La Russia dei nostalgici e quella reale


Corriere della Sera, 9 aprile 2001: "Dopo una caduta prolungata e rovinosa degli investimenti (-80% nel 1991-’98), nel 1999 (+ 5,3%) e nel 2000 (+ 17,7%) ha finalmente avuto luogo una crescita degli investimenti, finanziati dai fondi interni delle imprese, che sono alimentati dalla ripresa produttiva… I capitali nazionali fuggiti all’estero (oltre 20 miliardi di dollari all’anno) rientrano in maniera significativa", pur tra qualche ma e però. Di chi si parla? Della Russia definitivamente sul lastrico e alla fame cui ci avevano abituati i nostri mass media. E allora?

È una persecuzione. La Russia perestrojkata affondava nel pantano e, da parte della sinistra "seria", più o meno dura e pura (ovvero molliccia e svergognata), era tutto un coro compiaciuto di descrizioni sull’apocalypse now and forever. La Russia di Putin comincia a registrare dei successi sul terreno economico e istituzionale e lo stesso coro di cornacchie giura che si tratta di un bluff di breve periodo, che i problemi -al fondo- continuano ad aggravarsi e il peggio deve ancora venire. E, intanto, si dà per assodato che la gente comune muore di fame, che la mortalità è in aumento, l’analfabetismo pure, che qua e là tornano i cannibali…

Questo vociare infausto converge con l’inarrestabile nostalgia per i "bei tempi" dello stalinismo classico e del suo seguito più discutibile, ma pur sempre "socialista", inopinatamente spezzato dal "colpo di mano", caduto dal cielo, della perestrojka e, soprattutto, dallo el’tzinismo. Persino il vecchio, e tutt’altro che sprovveduto, Karol non può fare a meno di rimpiangere quell’Eden, welfarista se non proprio socialista, dipingendo a tinte sempre più fosche il presente del paese, con una curiosa contraddizione: tutto va a rotoli, ma se si manifestano dei segni di ripresa, allora occorre essere ancora più preoccupati perché la Russia di Putin è "imperialista" (non lo era quella di Stalin!) ed "antidemocratica" (non lo è l’Occidente?!). Insomma… l’impero del male.

Noi, marxisti, da quando si è affermata la pratica, prima ancora che la teoria, del "socialismo in un solo paese", abbiamo sempre considerato l’allora Urss come l’anticamera obbligata dell’omologazione alle leggi del capitalismo internazionale e, come scriveva Battaglia Comunista nel ’45, detto chiaramente: "Non è questa la Russia che amiamo", che può e deve amare il proletariato sovietico e internazionale. Ciò cui oggi siamo di fronte è la conclusione logica, non ancora sistematizzata, di questo processo di pieno reinserimento nel capitalismo reale. Ce ne dobbiamo dispiacere? Certamente non ci rallegra che il proletariato sovietico abbia perso (già nel ’26, tanto per assumere una data simbolica) il potere, ma non guardiamo con dispiacere al fatto che attualmente vengano per esso meno tutte le "guarentigie" assicurategli ad interim da un sistema bloccato in cui leggi del capitale e patto di stato sociale sembravano potersi combinare. Non ce ne dispiace perché questo patto immobilizzava di fatto la ripresa autonoma e antagonista del proletariato sovietico e, con esso, di quello internazionale. La sfida fondamentale tra due opposti sistemi, socialismo e capitalismo, rimandata per decenni riparte vitalmente da qui e noi intendiamo raccogliere tale sfida. Chi guarda all’indietro, con le lacrime agli occhi e il fazzoletto bagnato, non difende il socialismo, ma si mette di traverso alla via della ripresa nostra.

Naturalmente, come abbiamo più volte scritto, saremo gli ultimi a non vedere di che lacrime e sangue grondi il pieno manifestarsi di un capitalismo sciolto da ogni precedente vincolo di compromesso sociale in Russia, ma non sta qui il punto. Crediamo di sapere, dai lontani tempi di Marx, che lacrime e sangue sono la regola in questo caso e che, però, è inutile volgersi nostalgicamente indietro, alla moda dei "socialisti reazionari". L’essenziale è che il pieno, selvaggio dispiegarsi del capitalismo chiama alla sola risposta che ci interessa: quella del proletariato, per il socialismo.

Uno degli "argomenti" preferiti dai nostalgici per rivendicare la "moralità" del passato è che oggi saremmo in Russia in presenza di un’economia allo sbando da una parte e in mano alle mafie dall’altra, con la perdita per il paese della stessa "indipendenza nazionale" usurpata dal capitalismo occidentale. Questa è un po’ la summula di un recente libretto di Andrea Catone (1989-1999. La controrivoluzione russa, Napoli, ed. La Città del Sole, 2000) recapitatoci dagli editori con richiesta di recensione in qualità di compagni, ancorché stalinisti. Li accontentiamo. E vogliamo subito dire che la descrizione degli orrori capitalistici trova largo riscontro nella realtà, salvo che non si vogliono vedere due cose: primo, le cause strutturali che stanno a monte di detta "controrivoluzione" (un tempo datata all’epoca di Chruscev, oggi rimandata al 1989 come inizio); secondo: il carattere transitorio del marasma in atto, che non dà luogo a una "liquefazione" dell’economia russa, ma punta a una sua, per quanto difficile, ristrutturazione capitalistica a suo modo standardizzata ai "normali" livelli competitivi mondiali. Vero è che, in fondo al libriccino, si ipotizza che Putin possa configurarsi come "un ‘centrista’, un fautore del controllo statale di leve e settori fondamentali dell’economia" in grado di "risollevare l’economia russa a pezzi", un "fautore dell’integrità statale, contro i tentativi di frammentazione posti in opera dall’Occidente: una versione russa del modello cinese". Se così sarà, i nostri amici potranno, di qui a poco, scrivere un nuovo saggio sulla "ripresa rivoluzionaria", chissà… Ma così come Gorbacev non cadeva dal cielo per "optare" (!) a pro’ della controrivoluzione, altrettanto non vi cade un Putin: l’uno e l’altro segnano tappe di un unico processo iniziato da quel dì -vero Baffone?-, il che vale per lo stesso "modello cinese", per quanto un non sprovveduto Samir Amin -vedi recentemente sulla Rivista del manifesto- vi veda un esempio di non omologazione al capitalismo (!). Temiamo forte che un certo anticapitalismo nemico della "globalizzazione occidentale" sia così poco… globale da acconciarsi all’"anti-imperialismo" statuale dei concorrenti di seconda fila. Pole position capitalista, seconda fila chissà che diavolo, ma extra-capitalista! Riprova pratica: neanche una riga sui compiti del proletariato in questi paesi né nel saggio di Amin né in quello di Catone.

Un approccio più sistematico e libero (da false ubbie socialiste) alle questioni della Russia è quello che troviamo nella raccolta di saggi di vari studiosi russi in La nuova Russia. Dibattito culturale e modello di società in costruzione (Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1999. Tra parentesi: la traduzione è dall’inglese, assai approssimativa e con una infinita serie di svarioni: forse la Fondazione paga male i suoi traduttori). L’importanza di questi saggi, non omogenei e, spesso, in contrasto di posizioni tra loro, sta nel fatto che è dato in partenza per assodato che la pretesa "controrivoluzione" russa è semplicemente il terminale di quel processo di lunga data di cui sopra parlavamo e che le, pur dichiarate e impietosamente illustrate, "anomalie" e distorsioni registrabili nell’economia e nella società si inscrivono in questo stesso corso obbligato.

In particolare, vi appare in luce meridiana la funzione dello Stato russo, sin da quel famoso dì, come agente dell’accumulazione capitalistica, del "processo della modernizzazione" "dall’alto" (in ragione di ben precisi motivi storici) e la smentita della favola della "pianificazione". Il famoso "onnipotente" controllo statale dello stesso periodo stalinista non può nascondere, se non ai ciechi, il fatto che all’interno della sua macchina "unitaria" avveniva uno scontro d’interessi, su base aziendale o di settore o locale, quanto alla ripartizione degli investimenti e degli utili, cioè una vera e propria concorrenza mascherata poi definitivamente venuta a esplodere. Quanto ai cosiddetti "burocrati" parassitanti il "corpo sano" del post-capitalismo sovietico, essi, una volta espunto ogni "potere operaio" anche di semplice "controllo" sull’economia (altra cosa dal peso inerziale di resistenza al peggioramento delle proprie condizioni di vita), vanno visti semplicemente come gli agenti di un’espropriazione di fatto mirante alla sua definitiva sistemazione proprietaria personale (cosa intravvista anche da Trotzkij, ma col vizio letale dell’introduzione di una soluzione di continuità tra il primo tempo del "controllo amministrativo" e il secondo, e conseguente, del controllo proprietario). È suggestivo che in uno dei saggi appaia, per designare questo processo di incubazione pienamente borghese, la formulazione di "rete di interessi" entro la precedente trama "socialista", il che ci ricorda quanto, decenni fa, aveva già scritto Bordiga. Interessi collettivi degli agenti borghesi rispetto all’oggetto-proletariato, interessi particolari nella definizione degli spazi privati di proprietà. Dapprima entro la cornice dello stato di transizione stalinista, poi attraverso la sua esplosione dall’interno per la piena affermazione giuridica e sostanziale dei "normali diritti" borghesi, poi ancora, oggi, attraverso una ridefinizione dei poteri dello stato per assicurarne la fissazione e la normalizzazione dopo la necessaria fase di disordinata esplosione. Sì, perché, "la maggior parte dei mercati è emersa sotto il controllo e il sostegno diretto dello Stato", "il mercato autonomo non è "emerso"; è stato costruito tramite l’esercizio del potere politico e di Stato" e "sarebbe un grave errore, in particolare nel caso della Russia e dei paesi dell’Europa dell’Est, aspettarsi che lo Stato, dopo aver creato una legislazione favorevole e infrastrutture avanzate di mercato, abbandoni infine il campo della regolamentazione economica. Si tratta, infatti, di un’arena in cui hanno luogo negoziazioni e rinegoziazioni continue delle regole economiche fra le aziende e i funzionari dello Stato, associate a benefici di diverso genere e a transazioni non a costo zero. Vi è perfino motivo di considerare la formazione dei mercati come parte del processo di costituzione dei singoli Stati" (p. 130). E quando si parla a vanvera per lo stalinismo di pianificazione centrale assoluta non va dimenticato che "il potere centrale, ovviamente, cercava di tenere sotto controllo l’operato degli organi di direzione locali, nazionali (o di settore, n.n.) e, di tanto in tanto, si sentiva costretto a reagire a delle situazioni "anomale" nelle regioni…. (però) la gestione dell’economia come della giustizia restavano comunque prerogativa del potere locale (o di settore, vedi sopra)… a svolgere la funzione di intermediazione". Negoziazione e rinegoziazione sulla base delle leggi di mercato, più o meno sviluppate. Quando si dice il marxismo…

Lo sforzo di Putin per la catoniana "integrità statale" va esattamente in questo senso dopo gli anni di indispensabile burrasca. Una limpida attestazione di ciò la ritroviamo in questo significativo passaggio: "Secondo alcuni imprenditori, nelle prime fasi della riforma, molti funzionari ricercavano la propria "rendita amministrativa" senza assumersi particolari responsabilità per i risultati. I funzionari di oggi possono essere coinvolti nelle mazzette (contrariamente a quello che avviene in Italia, poniamo!, n.n.), ma si occupano anche dei beni pubblici. Essi sono diventati più professionali e selettivi e, oltre alle proprie entrate personali, intendono garantire i risultati positivi dei progetti. Le mazzette vengono considerate "commissioni"…" (p. 141). In un primo tempo "i più alti funzionari dello Stato si sono preoccupati prevalentemente di come privatizzare la proprietà statale e non di come gestire quella esistente (o rimanente). Più scarso fosse stato il rendimento delle imprese dello Stato, infatti, più argomenti avrebbero avuto a disposizione i gruppi sostenitori della privatizzazione, per aumentare ritmo e portata della trasformazione della proprietà". Prendo a prezzo zero quello che non vale niente e poi, una volta mio, lo faccio fruttare. Semplicissimo.

Questa si chiama "ottimizzazione" dei processi economici in senso capitalista, e qui sta l’"integrità" della burocrazia così come quella dello Stato, agente sempre e mai padrone dell’economia borghese. Chi sarebbe così sciocco da uccidere la gallina dalle uova d’oro? A meno di pensare che la gallina era sterile e incommestibile, ma, allora, addio inni alla Splendida Macchina Produttiva "Socialista"…

E le famose mafie? Anche qui va fatta una distinzione. Da una parte vi sono gli "affari sporchi" ai margini della società per il semplice arricchimento personale dei capi-banda (droga, prostituzione, champagne e capitali su banche estere). Dall’altra affari veri, un vero apparato produttivo funzionante in termini di investimenti e profitti, per i quali è del tutto ininfluente il giudizio sul carattere "illecito" della primitiva appropriazione proprietaria. Le mafie che "danno lavoro", ne ricavano profitti e li reinvestono (come sempre più sta avvenendo in Russia), sono, dal punto di vista capitalista, perfettamente legittimate e vanno semplicemente disincrostate e ripulite dalle proprie macchie originarie che portano sulla "coscienza". Una volta ottenuto tutto ciò, sotto l’egida della "sovranità" statale a guardia dei collettivi interessi produttivi della nazione, si potrà procedere "normalmente", in modo non mafioso: ad esempio con la consegna di commesse da parte dello stato (vedi in Italia registratori di cassa, rottamazioni, opere pubbliche etc. etc.) per il "bene comune".

Altro bel passaggio a questo proposito: "Coloro che fanno affari illegali, come la vendita senza licenza di vodka e birra, di droga, automobili e armi, attraggono generalmente le organizzazioni criminali. Il resto degli imprenditori cerca di ottenere la protezione dello Stato fornita dagli agenti del fisco, dai servizi di sicurezza federali, dalla polizia etc. Costoro forniscono servizi di qualità più alta e per cifre ragionevoli. Naturalmente essi agiscono a livello non ufficiale" (p. 144). Duro stabilire dove finisca, in questo caso, la "mafia" privata e incominci quella dello Stato. E ancora: "Se qualcuno vuole metterti in ginocchio, è più facile che ti mandi gli ispettori del fisco che non dei malviventi". Ci siamo capiti alla perfezione…

La "normalizzazione" del sistema entro un quadro "legale" sotto controllo delle mafie, pardon… dei legittimi poteri dello stato, non è, naturalmente, un dato scontato, lineare. Vari saggi sottolineano a giusta ragione il carattere tuttora caotico del processo in corso, contrassegnato da forti disfunzioni e anomalie e da un verticale stacco tra settore e settore, regione e regione. Tuttavia, anche considerato che questi scritti risalgono prevalentemente al ’98, e risultano quindi già "invecchiati", si può trarre la conclusione che, con tutte le difficoltà del caso, si cominci a stabilire un certo ordine (più borghese che mai, va da sé), come testimoniato dagli indici economici ufficiali che registrano segni di crescita (senza considerare l’economia "grigia" non ufficialmente contabilizzata e che pesa, eccome!, al momento) e dalla composizione merceologica della produzione, sempre meno vincolata alla pura "svendita" delle materie prime e, invece, crescentemente orientata verso una manifattura che sa anche esportarsi (a cominciare dai prodotti bellici della cui esportazione russa si lamentano qui, in quanto "criminale", coloro che neppure avvertono la gragnuola di bombe lasciate piovere dal cielo dal democratico Occidente). In ogni caso già nel ’97 "a differenza di tutti gli anni precedenti la quota dei settori manifatturieri nella struttura della produzione industriale non ha praticamente subito flessioni e anzi, nel secondo e terzo trimestre del ’97, essi hanno avuto una crescita più sostenuta di quelli estrattivi" (p. 172) e "venuto meno il controllo centralizzato sull’economia, si sono avviati spontaneamente processi di avvicinamento a proporzioni e assetti tipici di una società postmoderna. Così la quota dei servizi è aumentata dal 37% del PIL nell’80 al 51% nel ’96… è continuata una crescita sostenuta degli indici di motorizzazione e di telefonizzazione… Da 33,3 apparecchi telefonici e 21 automobili ogni 100 famiglie nel ’92 si è passati a 38,5 apparecchi e 26 automobili nel ’94 e altrettanto spinto appare il processo di computerizzazione" (a Mosca c’è un computer ogni 10 famiglie) (pp. 174-5).

Orbene, fatta piazza pulita delle sciocchezze correnti sulla "distruzione dell’economia" causate dai "colpi di mano" a opera di ignoti ai danni delle splendide performances "socialiste" precedenti, quello che a noi sta a cuore è la situazione, entro questo quadro, del proletariato russo. Primo: mai noi identifichiamo il Pil "in generale" con quello che entra nelle tasche dei proletari (perlomeno dai tempi del famoso apologo di Trilussa su "una gallina a testa in media", due a te e zero a me). Secondo: quand’anche all’immediato le tasche dei proletari fossero immediatamente meno vuote (il che -"mediamente"- non è nella Russia di oggi) cercheremmo altrove la conferma della loro "miseria crescente" in senso marxista, portata qui, oggi, al parossismo. Terzo, e di conseguenza: neppure per un attimo smetteremmo di chiamare i proletari alla loro lotta indipendente, non meno di quanto lo facessimo sotto altre epoche.

È un dato di fatto, per ritornare ai dati di fatto, che attualmente solo una ristretta frazione della classe operaia russa ha migliorato le proprie condizioni di vita, mentre la sua stragrande massa si trova minacciata dalla prospettiva di un radicale peggioramento. Quest’ultimo potrebbe anche, come non è, riguardare i proventi dei singoli in massa. Esso consiste soprattutto nella drastica ridefinizione del mercato del lavoro attraverso licenziamenti e ricollocamento a condizioni normative e salariali assai più libere… per il capitale. Non sappiamo se la notizia fattaci pervenire da un gruppo di lavoratori comunisti russi sia vera nei numeri assoluti, ma certamente lo sarà nella sua fisionomia fondamentale: a Mosca un 50% della massa lavoratrice salariata sarebbe attualmente costituita da "immigrati interni" sottopagati e ad un grado estremo di flessibilità obbligata. Chiaro che questa massa pesa sul potere di contrattazione degli altri, è un dramma per i primi come lo è, in prospettiva ravvicinata, per i secondi. Inoltre, la ristrutturazione nelle pletoriche grandi aziende ereditate dal passato fatalmente riduce il numero, e con esso il potenziale contrattuale, dei dipendenti. Lo sappiamo bene. E proprio questo implica la necessità, più che mai maggiore, di un’autonoma organizzazione antagonista di classe. Per ritornare indietro, allo stato di clientes del potere economico, sociale e politico "socialista"? No, per andare avanti, dismettendo tale precedente stato, per riscattarsi come classe.

A che punto siamo sotto questo riguardo?

Non disponiamo, a tutt’oggi, di un sufficiente inventario di dati in materia, ma, forse meglio che in passato, quando eravamo costretti a formulare delle semplici ipotesi di massima, abbiamo qualche cosa di più tra le mani. Che, innanzitutto, ci conferma che il proletariato russo non è assente né, per esprimersi, si limita a passare attraverso il filtro elettorale (anche perché, come altra volta abbiam visto, il personale di Zjuganov può sì distinguersi per demagogia populista, ma non è meno di quello dei concorrenti legato all’arrembaggio al potere economico e, all’occorrenza, sa anche ricorrere, al pari degli altri, alla forza pubblica, all’"ordine" per disciplinare una massa che "esagera" e attenta alla… proprietà legale -la propria-). Uno dei saggi del libro qui preso in esame illustra egregiamente la situazione in proposito in connessione coi dati materiali di partenza. In Russia, vi si fa notare, i rapporti tra salariato e potere sono ben lungi dall’esaurirsi immediatamente al luogo fisico aziendale. L’intreccio è molto più ampio: la singola azienda agisce su scala territoriale più ampia, è coinvolta in tutto un gioco di previdenze sociali per le maestranze e i "cittadini" della regione operativa in generale, dalle assicurazioni dei lavoratori alle vacanze, all’intervento sull’habitat territoriale, all’istruzione… La "centralizzazione assoluta" stalinista aveva bisogno di questa mediazione a scala locale come cinghia di trasmissione tra proletari, popolazione e (lontano) potere centrale. "In Russia è impossibile lavorare nell’ambito dell’impresa senza preoccuparsi dei singoli individui. In altre parole un posto di lavoro dipendente significa in Russia qualcosa di più di un semplice posto dove una persona, uomo o donna, si guadagna da vivere… Ogni società fornisce beni previdenziali. Molte imprese russe mantengono ancora grandi strutture sociali; di fatto, più una società privatizzata russa si trova in una situazione florida, più numerosi sono i suoi sforzi di garantirle e svilupparle" (p. 202). A Niznij Novgorod "gli stabilimenti offrono impiego direttamente a 101.000 persone, altre 250.000 dipendono dalla sua attività, che nel complesso coinvolge un quinto della popolazione… Le tasse pagate dall’impresa ammontano al 60% delle entrate fiscali della città e al 40% di quelle dell’oblast (distretto)" (p. 203). Questo fenomeno non è nuovo né solo russo (pensiamo a esperimenti datisi anche in Italia, con un Marzotto, in veste di supplenza dello stato e di controllo globale della forza-lavoro attraverso un’estensione territoriale dell’intervento "sociale" dell’azienda). L’importante è che, nel momento in cui le singole aziende mal sopportano queste spese sociali aggiuntive e si lamentano, ad esempio, che "l’industria automobilistica costituisce una città nella città per cui non è possibile licenziare la gente" (p. 203) e tenderebbe a scaricarne i costi sullo stato (tuttora impreparato alla bisogna), la lotta per la difesa di queste garanzie da parte dei proletari diventa suscettibile -parliamo di possibilità…- di darsi in maniera antagonista alle "leggi ottimali" del capitalismo e, con ciò, di promuoverne un protagonismo e una trascrescenza politica. Una cosa è l’"elargizione" dall’alto dettata da esigenze di controllo in via di smantellamento da parte del potere, un’altra la rivendicazione che la merce-lavoro pone al mercato dei limiti "contruattalistici". Non siamo alla rivoluzione, ma è qualcosa. È notorio che i licenziamenti in Russia, ad esempio, procedono molto meno speditamente di quello che i singoli padroni auspicherebbero. Perché? Perché, contrariamente alle "analisi" di tipo Fmi che, sulla base delle astratte esigenze di ristrutturazione, prevedevano la drastica messa sul lastrico di milioni di "eccedenti", questi ultimi hanno fatto sbarramento. In alcune situazioni occupando persino militarmente le fabbriche e imponendo in armi un deciso dietro-front alle dirigenze "liberiste" con tutti i calcoli precisi a propria disposizione salvo quello sulla resistenza operaia.

La rivendicazione da parte operaia di una qualche forma di "proprio potere" sull’azienda ha, inoltre, in queste condizioni, il vantaggio di rappresentare interessi assai più vasti, della popolazione in genere, del territorio. In altre situazioni consimili, tipo Jugoslavia, ciò non è bastato a produrre un salto di qualità nella lotta del proletariato perché, lì, il progresso delle "libere leggi di mercato" aveva già minato dall’interno l’autogestione e si era già costituita una vasta rete svincolata da essa di strati borghesi "indipendenti". In Russia, da questo punto di vista, siamo più capitalisticamente in arretrato, ma è proprio la combinazione tra una situazione più compatta, meno degradata, del proletariato e un’urgenza a maggior ragione più forte delle "libere" esigenze capitaliste, interne e internazionali, che può (e torniamo a ripetere: può) produrre un "salto" nella lotta.

La conferma di quanto diciamo la troviamo anche in un recente saggio de Le Monde Diplomatique (ed. italiana, aprile 2001). Esaminando la "nuova Russia vista dal basso" attraverso l’esempio di Astrakhan, Karine Clément, pur non rinunciando a dare del locale proletariato un quadro a tinte fosche, quasi di "popolo miserabile, massa quasi animale", secondo un cliché d’obbligo a uso propagandistico anti-russo, non può fare a meno di registrare esempi concreti di solidarietà e lotta proprio nei termini sovraesposti. Ci basta riportare dal suo pezzo le semplici parole di un giovane operaio entrato nelle lotte del ’98 ed educato da esse: "Ho visto come la gente si dava da fare, quello che succedeva nella fabbrica, gli imbrogli della direzione. Allora mi sono detto che forse valeva la pena fare qualcosa. Altrimenti non avremmo ottenuto nulla. Cosa dobbiamo temere? La polizia? Perché avere paura? Certo ci sono stati dei casi di violenza. Qualcuno del sindacato è stato ucciso in città. Alcuni di noi sono stati picchiati dai poliziotti durante i comizi. Non solo gli uomini, ma anche le donne! Ma quando si è numerosi, la polizia si ferma". Quando si è forti ci si incoccia col potere e le sue leggi liberal, ma si è anche in grado di imparare dove e cosa effettivamente sia il potere reale e a contrastarlo, a batterlo. A darsi -nei modi e coi tempi che ci saranno necessari- un partito.

Semplicissime, splendide parole che segnano un inizio. Solo un inizio, ma un inizio!