A Genova, e dopo, esponenti del Gsf hanno chiesto ai manifestanti no-global di isolare o addirittura consegnare alla polizia i giovani del black bloc. Noi abbiamo preso immediatamente posizione -riportata anche sul nostro sito Internet- contro questa operazione funzionale alla difesa dell’ordine costituito portata avanti dal governo e dall’"opposizione", compresa quella di certi "rivoluzionari".
Niente affatto. È innanzi tutto un settore sociale giovanile, anche femminile, di quella parte di proletariato spesso precaria nel lavoro e nel futuro che sta crescendo a vista d’occhio nelle metropoli ultramoderne del capitale. Esso si sente -giustamente!- contrapposto ad un sistema che sacrifica tutto, uomini e natura, sull’altare del profitto. E vuole dirlo apertamente, con l’azione. (Possiamo pensare, dal punto di vista delle condizioni sociali che ne sono la scaturigine, a fenomeni analoghi come quello dei casseurs francesi descritti magistralmente nel film di qualche anno fa L’odio di Kassowitz). Al di là dei numeri attuali, e delle forme, esso è il segnale della radicalizzazione inevitabile di una parte del mondo giovanile, stufa di subire sul lavoro e nella società l’alienazione e l’abbrutimento, spinta a reagire come può e quando può, con centri di aggregazione che non sono più i luoghi tradizionali del "vecchio" proletariato, tipo sindacato o partiti della "sinistra" (e come potrebbe essere altrimenti visto quello che sono diventati?). Ed è un fenomeno internazionale, non meno delle altre forme di resistenza alla globalizzazione. (In Italia, per il generale arretramento dello scontro di classe, siamo solo al primo, timido emergere di tale realtà). La favoletta degli "infiltrati" (che comunque, a Genova, erano presenti in pressoché tutti i settori) è, appunto, una favola: quand’anche, ci si "infiltra" in qualcosa che c’è già, e che ha una sua consistenza.
Citiamo, perché rende bene ciò che scatta in questi giovani, da un commento a caldo sui fatti di Genova proveniente dall’area anarchica: "Però quando poi ci si trova in piazza, magari per la seconda, la terza, la decima, la centesima volta, dopo anni che si subiscono dall’alto decisioni, limitazioni, oppressioni, ingiustizie, repressioni, violenze, succede altro. Succede che ci si ricorda della rabbia di quando si subiscono dei torti... di come non sia neanche possibile capire chi sia il responsabile di ciò che accade... tutti hanno una giustificazione e non si può far nulla, se non pregare, votare e chiedere qualche briciola in più... C’è chi è sceso in piazza con questi sentimenti oramai razionalizzati da tempo, chi li ha sentiti emergere durante le ore in piazza. E tanti, molti, hanno sfogato la propria rabbia, sono esplosi... contro un sistema che, questo sì, è un blocco nero, un blocco che non lascia spazio a nessun altro metodo".
Questa rabbia contro il sistema, prima di ogni altra considerazione, è sana! E non è, come scrive la Rossanda, un semplice "disagio esistenziale" da adolescenti immaturi, ma appunto una reazione all’oppressione capitalistica percepita sulla propria pelle su tutto lo spettro della vita (l’esistenza appunto!). Una reazione, ecco un punto essenziale, che ne ha abbastanza dei compromessi della "sinistra" sotto-riformista (alla Rossanda, appunto, per non dire di altri), pronta a chiedere genuflessioni di fronte allo stato e ai potenti cui mendicare rattoppi a un sistema, esso sì, sempre più violento. Questi giovani vogliono rispondere a questo stato di cose, non sono disposti a interiorizzarlo subendolo come intangibile. Si rifiutano di accettare il monopolio statale (cioè capitalistico) della violenza tanto caro ai riformisti di ogni genere che ne fanno il criterio-base per marcare i "provocatori" di turno. Così facendo, rilanciano a tutto il movimento una domanda non eludibile: cosa è violenza?
A Seattle il black bloc aveva scritto: "Portare avanti il libero mercato vuol dire far arrivare questo processo (di sfruttamento e oppressione) alle sue logiche conseguenze: una rete di poche industrie monopoliste con un controllo completo sulle vite di tutti noi. Portare avanti un "mercato giusto ed equo" vuol dire aspirare a vedere questo processo mitigato dalle leggi dei governi... ma la proprietà privata -e quindi il capitalismo- sono intrinsecamente violenti ed oppressivi e non possono essere riformati o mitigati". Ben detto, la violenza è intrinseca al sistema capitalistico, questo sistema non è riformabile. Si può discutere dell’opportunità, in questa o quella situazione, dei modi di operare del black bloc, e del suo rapporto con la massa del movimento come espressione della sua ideologia e strategia di lotta al capitalismo, ma è indubbio che qui è centrato il problema di fronte al quale il movimento stesso è chiamato a rispondere dalla realtà dello scontro, e non semplicemente da una sua parte che ci si può illudere di espungere: lo sviluppo conseguente di una lotta anticapitalista. È a questo nodo che rimanda la questione della violenza che non può essere astratta da esso. "Credo che utilizzare il termine "violenza" per riferirsi alla distruzione di una vetrina di un negozio della Nike tolga significato al termine stesso. La Nike produce scarpe con materiali chimici tossici in paesi poveri ricorrendo a pratiche di sfruttamento della forza-lavoro. Poi vende le scarpe a prezzi enormemente superiori ai costi di produzione... ritengo che ciò contribuisca all’impoverimento e alla sofferenza delle fasce più povere. Credo che la povertà e la sofferenza possano essere definite violente... Quale violenza implica il rompere una vetrina al Nike Town?" (da una lettera di un’attivista del black bloc su Internazionale del 25/7).
Se qualcosa è da criticare in tutto ciò, è proprio il carattere solo "simbolico" che caratterizza questo tipo di azioni: l’attacco alla proprietà rischia di esaurirsi nel colpire fisicamente alcune strutture materiali "eclatanti" quali banche, sedi di corporations, vetrine dei megastore di lusso, ecc. E anche questo lo diciamo cum grano salis, perché l’aspetto simbolico ha comunque un suo peso a misura che individua, seppur confusamente, nel singolo aspetto materiale il rapporto sociale capitalistico. Sta a un movimento di classe all’altezza dei suoi compiti far sì che questo elemento non si avviti su se stesso, non ricada nella disperazione del "non ci lasciano altro metodo", ma al contrario trascresca in una lotta contro la totalità del sistema che, soprattutto, si dia l’impegno indefettibile di coinvolgere ed organizzare in essa la massa del proletariato, non solo giovanile. E questo è possibile facendosi carico del potenziale anticapitalistico presente in questi settori e non, come gli Agnoletti e soci, invocando la polizia perché lo soffochi! Dando un’organizzazione e una prospettiva generale alla rabbia giovanile che sale dagli strati profondi della società, e non chiedendole di auto-censurarsi o anche solo auto-limitarsi (tralasciamo qui quanti, come Fassino e Bertinotti, chiedono direttamente che a "censurarla" sia lo stato a suon di manganelli, arresti, processi e condanne esemplari). Rilanciando in un senso di classe il sacrosanto rifiuto dello stato -che qui è "anarchicamente" connotato, ma riflette la più ampia, sanissima diffidenza o avversione nei confronti dello stato presente in gran parte della gioventù no-global indipendentemente dall’area di provenienza.
Certo, questo settore -che peraltro non nasce oggi, essendo attivo per lo meno dagli inizi degli anni ’90, ed è stato protagonista del lavoro di preparazione, organizzazione e mobilitazione a Seattle- non è in grado da sè di darsi una prospettiva organica di lotta al capitale. Non tanto per l’orientamento "anarchico", astrattamente preso -in sè perfettamente "giustificato" data la parabola catastrofica del movimento "comunista" (leggi: stalinista), e comunque non isolabile da una dinamica suscettibile di sviluppi ben oltre le attuali posizioni-, quanto per i ritardi complessivi o, meglio, l’assenza ad oggi di un vero movimento rivoluzionario del proletariato che sappia dare una risposta ai reali problemi che il black bloc, al modo "estremista", immediatista, pone. La giusta istanza è quella di voler rompere con gli inconcludenti programmi (e metodi) degli imbonitori della globalizzazione "dal volto umano". Il modo "estremista" sta nell’incapacità di collegare ciò alla necessità dello sviluppo di una lotta radicale della massa del proletariato contro la globalizzazione capitalistica; sta nella difficoltà di risalire dai "simboli" al cuore del sistema, facendo dell’istanza anticapitalista una leva per arrivare ad un vero programma di classe in grado di centralizzare il soggetto collettivo e mondiale che può davvero mettere ko il capitale, e cioè l’universo del proletariato organizzato in partito politico internazionale. Si vuole "boicottare" il capitale, ma si fatica a comprendere che la migliore e risolutiva forma di "boicottaggio" è l’organizzazione rivoluzionaria degli sfruttati.
Di qui -lo ripetiamo: per "colpe" non esclusivamente e neanche primariamente imputabili al black bloc- derivano le difficoltà di rapporto col restante movimento anti-globalizzazione, di cui pure si individuano bene parecchi limiti. Al fondo, pesa negativamente in questa area l’idea di una possibile "coesistenza" -improntata spesso non ad un atteggiamento di ostilità e neanche di indifferenza- a fianco della restante massa no-global, che surroga un lavoro politico verso di essa per una sua dislocazione su un terreno di lotta più radicale. Si fatica a intendere che senza questo lavoro il rischio, ai primi svolti cruciali (e oggi, più che a Genova, siamo davanti a uno di questi), è di uno sfrangiamento della mobilitazione che destinerebbe, momentaneamente, alla residualità le sue stesse espressioni più combattive.
Il resto del movimento ha subito, dall’interno e dall’esterno, un vero e proprio bombardamento propagandistico volto a legittimare, con la scusa del bloc, l’ordine della proprietà e dello stato. Non è solo questione dei "portavoce" e delle forze politiche ufficiali; la stessa massa dei dimostranti di Genova non ne è rimasta indenne. Anche chi non è disposto a seguire l’"ordine di consegna" dei "violenti" alla repressione da parte delle forze dello stato, ha però pensato di risolvere il problema identificandolo tout court con il black bloc e facendo di questo un qualcosa di totalmente esterno al movimento. Noi diciamo che non è così. Ciò di cui il bloc è espressione è doppiamente interno al no-global. Lo è -in primo luogo- perché un Carlo Giuliani non era vestito di nero, non era un "anarchico", ma era uno dei tanti che davanti alla violenza dello stato non si sono sottomessi all’appello "civile" dei bonzi tipo Casarini e Agnoletto. Questo è, e sarà sempre più, il modo in cui tutta una parte di gioventù vive la politica, con la sua crescente carica di rabbia, energia, combattività. "Isolare i violenti" -anche in "buona fede", illudendosi così di preservare la massa dalla repressione- vorrebbe dire per il movimento non tagliare fuori, bensì tagliarsi fuori da questa massa di giovani che rappresentano un potenziale importantissimo della lotta per un "mondo migliore". Di questo soggetto, "nuovo", questa lotta non può fare a meno.
E neanche sono esterne -in secondo luogo- le istanze, ancorché non organiche, di lotta senza mediazioni al capitalismo. Non lo sono perché pongono un problema cruciale che il movimento no-global non può eludere se vuole tener fede a ciò che dice di voler fare, di lottare contro un sistema sociale disumano. A Washington, nella manifestazione del 29 settembre contro la "guerra di Bush", il black bloc ha rigettato senza mezzi termini il ricatto della "lotta al terrorismo" fatto dai super-terrorristi stati occidentali lanciando a chiare lettere la consegna: "Destroy Imperialism"! Il problema è centrato: chi è il nemico e come combatterlo? Un problema che la massa dei dimostranti non può eludere se non vuole relegarsi al ruolo di opposizione di facciata funzionale, alla fin fine, al sistema.
Accettando il ricatto della "pregiudiziale" non-violenta (puntualmente risoltasi nei "capi" in un attacco violentissimo a chi non è in linea!), il "popolo di Seattle e di Genova" sarebbe dunque inesorabilmente ricacciato su posizioni via via più deboli, di compromesso con i potenti della terra, su di un crinale lungo il quale si dissolverebbe quella che ne è stata finora la carica vitale e attrattiva, la critica a tutto campo -con tutti i suoi limiti- agli effetti della globalizzazione capitalistica. Imboccherebbe una strada pericolosissima che porta, alla fine, a giustificare la repressione poliziesca quasi si tratti di una "reazione" -e non di un intervento preventivo e sistematico contro l’insieme della massa- ad una forma di protesta "eccessiva" di alcuni. Non solo. La richiesta che le forze statali oramai fanno chiaramente è sempre più alta: non solo demarcarsi dai "violenti", ma fare un vero e proprio volontariato di polizia all’interno del movimento a favore del capitale. Rispetto a questa richiesta i "capi", come han già dato modo di vedere, non hanno titubanze, ma attendono "solo" che la massa di manifestanti si renda disponibile a cadere nel tranello.
Insomma: isolare o consegnare il bloc alla repressione vorrebbe dire illudersi che ci possa essere una via di compromesso coi poteri forti. Ciò che ci attende è invece -a meno di voler abbandonare il campo- uno scontro duro, in cui le forze del capitale risponderanno con tutta la violenza concentrata di cui saranno capaci (e di cui a Genova abbiamo visto un assaggio), non perché dall’altra parte ci sono alcuni "violenti", ma perché per la classe borghese la massa antagonista è il "violento" da battere. Un movimento che prendesse atto di ciò e facesse propria la critica radicale alla globalizzazione rinvierebbe senza esitazioni al mittente le richieste di "consegnare chi parassita sulla massa pacifica", e saprebbe così catalizzare i giovani arrabbiati, il cui numero è destinato ad ingrossarsi anche per l’entrata in campo della nuova generazione di immigrati. Se si vuole ridurre al minimo l’ "esposizione" della massa ai colpi dell’avversario l’unica strada è quella della radicalizzazione e dell’estensione della lotta, dell’inquadramento dei singoli gesti in una battaglia collettivamente organizzata contro la vera violenza, quella del capitale.