi di lavoratori, evitando di sottometterli all’economia di guerra, e lavorando per estendere un vero fronte di lotta contro le politiche del governo di centro-destra, senza ripetere l’illusione del ’94 in un centro-sinistra sempre più omologato alle direttive, economiche e militari, dei mercati. Rifiutare di contenere le proprie rivendicazioni, i propri interessi, nell’alveo delle compatibilità, tanto di quelle rigidamente poste dal padronato e dal governo, quanto di quelle invocate dai sindacati. Non sospendere, e anzi rinforzare, la denuncia contro il terrorismo finanziario, politico e militare con il quale i "nostri" stati e le loro istituzioni consociate opprimono le masse lavoratrici di tutto il mondo e noi stessi. Mobilitarsi per il ritiro delle truppe italiane e occidentali da tutti i fronti di cosiddetta "pace" e di reale conquista. Assumere la piena difesa dei lavoratori immigrati, lottando contro il meccanismo che li fa soggiacere al ricatto d’espulsione al solo scopo di impedirgli di organizzarsi per difendersi dallo sfruttamento cui sono sottoposti. Non interrompere il cammino intrapreso di collocare le proprie rivendicazioni, in quanto lavoratori dipendenti o "autonomi", giovani, donne, in un movimento mondiale che raccolga tutte le forze sociali che in ogni parte del pianeta subiscono uno sfruttamento simile al nostro nella sostanza, ma terribilmente più gravoso quanto a intensità e modalità.