Lo sciopero dei metalmeccanici del 18 maggio è riuscito quasi dappertutto, con una buona partecipazione anche alle manifestazioni, al Nord come al Sud. Nei cortei si sono visti, finalmente, giovani operai delle medie e piccole fabbriche e donne. Importante anche il primo affacciarsi alla lotta di settori di lavoratori della new economy. Dopo mesi di balletti tra le "parti sociali", con un sindacato restìo a prendere atto della necessità della mobilitazione di fronte al muro padronale, la vertenza sembra partita. Il "sembra" è d’obbligo, perché la volontà dei sindacati è di cogliere la minima disponibilità della controparte a chiudere, anche a costo di qualche ulteriore cedimento, e non si può escludere che anche Federmeccanica accetti di siglare un compromesso, rimandando al nuovo governo l’obiettivo di un maggiore sfondamento ai danni della contrattazione collettiva, magari per via devolution. Una chiusura ottenuta con pochi sforzi, anche se con risultati non del tutto soddisfacenti, potrebbe apparire accettabile ai lavoratori in nome di quel "realismo operaio" lungamente educato a far di conto tra risultati "portati a casa" e colpi evitati. Mai come ora, invece, sarebbe negativo limitarsi a questo conticino, perché i colpi sarebbero solo rimandati, e lo sarebbero, anche in virtù di una simile conclusione, in un quadro di rapporti di forza crescentemente a favore dell’avversario. Ciò è davvero in discussione, nel contratto e oltre: non solo un aumento salariale, ma con quale tenuta organizzativa, politica e sindacale, il proletariato affronta un’aggressione senza sosta.
Tra i lavoratori è emersa una certa disponibilità a battersi determinata -nonostante cinque anni di passività e intorpidimento- dal progressivo, ma netto peggioramento della condizione in fabbrica e dalla perdita di potere d’acquisto dei salari (per ora "compensata" dall’allungamento degli orari) così come dall’estendersi della precarietà e del senso d’incertezza per il futuro. È vero che finora la vecchia e la nuova generazione operaia hanno risposto in maniera differente a tutto ciò, la prima pensando di esserne toccata solo marginalmente, la seconda facendo virtù della necessità di dover cambiare in continuazione attività o cercando nel lavoro una maggiore -quanto illusoria- realizzazione personale. I fatti però dimostrano che "garanzie" non ce n’è più per nessuno e che la precarietà non prelude a nessun miglioramento o maggiore soddisfazione sul lavoro. Fa capolino, insomma, la consapevolezza che le condizioni peggiorano per tutti, che nessuno può salvarsi da solo nei flutti del mercato. È da qui che si tratta di ripartire per impostare una vera battaglia per il contratto!
L’atteggiamento del padronato del resto è chiarissimo, ed esce rafforzato dal risultato elettorale. Il no alle più che modeste richieste sindacali di aumenti contrattuali (135mila lire lorde per un quinto livello) è secco, l’unico parametro accettato è quello dell’inflazione programmata (1,7 e 1,2% per quest’anno e per il successivo, per un totale di 85mila lire!). Del resto, dicono i padroni, a cosa sarebbe servita la cancellazione della scala mobile, sancita dall’accordo del luglio ’93, se si volessero nuovamente adeguare i salari all’inflazione reale? Non solo. Il presidente di Confindustria D’Amato -all’indomani dello sciopero- ha ribadito punto per punto il programma complessivo del padronato: fisco più leggero per le aziende e nuovi sgravi (in nome -faccia tosta incredibile- della "lotta al sommerso"), tagli alle pensioni (riforma "non rinviabile"), possibilità di licenziare e ulteriore flessibilizzazione del lavoro, contenimento dei salari e abolizione della contrattazione nazionale. Per questo ha chiesto esplicitamente a Berlusconi "scelte anche impopolari". E il nuovo capo del governo ha risposto altrettanto chiaramente rivendicando a sè l’onore e l’onere (si fa per dire) di tali scelte.
La vertenza metalmeccanici, lo si voglia o meno, si inserisce in questo quadro. Un quadro di attacco complessivo al proletariato, che trattiamo negli articoli sulla situazione italiana. Lo scontro che si prospetta è davvero a tutto campo e richiama la scesa in campo dell’insieme dei lavoratori.
Gli operai hanno scioperato innanzi tutto contro l’intransigenza padronale sul salario. Molti sono seriamente preoccupati per la tenuta stessa del contratto nazionale e anche per quanto si prepara col governo Berlusconi, al quale hanno inviato un timido segnale dal tenore "ci siamo, dovrai tener conto di noi". Certo, non è la stessa cosa di un combattivo avvertimento; del resto ciò fa il paio con l’illusione di poter ottenere un recupero salariale "pulito" (senza, cioè, ulteriori scambi in termini di flessibilità) rimanendo all’interno dell’impostazione sindacale. Il fatto è che questa impostazione non dà alcuna certezza di evitare nuovi "scambi", anzi essa è programmaticamente votata a ricercare scambi tra esigenze operaie e quelle delle aziende, il che vuole invariabilmente dire mettere le seconde innanzi alle prime. Se davvero si vuole, dunque, un recupero "pulito" bisogna battersi contro questa impostazione.
A Genova in massa!Nello stesso giorno dello sciopero per il contratto la Fiom ha organizzato un convegno con sindacati metalmeccanici dell’Europa e del Sud del mondo. Il rappresentante del sindacato coreano parlando della lotta alla Daewoo ha detto: "Vi chiediamo di tenere d’occhio quello che accade nel nostro paese, perché ha conseguenze anche su di voi. E vi diciamo che da soli in Corea non possiamo farcela a tener testa a un nemico che è internazionale, che gioca su tutto lo scacchiere internazionale". È quanto dire, a ragione, che anche le sorti del contratto dei metalmeccanici si decidono a questa scala perché è proprio sull’ineguaglianza della condizione operaia nel mondo che fa leva la borghesia per smantellare anche la condizione dei "più fortunati". Il sindacato di qui sembra prendere atto dagli effetti sempre più evidenti della globalizzazione capitalistica, ma il seguito che dà a ciò è la difesa del modello "europeo" presuntamente alternativo a quello americano. Questa è una spudorata menzogna, il profitto domina incontrastato in Usa come in Europa, e spella sempre più i lavoratori di entrambi i continenti. Non solo, ma contrapporre i "modelli" serve solo ad aiutare i propri padroni europei nella concorrenza con quelli americani e nello scontro per spartirsi le spoglie dell’intero mondo. Ben altra è l’unità internazionale di cui i lavoratori hanno bisogno. Le manifestazioni a Genova contro il vertice del G8 possono essere una prima occasione per cominciare a realizzarla. Lavoriamo, perciò, per promuovere una vera partecipazione di massa, che vada ben al di là delle adesioni formali di Fiom e "sinistra sindacale"! |
Come affronta, infatti, il sindacato l’offensiva di Confindustria? Chiedendo il rispetto dell’accordo del luglio ’93 che consegna alla contrattazione di secondo biennio il recupero dell’eventuale scostamento dall’inflazione reale. Ma quell’accordo non garantisce alcun "quadro contrattuale stabile riconosciuto dalla controparte", come oggi si vede. Ha solo indebolito i lavoratori, portandoli a piegarsi alle esigenze delle imprese, e dunque ad accettare continui arretramenti "contrattati", a rinunciare all’arma della mobilitazione, a ritrovarsi così più divisi e deboli. Questo mentre l’attacco del padronato non s’è fermato, anzi. Per cui ora -con rapporti di forza più favorevoli- è gioco facile per quest’ultimo buttare a mare anche le "regole" (che pure gli sono servite, eccome!, per tutta una fase) e passare alla definitiva deregulation.
Opporsi a ciò richiamandosi, come fa il sindacato, all’accordo di luglio equivale a posizionarsi su una trincea dannosa per i lavoratori (e oltre tutto già scavalcata dai padroni). Non ci si difende dalla frantumazione dei livelli contrattuali attestandosi sulla politica sindacale delle compatibilità, perché proprio in nome di essa si è accettato di far diventare i contratti nazionali una specie di colabrodo con deroghe continue alle stesse tutele collettive. Ora sono proprio le compatibilità capitalistiche a esigere lo smantellamento di ogni residua garanzia contrattuale nazionale.
Che fare allora? Difendere i contratti nazionali? Certo, e con tutte le forze, ma ciò è possibile solo recuperandogli la funzione di difesa effettiva della massa dei lavoratori, e togliendogli quella di essere il paravento di continui cedimenti. La resistenza contro la distruzione della contrattazione nazionale deve, dunque, incardinarsi in una politica di allargamento delle tutele collettive a chi ne è privo (oggi, un numero crescente) e di difesa degli esclusivi interessi di chi lavora contro gli interessi di chi vive del lavoro altrui. L’opposto della politica sindacale di conciliazione tra difesa dei lavoratori e esigenze di rilancio delle imprese che si dimostra sempre più inefficace anche solo a recuperare quello che sembra il "dovuto".
In questo modo, battendosi per una politica che abbia quel respiro generale e di classe, si potranno anche raccogliere e rinforzare quelle reazioni di lotta che si sono avute negli ultimi tempi contro il peggioramento delle condizioni di lavoro: la lotta di resistenza dei lavoratori Zanussi contro la flessibilità (dopo il famigerato "lavoro a chiamata", i nuovi tentativi dell’azienda di disporre unilateralmente delle ferie e dei turni di lavoro); gli scioperi per l’integrativo Fiat e negli stabilimenti di Melfi, Pratola Serra e Cassino contro intimidazioni antisindacali e aumento dei ritmi; la mobilitazione spontanea dello stabilimento delle Carrozzerie di Mirafiori contro il licenziamento su due piedi di 147 giovani contrattisti; la lotta di altre categorie per i contratti, e anche la lotta degli ospedalieri, il cui contratto è stato chiuso, ma che con la loro manifestazione nazionale di maggio hanno dimostrato una significativa combattività e un’opposizione alle politiche di privatizzazione e regionalizzazione della sanità. Nel frattempo, segnali significativi sono venuti anche dalle prime lotte dei giovani assunti in condizioni di precarietà e ricattabilità nei vari MacDonald’s o nelle mille cooperative spuntate come funghi negli ultimi anni grazie alla deregulation del mercato del lavoro accompagnata dalle misure del governo "amico". Anche per convogliare questi fermenti in una lotta generale e unitaria è necessario che tra il proletariato inizi a emergere una politica che ribalti del tutto quella sindacale e della "sinistra" di assoggettamento al mercato e alle "necessità del paese".
Per conquistare le 135mila di aumento (senza cedere sulla già misera cifra, cosa a cui sicuramente si renderà disponibile il sindacato) è necessario, dunque, mettere in campo la nostra forza come classe, e farlo con decisione. Senza una vera battaglia, senza un generale movimento di lotta, non sarà possibile nessun recupero salariale, nessuna tenuta sulla contrattazione nazionale, sulla flessibilità, sull’occupazione, e sarà inevitabile che i lavoratori scivolino sempre di più verso il federalismo, verso un’ulteriore sfilacciamento della rete unitaria di organizzazione, di contrattazione e di lotta.
Di fronte all’intransigenza di Confindustria, anche qualche sindacalista ha parlato di sciopero generale di tutte le categorie coinvolte nei rinnovi contrattuali. Solo parole o vuote minacce, ma, dal punto di vista degli interessi dei lavoratori, il problema è serio. Come passare all’effettiva unificazione dei vari settori di lavoratori per dare una risposta all’altezza dello scontro?
Innanzi tutto non lasciando cadere la mobilitazione, dandole continuità e visibilità nella società e non cedendo di un passo sulle proprie (modeste) richieste salariali e sul rifiuto senza compromessi delle pretese padronali sulla flessibilità. Questa è una condizione essenziale per far vedere che i problemi dei lavoratori metalmeccanici non sono diversi da quelli delle altre categorie e dell’insieme dei lavoratori. Una lotta seria, che dica basta agli arretramenti, anche cominciando da un singolo settore, può risvegliare queste forze oggi sonnecchianti. È allora indispensabile mettere avanti ciò che unisce i lavoratori, come condizione e come obiettivi, e rivolgersi ai lavoratori più ricattabili: gli "atipici", i giovani, i proletari immigrati, le donne, i disoccupati. Il dato, promettente ma non già stabilizzato, dell’avvicinamento di queste categorie al movimento sindacale va valorizzato, e questo è possibile solo mettendo in campo un vero movimento di lotta che sappia unificare intorno ai propri interessi di classe l’intero proletariato.
Per quanto difficile sia oggi questo compito, non sarà possibile stoppare gli arretramenti senza svolgerlo fino in fondo, perché la borghesia, le aziende, il governo usano e useranno la massa dei meno "garantiti" come arma di pressione, appunto, per smantellare le "garanzie" ancora esistenti, mettendo gli uni contro gli altri per opprimere maggiormente tutti e ciascuno (il voto al centro-destra raccolto in questi settori non organizzati di proletari non ne è forse la spia?). Contrapporsi a ciò richiede anche di rompere con il federalismo che -in qualunque veste, sia la devolution del Polo o la versione soft del centro-sinistra che si fa strada perfino nelle strutture sindacali- serve unicamente a differenziare le condizioni materiali e normative dei lavoratori per sbriciolarne la forza lungo derive territoriali e aziendali in cui sarebbero più esposti all’attacco delle controparti. Richiede, infine, una dimensione della lotta che vada oltre i confini nazionali, utilizzando l’occasione del G8 di Genova per tendere a unificare le forze internazionali del proletariato.
Mettere questi primi paletti per unificare il fronte di classe non è altra cosa dal portare avanti la vertenza per il contratto; anzi è l’unico modo per evitare ulteriori arretramenti con l’inevitabile strascico di sfiducia e disorganizzazione che ne seguirebbe.