Crisi, lotte e fermento in Turchia e Grecia


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In Turchia i lavoratori erano scesi in piazza già la scorsa estate contro i tagli alle spese sociali e le privatizzazioni previste dal governo per ottemperare ai dettami del Fondo Monetario. A organizzare la mobilitazione erano state tutte le principali organizzazioni sindacali, anche quelle più filogovernative, riunite nella Piattaforma del Lavoro. Da allora il quadro economico e sociale si è ulteriormente deteriorato e i sindacati hanno organizzato il 14 aprile scorso, nonostante il divieto governativo, manifestazioni in 55 province. A Istanbul quarantamila lavoratori hanno scandito slogan del tipo "Fmi uguale disoccupazione e fame", "Imf go home", proprio mentre gli emissari di questa centrale dell’usura internazionale venivano ricevuti dal governo.

Il fatto è che in questi mesi la presa dei creditori occidentali -i sette paesi, fra cui l’Italia, che di fatto controllano il Fmi nella sua politica di "aiuti" ai paesi "in difficoltà"- si è fatta ancora più ferrea e implacabile su quella che resta una pedina essenziale per il controllo militare dell’area da parte dell’Occidente. Forte del suo ruolo militare strategico per la Nato (nei confronti della Russia e del Medio Oriente) e dei suoi rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, la Turchia ha tentato negli ultimi anni un minimo di iniziativa in proprio proiettandosi verso l’area turcofona dell’Asia ex-sovietica e quella mediorientale (dove si è avvicinata a Israele).

Il meccanismo dell’indebitamento con l’estero (arrivato a 114 miliardi di dollari di cui 30 in scadenza quest’anno) e all’interno (60 miliardi di dollari), con la disponibilità di capitali liquidi che in un primo momento ne è seguita, sembrava permettere alla borghesia turca il ritagliarsi, in piccolo, un’area di influenza anche sul piano economico. Tanto più che i costi del fardello potevano essere scaricati sulle masse lavoratrici turche e curde, guardate a vista (e ferocemente represse, queste ultime) da un esercito super-armato dall’Occidente, con l’Italia tra i primi fornitori. Ma era solo un’illusione, durata poco e pagata a caro prezzo. I mercati finanziari e le banche creditrici occidentali hanno presto chiesto il conto, e l’economia turca non ha potuto sottrarsi a una strettoia che per certi aspetti ricorda la crisi che ha investito qualche anno fa (e ancora stringe) i paesi del sud-est asiatico. Alla crisi di borsa iniziata lo scorso autunno, con fallimenti a ripetizione e capitali bruciati in pochi giorni, è poi seguita nel marzo di quest’anno la svalutazione secca della lira turca (di oltre il 40%), con il governo costretto a piegarsi alla sua libera fluttuazione sui mercati. Questo nonostante i nove miliardi di riserve bruciati nel tentativo di preservare la valuta nazionale dagli attacchi speculativi e dalla svalutazione. Mentre l’aumento dei tassi di interesse ha portato al fallimento migliaia di piccole (e non solo) aziende e imprese indebitate, la perdita di valore della moneta ha fatto alzare i prezzi (+56% per la benzina) riducendo drasticamente il potere d’acquisto dei salari (si calcola, ad esempio, un meno 35% per il settore pubblico). La disoccupazione è aumentata a vista d’occhio, toccando a marzo il 20% (con massicci licenziamenti nell’industria tessile e calzaturiera).

Di qui il precipitoso appello del governo turco (basato sulla coalizione tra la destra dei Lupi grigi, i liberal-conservatori e i socialdemocratici) allo stesso Fondo Monetario per la concessione di nuovi, consistenti prestiti. Il cartello dei paesi creditori ha prontamente risposto imponendo, innanzi tutto, un suo adepto -il socialdemocratico Dervis, turco di nazionalità, ma evidentemente ben ferrato nella lingua dei mercati, già vicepresidente della Banca Mondiale- al dicastero dell’economia in vista delle drastiche misure da applicare. In cambio di un pacchetto di "aiuti" di 14,3 miliardi di dollari il Fmi ha preteso dal governo una lettera di intenti nella quale sono contemplate quindici "riforme strutturali". Previsti sono, tra l’altro, tagli alla spesa pubblica, la privatizzazione della compagnia aerea turca e di quella delle telecomunicazioni, la ristrutturazione e privatizzazione delle tre banche statali (una nel frattempo è già stata liquidata, le altre due sono state "risanate" iscrivendo i debiti inesigibili nel registro del debito pubblico a spese delle classe lavoratrici che devono ripagarlo), l’amministrazione controllata di numerose banche e finanziarie private. Non proprio noccioline, insomma, tanto che si è aperto uno scontro sotterraneo all’interno della stessa compagine governativa tra "riformatori" ligi alle indicazioni dei mercati e "partito della spesa pubblica" stretto sempre più in un angolo (di recente, guarda caso, è scoppiato uno scandalo per corruzione che ha portato alle dimissioni il ministro dell’energia dalla spesa evidentemente troppo facile). Le istituzioni finanziarie, alla bisogna, sanno mettere sotto torchio anche i loro più fedeli servitori. Le intenzioni sono chiare: siamo di fronte a un’ulteriore messa sotto tutela dell’economia turca che servirà a stringere ancora di più il cappio al collo del paese, delle sue risorse, della sua forza-lavoro.

Contro il governo, contro l’imperialismo

Per intanto le ripercussioni della crisi sul piano sociale non solo hanno rimesso in moto operai e lavoratori dipendenti (anche i dipendenti pubblici che, a marzo, si sono scontrati violentemente con la polizia), ma hanno anche scatenato -è il caso di dirlo- la reazione di commercianti, artigiani, piccoli imprenditori rovinati. L’undici aprile scorso, ad Ankara, questi settori sono scesi in piazza scontrandosi duramente con la polizia nel tentativo di marciare verso il parlamento al grido di "no alla povertà". I prezzi saliti alle stelle, le condizioni divenute proibitive del credito, l’innalzamento dei tassi con la rovina delle imprese indebitate, tutto ciò sta portando all’esasperazione anche la piccola borghesia e i ceti medi (e qualcosa di simile, probabilmente sta incubando nelle campagne tra i diversi strati di agricoltori che, oltre tutto, si vedranno tagliare drasticamente i finanziamenti a seguito delle misure previste). Il governo è così diventato il diretto bersaglio dello scontento. Al punto che ne ha chiesto le dimissioni la stessa Unione delle camere di commercio che organizza, con il clientelismo e le collusioni che si possono immaginare, questi settori intermedi. Certo, questa associazione critica non i provvedimenti draconiani, ma la lentezza con cui i partiti procedono alle "riforme", dando a intendere che un ritorno diretto sulla scena dell’esercito potrebbe essere l’unica soluzione possibile per restaurare l’ordine. Ma il piccolo problema è che i diversi settori della popolazione stanno mobilitandosi a causa di e contro quelle riforme. Non a caso il governo ha prontamente accusato gli "estremisti islamici" (il partito messo fuori legge su pressione dello stato maggiore dell’esercito qualche anno fa) quali registi delle proteste.

In generale, è l’insieme della popolazione lavoratrice a nutrire sempre più sfiducia nelle forze di governo e nei partiti ufficiali. Al tempo stesso essa inizia a realizzare che dietro questo apparato politico corrotto (la cui inefficienza ha potuto verificare anche in occasione del terremoto del ’99) sta il Fondo Monetario, stanno le istituzioni internazionali e i paesi occidentali che si dicono "amici", ma in realtà sono solo buoni ad allungare le mani per far soldi e a frapporre infiniti ostacoli a uno sviluppo meno squilibrato del paese (come è il caso della Comunità europea con il suo permanente ricatto esercitato contro la Turchia in nome di "diritti umani" di cui non gliene può importare di meno). Che si incrini il rapporto tra classi lavoratrici turche e stato nel mentre cresce l’odio contro i pescecani occidentali, è un dato della massima importanza che renderà oltremodo difficile all’Occidente di indorare l’amara pillola del "risanamento" addossandone le responsabilità a una classe politica "corrotta". Al contrario, la sudditanza dello stato e della borghesia ai padrini occidentali non potrà non apparire sempre più evidente con l’aggravarsi della situazione economica e sociale complessiva.

Significativa a questo riguardo la manifestazione del 20 aprile organizzata a Istanbul da organizzazioni studentesche contro i piani di ristrutturazione del Fmi e insieme contro il durissimo giro di vite che il governo ha approntato sulla condizione dei detenuti politici turchi e kurdi (v. riquadro).

Fermento sociale, ripresa del protagonismo proletario, lotta politica possono, a date condizioni, prendere a marciare insieme. Nella crisi sociale e con la reazione delle masse -e sarebbe un ulteriore risvolto notevolissimo- potrebbe svelarsi, agli occhi della popolazione turca, anche il reale significato della repressione anti-kurda portata avanti da quello stesso governo, da quello stesso esercito che nulla fanno per evitare la svendita del paese. La lotta di liberazione del popolo kurdo avrebbe l’occasione di uscire dall’isolamento e dalle difficoltà, di manifestare nella pratica il suo strettissimo legame con la questione sociale, con la questione -al fondo- dell’oppressione esercitata dall’imperialismo di cui lo stato turco è esecutore e beneficiario in subordine, contro le classi lavoratrici turche e doppiamente contro le masse kurde.

Il proletariato greco di nuovo in piazza

Il precipitare della crisi prepara dunque, oggettivamente e in prospettiva, il terreno per il riannodarsi dei fili finora separati della lotta della classe operaia a difesa delle proprie condizioni contro la borghesia locale e contro la manomissione occidentale (in Turchia e in tutta l’area), della radicalizzazione dei ceti medi e degli strati semiproletari pauperizzati, e della lotta per la liberazione del popolo kurdo. Non solo. Mentre in Turchia proseguiva la protesta contro le misure del Fmi, sull’altra sponda dell’Egeo, in Grecia, ha avuto luogo a fine aprile una giornata di mobilitazione generale -compatta e partecipata- dei lavoratori contro i tagli alla sicurezza sociale e alle pensioni ventilati dal governo socialista del Pasok. Negli ultimi anni la classe operaia greca ha dato ripetute prove di combattività, comprese le mobilitazioni contro l’aggressione occidentale alla Jugoslavia e contro la visita di Clinton ad Atene nel dicembre ’99. Non si tratta, con buona probabilità, di una fiammata improvvisa destinata a rientrare subito.

Ora, se solo si pensa al contrasto profondo tra le borghesie turca e greca -impulsato e sostenuto dalle cancellerie europee e americana per lo meno dal periodo della rivoluzione nazionale turca di inizio secolo- e a come le tensioni e i fattori di crisi interni ai due paesi (su accorta regia esterna) abbiano spesso rischiato di sfociare in conflitto aperto, con i due proletariati attizzati l’un contro l’altro a preparazione del reciproco macello, è chiara l’importanza di quanto sta accadendo e, ancor più, di quello che si prepara. La crisi economica non potrà non rinfocolare (dopo i timidi tentativi di riavvicinamento degli ultimi anni) l’attrito greco-turco. Ma non sarà indifferente, come ostacolo a ciò e insieme alle manovre delle maggiori potenze Nato, se il proletariato delle due sponde dell’Egeo sarà in piedi, in lotta o comunque ostile alle rispettive borghesie, meno propenso a farsi scagliare contro i propri fratelli di classe a esclusivo interesse dei propri padroni.

Spetta a un’avanguardia di classe il compito lì di costruire, a partire da queste lotte, il quadro politico e organizzativo che permetta alle masse di proseguire coerentemente sulla strada della mobilitazione e della resistenza agli affondi del nemico; e di far vedere come, per realizzare questo obiettivo, è indispensabile rompere con le contrapposizioni tra le masse lavoratrici turche e greche e lottare contro l’oppressione del popolo kurdo. Spetta ai comunisti e ai lavoratori più coscienti dei paesi occidentali dare il massimo appoggio alle lotte in corso e contrastare le campagne scioviniste contro i "turchi tutti assassini dei kurdi" o i "greci fondamentalisti ortodossi e filo-slavi", campagne che hanno come unico scopo quello di scavare un fossato tra i lavoratori di questi paesi e noi proletari del "libero e democratico Occidente". Anche per chi ha veramente a cuore le sorti del popolo kurdo c’è qui non poco da riflettere e ancor di più da agire.

Massacro nelle carceri turche: per l’Europa è democrazia!

Il 20 ottobre scorso i prigionieri politici (in massima parte militanti del Pkk) detenuti nelle carceri turche hanno iniziato uno sciopero della fame illimitato (fino alla morte) per contrastare l’introduzione del sistema carcerario ad alta sicurezza e massimo isolamento. Il piano governativo prevede la sostituzione delle carceri di massima sicurezza di tipo "E", sovraffollate ma che consentivano ai detenuti di condividere spazi comuni, con quelle di tipo "F": celle singole, chiusura per 24 ore, nessuna luce naturale, nessun contatto con gli altri prigionieri, con i detenuti esposti a tutte le più distruttive pratiche di tortura praticabili in regime di isolamento, come già democraticamente sperimentato nelle nostre carceri o in quelle tedesche. L’introduzione di questa "riforma" è stata fortemente sostenuta dagli stati dell’Ue per "democratizzare il sistema giudiziario e carcerario" e permettere l’ingresso della Turchia in Europa. Come denunciato dai protagonisti della lotta, l’obiettivo di questa "riforma" è quello di "isolare e lasciare a se stessi i prigionieri politici, facendoli arrendere con metodi da tortura e spersonalizzandoli".

Dopo un mese di sciopero della fame (che ha coinvolto circa quaranta carceri ed è stato sostenuto dalla mobilitazione di piazza delle varie organizzazioni dei familiari e di difesa dei diritti umani) il 19 dicembre 2000 l’esercito ha fatto irruzione nelle carceri in sciopero. L’operazione -denominata con tragica ironia dal governo "ritorno alla vita", con riferimento agli scioperi della fame- ha comportato la morte di 31 detenuti e oltre 700 feriti, alcuni dei quali molto gravi. Dopo questa operazione è iniziato il trasferimento dei detenuti nelle nuove carceri, ma lo sciopero della fame è continuato e ha visto crescere il sostegno e la mobilitazione di piazza non solo delle varie organizzazioni dei familiari e di difesa dei diritti umani (Ihd) ma anche di settori sindacali del pubblico impiego (Kesk). Le varie iniziative intraprese hanno dovuto fare i conti con una forte repressione, che ha visto chiudere sedi dell’Ihd, pestaggi durante le manifestazioni, divieti di assemblee nelle stesse sedi sindacali.

Su questa lotta qui da noi è calato il più totale silenzio dei mass-media. Come organizzazione abbiamo partecipato alle due iniziative di Roma e Venezia di dicembre scorso e lavoriamo per organizzare ed estendere la massima solidarietà alla lotta del popolo kurdo e ai prigionieri politici. In questo lavoro non ci limitiamo a denunciare la criminale azione del governo turco, ma mettiamo in guardia dall’affidare le sorti dei prigionieri, del popolo kurdo e del proletariato turco all’"interessa-mento" dei governi europei e dell’Italia, come alcuni settori sono andati sostenendo qui, con petizioni e mozioni. Proprio la vicenda delle carceri turche, come già la vicenda Ocalan, confermano come l’unico "interessamento" di cui i governi europei sono capaci è quello a difesa dei propri esclusivi interessi imperialisti.