Storia e teoria |
In questa rubrica di recensioni librarie presentiamo tre libri che si rifanno alla tradizione della Sinistra Comunista "italiana" e che, ognuno a suo modo e a seconda del suo tema, si presentano quali strumenti estremamente utili per ricucire il filo di una documentazione e di una riflessione storiche su un passato più che mai attuale.
Il primo, Lenin -Il laboratorio della strategia comunista (Salerno, Janus Edizioni, 1992), è firmato da Alfredo Carrella. Gli altri due, La guerra di Spagna e La sinistra russa e lo stalinismo, sono raccolte di documenti d’epoca (il primo è del 2000, il secondo di due anni precedente, entrambi usciti ad Avellino a cura di Antonio Schiavo editore). Data per scontata la scarsa reperibilità nelle librerie invase dal merdume corrente, indichiamo ai nostri lettori il modo per tentare di procurarseli: il libro del Carrella può, forse, essere richiesto direttamente all’autore (v. Balzico, 9 - 84100 Salerno); gli altri due all’editore (v. Monticchio, 10 - Ariano Irpino - Avellino).
Il lavoro del Carrella, con cui ci scusiamo per l’incredibile ritardo accumulato in attesa di recensirlo come pensavamo in altra sede ed in maniera più articolata, si presenta come una "summa" del pensiero e dell’azione politica di Lenin, considerata come la vetta più alta della continuazione e dello sviluppo del marxismo classico, e si svolge per ben 470 densissime pagine articolate sui temi seguenti: Rivoluzione della scienza e scienza della rivoluzione, I rapporti di produzione nella Russia pre-rivoluzionaria, Strategia e partito, La tattica bolscevica nella rivoluzione democratico-borghese, Imperialismo, Guerra e socialdemocrazia, Affinamenti tattico-strategici nel 1917, Sviluppo della struttura economica capitalista e politica proletaria dal ’17 al ’23, L’Internazionale Comunista, con un’appendice di testi bolscevichi e le Tesi del II Congresso del PCd’I (1922) sulla tattica del partito comunista riportate come esempio dei necessari "paletti" proposti dalla Sinistra italiana contro gli incipienti pericoli opportunisti manifestantisi nell’IC.
A qualcuno potrà parere che questo lavoro sia troppo "scolastico", nel senso che l’autore tenta in esso "semplicemente" di riordinare e riformulare le posizioni fondamentali di Lenin alla lettera, per così dire. E questa è proprio l’intenzione dell’autore che, rifacendosi ad un passaggio dello stesso Lenin di Stato e rivoluzione, sottolinea che "così stando le cose, e dato che le deformazioni del marxismo si sono diffuse in modo inaudito, compito nostro è, innanzitutto, ristabilire la vera dottrina" del marxista Lenin, in questo caso. Ristabilire e cioè ripetere fedelmente ciò che si è inventariato come lascito nostro definitivo. Questo compito è, ci pare, egregiamente assolto e ne vien fuori limpidamente, per riprendere il titolo di una serietta passata, quel che veramente ha detto Lenin. Il tutto coerentemente rivendicato alla lettera e nel contenuto, più che mai attuale.
Non sta certo qui, a nostro modo di vedere, un suo limite. Casomai, se ci è permesso, un limite si incontra nell’ultima parte del libro, allorché vengono prese in esame le questioni del dopo-rivoluzione. In particolare, la questione dello stato sovietico, del rapporto stato-partito-masse, della prospettiva internazionalista del partito -dell’IC- sono, ci pare, ridotte alle precedenti formulazioni teoriche "generali" di principio. Col che si finisce per smarrire, in una qualche misura, la battaglia dell’ultimo Lenin per riaffermare tali formulazioni nel vivo di una battaglia concreta non di "astratte" idee sul tema, ma tra forze politiche e sociali in via di divaricazione e contrapposizione tra loro. Un conto, insomma, è lo "schema" di Stato e rivoluzione, un altro la sua materializzazione pratica in una situazione di isolamento ed inizio di (irreversibile, come si vedrà poi) degenerazione di tutti gli strumenti attraverso i quali il potere "sovietico" veniva concretamente esercitato, dapprima in modo deformato e poi, via via, in controsenso con la linea e le prospettive di partenza.
Non che questo tema venga del tutto trascurato, ma l’accento è messo al suo riguardo prevalentemente sulle questioni di "tattica" del partito, considerate, tra l’altro, come un’arena di discussioni "ideologiche", in certa misura librate al di sopra ed al di fuori del vivo terreno di scontro tra le forze materiali ad esse sottostanti: una cosa un po’ diversa dal concreto atteggiamento di Lenin in tale battaglia, ad onta dell’"occasionalità" e frammentarietà a cui la sua malattia (nella quale non vediamo certamente la "causa" del patatrac successivo!) lo condannava. Sarebbe troppo chiedere persino all’ultima battaglia di Lenin una chiave completa di lettura di ciò che stava avvenendo e sarebbe poi avvenuto, tantomeno la soluzione "dottrinaria" del busillis, ma, al di là della doverosa contrapposizione allo stalinismo, ne andrebbero studiate tutte le implicazioni, che neppure la sinistra russa seppe, a tempo e sino in fondo, cogliere e di cui, a nostro sommesso avviso, la stessa sinistra italiana ebbe una ricezione parziale, insufficiente. Insufficiente non a "porre dei paletti" teorico-programmatici, ma a tradurli in azione politica conseguente. Non per raddrizzare all’immediato una situazione compromessa, ma ad intenderne onnilateralmente il significato per predisporsi ad una azione difensiva di partito, pur nella ritirata generale d’obbligo e pur nella (giusta) previsione di tempi lunghissimi per la ripresa. Concludere che la sinistra italiana sia stata l’"unico erede del bolscevismo" è affermazione troppo generica, troppo ritagliata sull’"ideologia", e non tien conto esatto delle ragioni profonde di una catastrofe in cui noi tutti ci abbiam rimesso provvisoriamente le penne non solo in forza dell’avversa oggettività, ma di una immaturità soggettiva dell’insieme del movimento comunista internazionale con cui tuttora dobbiamo fare i conti complessivi. Non si riparte verso il futuro al di fuori dell’insegnamento di Lenin, della sinistra russa e di quella italiana, e, per certi versi, soprattutto di quest’ultima, ma è altrettanto indubbio per noi che la linea di frattura nella continuità del movimento comunista ha qualcosa a che fare con dei problemi che lo riguardano dall’interno, anche nei suoi punti più alti: la rivoluzione comunista critica continuamente sé stessa diceva Marx e questo compito deve, per quanto ci riguarda, tuttora essere risolto. Il manuale leninista del Carrella costituisce un buon strumento propedeutico a tale scopo. Nulla di meno, nulla di più, come -crediamo- dovrebbe esser logico non solo per noi, ma per lo stesso autore di questo utilissimo libro.
La Sinistra russa e lo stalinismo raccoglie i discorsi di Zinov’ev, Trotzkij e Kamen’ev alla Settima Sessione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista del dicembre ’26. Si tratta dell’ultima e più alta rivendicazione unitaria dell’Opposizione di Sinistra russa dei principi dell’internazionalismo comunista contro la teoria del "socialismo in un solo paese" oramai trionfante all’interno del PCb e, di conseguenza, dell’intera IC. Sono tre discorsi tutti egualmente vibranti e concordi nella difesa della sola trincea comunista rimasta provvisoriamente in piedi pur nella sconfitta; una sorta di monumento "a futura memoria" nella prospettiva di un rovesciamento a venire della deriva stalinista in un mutato quadro, oggettivo e soggettivo, di rapporti internazionali di forza tra le classi. Le questioni di principio vi sono ribadite in maniera impeccabile e senza mediazioni e cedimenti opportunisti alcuno, incuranti tutti e tre i relatori di venir schiacciati in un angolo tra insulti ed irrisioni da parte, magari, di "rivoluzionari" di un calibro di… Togliatti.
Questo è certo, e un’attenta rilettura dei tre discorsi non potrà che apportare ai compagni sempre nuovi e vivi materiali di riflessione ed approfondimento. Di questo non si discute. Tuttavia, noi vorremmo qui suggerire anche alcuni altri motivi di riflessione che dovrebbero scaturire da tale rilettura a tre quarti di secolo di distanza sui limiti stessi di quell’Opposizione. Non per farne una critica a posteriori molto facile e banale, presupponendo per l’allora chissà quali altri possibili scenari (inesistenti), ma per ragionare autocriticamente sull’insieme del percorso storico del movimento comunista internazionale da cui materialmente deriviamo e che spetta a noi stessi prendere in mano, difendere, sviluppare e, all’occorrenza, riplasmare.
C’è, nei tre discorsi, una "stonatura" che si avverte subito: la difesa delle posizioni internazionaliste di principio (non solo sulla questione della rivoluzione mondiale, ma sul senso stesso del termine socialismo, come nel discorso di Trotzkij, forse più inequivoco qui che in passaggi successivi) avviene in una sorta di vuoto, in mezzo ad una platea insofferente e addirittura furente di termidoriani pronti a drizzare la forca per gli scomodi estranei comunisti. A chi ci si rivolge? Ad un muro di gomma, che sarà poi di piombo, sordo ad ogni richiamo "ideologico". Questo perché, evidentemente, la deviazione ideologica si era già consumata sulla base di una materiale deviazione sociale di partenza. Le due lingue non s’intendono perché tra di esse c’è un abisso materiale, per l’appunto, che le separa quanto a base sociale, interessi economici, prospettive politiche conseguenti. Il campanello d’allarme sul "pericolo di deviazione di destra" nel partito suona, allora, troppo debole, non vede e non dichiara nettamente la portata del rovesciamento avvenuto e non ne prospetta una conseguente via d’uscita. In una situazione storica tuttora apparentemente "fluida" in doppio senso (verso la ripresa rivoluzionaria o la controrivoluzione) ed a così breve distanza di tempo dalla vittoria dell’Ottobre e dall’effervescenza comunista europea sino ai primi anni venti era sicuramente impossibile andare molto oltre perché non si trattava di "indovinare" dove si sarebbe (fatalmente?) andati a finire, ma di combattere su trincee tuttora "aperte" (come si immaginava lo stesso Bordiga nella lettera a Korsch). Resta, tuttavia, un interrogativo.
A chi rivolgersi per "raddrizzare" una situazione già in corsa lungo il burrone controrivoluzionario? Tutti e tre i relatori dell’Opposizione ne fanno essenzialmente un problema interno al partito e, in questo, la forma partito finisce per assumere un valore quasi in sé e per sé assoluto, astratto, metafisico. Lo stesso Trotzkij "rivendica" la precedente dichiarazione del CC del PCb "assolutamente unanime nel riconoscere che è indesiderabile portare la discussione della questione russa in seno all’IC" (appello apertamente disatteso dal solo Bordiga) e tutti e tre gli esponenti dell’Opposizione si devono piegare a continue manifestazioni "di principio" contro il pericolo frazionista. "Da parte mia non viene fatto alcun appello all’IC contro le decisioni del mio partito. Io mi sottometto a queste decisioni", perché "la dittatura del proletariato è concepibile realmente solo nella forma della dittatura della sua avanguarida, cioè del partito" ed "io lotterò con tutti i mezzi a mia disposizione contro anche la minima tendenza dei due partiti", dirà Zinov’ev. "Noi faremo di tutto perché i concetti che esprimiamo non spingano i compagni che simpatizzano con noi sulla via della lotta di frazione, ma, al contrario, li spingano a rinunciare al frazionismo", dirà Trotzkij. E Kamenev: "Colui che tenterà di formare un proprio "partito" verrà spinto inevitabilmente in contrasto con l’IC e l’Unione Sovietica, e respinto entro brevissimo tempo nel campo dei loro nemici, quali che siano le sue intenzioni e desideri soggettivi". Tutto dentro il partito, nulla fuori e contro di esso. Ma quale partito? La nozione storica di partito non si lascia imbrigliare in una formula astratta. Difendere realmente il partito in senso storico aveva già precedentemente imposto ai bolscevichi e a chi con essi di rompere con un determinato formalismo "assodato", quello della Seconda Internazionale. Il corso storico apertosi col trionfo dello stalinismo imponeva di fatto un’analoga rottura in direzione non di un "secondo", ma di un altro partito. Compito rispetto al quale capitoleranno poi Zinov’ev e Kamen’ev ed al quale cercherà di dare una risposta, largamente insufficiente, il solo Trotzkij esiliato e "disarmato", per dirla con Deutscher. In questo ha giocato negativamente quella che abbiamo definito come ipostatizzazione formale del Partito.
In seguito Trotzkij adotterà la formula della legittimità "democratica" nel corso della dittatura proletaria di più "partiti sovietici", con un rovesciamento di posizione rispetto alle rivendicazioni monopartitiste di cui sopra. In questo caso, però, non dissimilmente dal precedente, interveniva un altro formalismo, quello, per l’appunto, "democratico", a correzione del dittatorialismo "antidemocratico" stalinista. Problema aggirato e non risolto, o risolto in negativo, perché la dittatura stalinista era esecrabile non per la sua forma monopartito, ora sconfessata (in contraddizione col discorso del ’26 che addirittura prende in castagna Stalin per sue precedenti tendenze… demo-pluripartitiste), ma per il suo contenuto economico, politico e sociale controrivoluzionario. Il problema vero, altrimenti affrontato da Lenin, sta nei termini del rapporto organico tra partito e masse, nella dialettica indissociabile tra avanguardia e movimento sociale del proletariato per cui la dittatura concentrata in un solo partito non è mai un elemento di partenza dato di per sé, un precetto "ideologico", ma il punto d’arrivo di un’osmosi continua tra quel certo partito che realmente riesce ad essere storicamente ed effettualmente tale e l’attività crescente, in prima persona, delle masse che non solo "aderisce", ma alimenta e, se del caso, persino "controlla" e condiziona il partito formale. Nessuna superstizione astratta di partito vi è in Lenin, così come non vi è alcuna contro-superstizione correttiva quanto ai "diritti democratici" del movimento e della "libera espressione" di un possibile pluripartitismo sovietico, ma un giusto rapporto dialettico concreto partito-masse. Osiamo suggerire che un più attento esame delle battaglie dell’ultimo Lenin mostrerebbe di quanto le sue posizioni fossero più organicamente avanti della stessa, pur splendida, battaglia del blocco dell’Opposizione di sinistra del ’26 e su questo ci proponiamo davvero di svolgere un lavoro in profondità.
Il corto circuito "partitista" si evidenzia qui, pur attraverso una magnifica battaglia di difesa dei principi, nella constatazione che in nessuno dei tre interventi dell’Opposizione figurano in primo piano la situazione concreta delle masse, i loro interessi portati avanti in prima persona, il loro (possibile o meno) protagonismo. "Perché non ci si appellò al proletariato?", si chiedeva Bordiga nella Struttura, e rispondeva: "Quanto al demandare il giudizio sul grave tema storico ad una consultazione non della massa del partito ma di quella del proletariato mondiale, tale proposta apparentemente ovvia non ha alcun fondamentale contenuto", e questo è giusto rispetto ad uno schema, sempre formalistico, di tipo "consiliarista", ma, anche qui, il problema non è quello "consultivo", giuridico, bensì quello leninista di un giusto, dialettico rapporto partito-massa, al di fuori del quale nessuna sede è utilmente "consultabile" ai nostri fini: è vano appellarsi alle masse in antitesi o a parte del partito così come è vero il contrario ove l’uno e le altre (l’uno con le altre) corrano in controsenso, e per converso la ripresa non può che essere insieme nel e del partito e nelle e delle masse, pur senza alcuna confusione e sovrapposizione tra i due termini. Potremmo tranquillamente rovesciare la frase di cui sopra nel suo "opposto" e concludere, con pari ragione, che "demandare il giudizio ad una consultazione non del proletariato mondiale ma della massa del partito non ha alcun fondamentale contenuto".
In uno splendido passaggio del suo discorso Zinov’ev annota: "La dittatura proletaria non può accettare l’esistenza di altri partiti. La posizione di monopolio del nostro partito è assolutamente necessaria. Ma è impossibile non vedere che (essa) ha anche i suoi lati negativi (in quanto) ha come effetto che notevoli gruppi di funzionari politici (e non solo, n.n.) che in altre circostanze sarebbero con i menscevichi e con i socialrivoluzionari si avvicinano adesso irresistibilmente al nostro partito, lo accerchiano o semplicemente vi entrano e quindi vi portano dentro stati d’animo e concezioni (ed una macchina di interessi "rappresentati", n.n.) non bolsceviche" (p. 28). Questa preoccupazione, a ben vedere, non è molto distante da quelle avanzate, non sempre in modo ineccepibile, dalla Luxemburg con la sua messa in guardia contro un formalismo "monopolista" di partito pericoloso non perché la dittatura proletaria abbia "diritto" a "più anime" democraticamente rappresentate, ma per il suo friabile carattere "giacobino" staccato dall’"autoattività" -concludente nel suo unico partito- delle masse stesse. Tale "autoattività" non è indipendente dal partito, ma, a determinate condizioni, si riassume dialetticamente in esso. Non esiste "di per sé", come "di per sé" non può esistere un’"autoattività del partito". Non si tratta, ripetiamolo, di "diritti" formali da statuire e rispettare giuridicamente, ma di un movimento dialettico, ripetiamolo pure!, che costituisce il contenuto stesso della trasformazione socialista della società.
La guerra di Spagna raccoglie documenti del periodo 1933-’37 della Frazione italiana e belga della Sinistra Comunista Internazionale, della minoranza della Lega dei Comunisti Internazionalisti del Belgio e del Gruppo di Lavoratori Marxisti del Messico, vale a dire di quella ristretta minoranza di comunisti rivoluzionari legati in partenza o pervenuti alla tradizione della sinistra italiana (cosiddetta "bordighista", tanto per esemplificare) procedendo da una critica interna al "trotzkismo" che seppero coerentemente opporsi alla consegna "interventista" in Spagna alla coda, volenti o nolenti, del Fronte Popolare per poi, magari, ritrovarsi schiacciati all’interno di esso dall’"epurazione" stalinista. Senza, con ciò, assumere alcun atteggiamento "astensionista" rispetto alla lotta proletaria in corso.
Bene scriveva Bilan (n° 33, luglio-agosto ’36, qui a pag. 39): noi "qui non affermiamo una tesi che, per essere didattica e scolastica, sarebbe una incommensurabile stupidità" e cioè "che il proletariato non può intervenire in quanto classe nella situazione perché prima un gruppo di teorici non avrebbe compilato un programma di architettura completa e impeccabile. Sappiamo benissimo che, quasi sempre, le masse si pongono in lotta dietro capi che non portano la bandiera delle loro rivendicazioni immediate e storiche e che è in seguito, nel corso stesso del movimento, che si opera la selezione e il proletariato giunge a raggrupparsi attorno all’avanguardia cosciente, che può brandire il programma della rivoluzione comunista solo perché i lavoratori stessi sono portati, dalla situazione, ad acquisire la coscienza del proprio ruolo storico". Si trattava, e si tratta sempre, però, di stabilire quali siano le condizioni reali, oggettive e soggettive, su cui l’avanguardia comunista può e deve lavorare e le direttive di un tale lavoro.
Orbene, le generose fiammate di classe del proletariato spagnolo potevano essere preservate ed estese sino al loro esito rivoluzionario alla sola condizione che l’avanguardia comunista non si facesse prendere nel laccio del "fronte popolare", della "democrazia", dell’intruppamento, politico-sociale e poi anche militare, nello schieramento armato di stato della borghesia cosiddetta "progressista" spagnola e, parallelamente, che la solidarietà comunista rivoluzionaria si mostrasse, negli altri paesi, ponendosi su questo stesso terreno di lotta. La direttiva comunista era: no alla trasformazione della guerra sociale spagnola in guerra civile tra fronte borghese fascista ed antifascista; indipendenza programmatica, politica ed organizzativa del proletariato e fraternizzazione di classe oltre e contro le barricate segnate dai due contrapposti fronti borghesi; appoggio proletario internazionale attraverso la rottura piena ed ovunque con le forze dello stalinismo e della socialdemocrazia e l’union sacrée a pretesa "antifascista" convogliata entro le maglie dello stato. Una volta infranta questa direttiva, l’insorgenza spagnola veniva non solo fatalmente consegnata alla direzione di una sua frazione borghese nazionale per esserne imbrigliata e soffocata (anche, ed abbondantemente, nel sangue dei suoi migliori figli fatto scorrere proprio dalla democrazia fronte-popolarista per ristabilire l’"ordine" necessario per… sconfiggere il fascismo), ma violentemente rovesciata sul terreno dello scontro inter-imperialista mondiale, con la Spagna quale campo di prova della successiva guerra mondiale e della subordinazione ad essa dei rispettivi "plotoni nazionali" proletari.
Ancora Bilan: "La lotta armata sul fronte imperialista è la tomba del proletariato. Bisogna opporvi la lotta armata sul terreno sociale (…) l’attacco contro la macchina statale, ed è solo da questo attacco che può risultare la disgregazione dei reggimenti della destra, solo così il piano del capitalismo spagnolo e internazionale potrà essere spezzato, altrimenti, con o senza il Comitato di coordinamento composto di fascisti, democratici e centristi (tutti i paesi importanti sono rappresentati), è l’orgia capitalista che trionfa e i mercanti d’armi di Francia, Inghilterra, Germania, Italia e dello stesso stato sovietico consegneranno munizioni ai due stati maggiori, quelli di Franco e Caballero, per massacrare gli operai e i contadini spagnoli" (n° 34, agosto- sett. ’36).
Si sottovaluta qui il fascismo e le sue differenze (non di natura borghese, che è una –diceva Trotzkij-, ma di rapporto tra una forma borghese e l’altra rispetto al proletariato) con la democrazia? Si vuole qui, di conseguenza, negare la necessità di battersi contro i Mussolini, gli Hitler, i Franco? È vero il contrario. La questione è che i fascismi si battono sul fronte di classe o altrimenti, alla coda di questo o quello schieramento "progressista", si perde due volte. Non lo mostra solo l’esempio spagnolo, ma quello tedesco nel ’33 e quello italiano conclusosi nel ’22 e la sua replica, apparentemente rovesciata di segno, del ’45 partigiano: "sconfitta del fascismo" (nazionale) determinata dagli schieramenti militari alleati demo-stalinisti pagata con l’intruppamento di sane energie proletarie sul fronte della guerra imperialista… degli altri come cauzione dell’ordine capitalista (nazionale) a venire e, soprattutto, di quello internazionale del "super-fascismo democratico" atlantico che oggi schiavizza e massacra liberamente in tutto il mondo. Anche in quest’ultimo caso: "vittoria antifascista" o tomba del proletariato?
Si può, naturalmente, discutere di certe "rigidità" ed "astrattezze" delle sopra ricordate frazioni comuniste internazionaliste nello svolgere il loro lavoro di orientamento e direzione delle pur esistenti, e da esse stesse riconosciute, spinte di classe, in Spagna e fuori, purché non si smarrisca mai questo quadro d’insieme. Il dibattito e la spaccatura apertisi nella stessa frazione italiana attraverso una posizione di minoranza orientata verso un "intervento diretto" della frazione in Spagna manifestano l’esistenza di un tale problema, forse non del tutto adeguatamente risolto dalla maggioranza "ortodossa", ma certamente da essa impostato sulle sole sue basi coerenti (stesso problema ripresentatosi nel corso della lotta partigiana in Italia nel corso della seconda guerra mondiale).
A questa stregua, la posizione "interventista" di Trotzkij –che sarà utile raffrontare con quelle della sinistra italiana, e non solo- brilla certamente per "duttilità" ed (apparente) dialettica, ma, a ben vedere, nonostante tutti i suoi fermi richiami di principio, finisce per apparire come un irrisolto, perché irrisolubile, tentativo di escamotage rispetto ai compiti di riorientamento internazionalista rivoluzionario dell’avanguardia comunista basato sulla superstizione che questo potesse dipendere da un esasperato attivismo "nella lotta concreta", di per sé, ed entro i (superati nei fatti) confini nazionali spagnoli, capace di "trascrescere" in rivoluzione comunista… in un paese solo. (Questo, sia detto, con tutto il rispetto nei confronti di un Trotzkij, critico implacabile di principio delle arrendevolezze dei suoi stessi referenti locali, tipo Poum, ma non al punto di vedere come tali arrendevolezze altro non fossero che la logica conseguenza di un punto di partenza fasullo).