Ultime dalla (e sulla) Jugoslavia


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Se parliamo ancora di Jugoslavia non è per dire qualcosa di nuovo. Anzi, al di là degli aggiornamenti della cronaca, è sempre la stessa musica che siamo costretti a suonare, monotona e insopportabile per il senso auricolare comune e già imparata a memoria da quei pochissimi o meno pochissimi aficionados marxisti in grado d’intenderla, apprezzarla e ritrasmetterla già dalle prime battute.

Insistiamo a trasmettere per due semplici motivi: il nostro lettore "medio" non è un lettore stabile, ma "occasionale", quello che incontriamo in questa o quella manifestazione o in questo o quel nostro capannello, mentre la quota fissa della nostra "utenza", come si suol dire in marketing style, è tuttora minoritaria; in secondo luogo, ma primissimo per importanza, la questione jugoslava, spentisi i bagliori di guerra, rischia di non trovare più un’adeguata audience (lasciateci sfottere il mercato del consumo informativo!). Nessun dramma oggi, dacché non si sganciano più le bombe in grado di colpire il "consumatore". Ed è l’esatto opposto di quello che noi pensiamo: questa "pace" è la più grande delle carognate immaginabili, è la prosecuzione di una guerra che ci starebbe alle spalle e invece ci è più che mai di fronte, è una guerra ancor più spietata anche se non illuminata dai sinistri bagliori delle bombe. È la "pace" che affama e uccide in Iraq, affama, uccide e schiavizza la Jugoslavia senza "più" bisogno di bombe. Se ne sono dimenticati coloro che, di fronte all’esplodere dei missili "umanitari", avevano avuto dei sussulti di protesta contro il "nostro" coinvolgimento imperialista nell’impresa e, oggi, quando di esso si raccolgono i frutti, tacciono o si acconciano a "onesti" pour parler coi bombaroli "passati" per ricostituire un "onesto" fronte di sinistra contro Berlusconi, dimenticando il suo ruolo di leale partner nell’aggressione alla Jugoslavia, senza distinzioni, in questo caso, tra sinistra e destra: tutti egualmente in riga nella comune impresa!

L’arresto di Milosevic

La novità, dall’ultimo numero del nostro giornale, è costituita dall’arresto e dalla detenzione di Milosevic a cura della "nuova democrazia" belgradese, salutata con tanto di fanfare dalla stessa Liberazione. Qualsiasi cosa noi pensiamo di Milosevic (e su quello che pensiamo non ci sono dubbi: andatevi a rileggere il nostro precedente numero), quest’operazione significa una sola cosa: la "normalizzazione" della questione jugoslava a pro’ dell’imperialismo occidentale, la resa dei conti, richiesta e ottenuta dall’Occidente, rispetto a una linea di resistenza ai suoi diktat, la svendita della magnifica resistenza jugoslava all’imperialismo in nome di una "democrazia" a proprio uso e consumo, la sua resa in cambio di improponibili promesse di "rilegittimazione" europeista e occidentale per il "reinserimento" del paese in… Europa. Un Fulvio Grimaldi ha, assieme a tanti altri, tutte le ragioni per protestare contro questa prosecuzione della guerra coi mezzi di "pace"; manca solo una cosa: la capacità della necessaria rottura con la "sinistra" che se ne è fatta agente e che, invece, con la scusa del pericolo Berlusconi (il compagno d’armi di D’Alema in Jugoslavia!), si tratterebbe di "recuperare". Magari incontrandosi a Genova nelle manifestazioni antiglobalizzazione, pensa un po’ il genio di Bertinotti!

Non stiamo neppure a discutere delle accuse relative ai "crimini di guerra" e agli illeciti arricchimenti personali.

Posto che la guerra inter-etnica è il crimine e tutti i suoi conseguenti orrori un "atto dovuto", le accuse che possiamo muovere a Milosevic si riducono a questo: da antisocialista e persino antijugoslavista, o perlomeno jugoslavista formale, dalla ristretta logica belgradese, egli si è reso correo della dissoluzione del paese (lasciando stare ogni altra chiacchiera sulla "dissoluzione del socialismo" titoista) per quanto, va detto, in una visuale "contrattualistica" molto più "democratica" -se questo fosse un titolo di merito!- delle altre parti in causa. I suoi avversari esterni, da Ljubljana a Zagabria a Sarajevo, portano non solo la stessa colpa con un bel carico di ben maggiori crimini sulle spalle, ma, in sovrappiù, non possono neppure presentarsi come fattori indipendenti, in quanto addestrati, foraggiati e armati direttamente da centrali straniere. In questo (e solo in questo senso) il "serbismo" di Milosevic può essere definito come una linea nazionalista "indipendente", messasi per ciò stesso di traverso alle mire dell’imperialismo occidentale. Sui quisling di Tirana e di Pristina non resta molto da dire dopo le mille dimostrazioni palmari del loro "pacifismo non-violento" alla Bonino, per intenderci. Qual è il responsabile primo, però? Quello che non viene mai evocato: l’Occidente, Usa capintesta, nelle cui mani s’è confezionato l’ordito di guerra giovandosi delle complicità dirette o indirette delle dirigenze nazionaliste locali. Per questo supercriminale nessun processo all’Aja, è scontato, e nessun altro processo, a meno che non sia in grado di farglielo, con la ghigliottina, il proletariato internazionale.

Nel gioco al massacro Milosevic si è reso colpevole di "esagerazioni" che potevano evitarsi? Quesito del tutto irrilevante e persino, alla prova dei fatti, assai dubitabile. Qualcuno degli attuali dirigenti di Belgrado può, in ogni caso, esserne assolto? Non certo quel fior fiore di ipernazionalisti "democratici" che semmai rimproverano oggi a Milosevic di aver "compromesso gli interessi serbi" e stavano davanti a lui quanto a furori etnopurificatori. Assolviamo pure, se vogliamo, un Djndjc, disertore al momento della guerra per andare ad affittarsi direttamente agli occupatori occidentali della Serbia stessa, se questa può essere considerata un’attenuante!

Quanto all’arricchimento personale e a consimili accuse, la ganga borghese di Milosevic non può certo presentarsi con le mani pulite, ma sfidiamo chiunque a trovar mani pulite in materia in qualsiasi altra parte del globo capitalista. Di sicuro non è uno che abbia fatto le valigie al momento del proprio personale pericolo e si sia involato verso più sicuri lidi per godersi il malloppo. Non è un Faruk, un Costantino, un Batista etc. etc., cioè uno dei tanti personaggi cari alle immacolate centrali imperialiste. E neppure (ve lo ricordate?) un personaggio del tipo Panic, catapultato a suo tempo da Washington a Belgrado per "mettere ordine" e, compiuta l’opera, ritornatosene, con le tasche piene, al luogo d’origine. Altro che "conflitto d’interessi"! Milosevic è rimasto a Belgrado, da nazionalista convinto e coerente, per sfidare apertamente i suoi avversari saliti sulla cattedra del potere e relativa "giustizia". Questi ultimi non hanno malversato fondi della nazione? Già, hanno usato, per arrivare al potere, i fondi generosamente elargiti, a milioni di dollari, dai loro padroni esterni e ora sono chiamati a renderli con tutti gli interessi usurai del caso. Sulle spalle di chi? Come non mai delle popolazioni lavoratrici jugoslave. Ne sanno già qualcosa i cittadini alle prese con raffiche di aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità, le dismissioni industriali nazionali, i licenziamenti di massa e via dicendo.

Ciò su cui non ci stanchiamo mai di insistere è che la risposta a questa catastrofe non può in nessun caso venire da un fronte pro-Milosevic. Manifestazioni a suo favore ci sono state e noi non esitiamo a considerarle positivamente come riprova di una capacità di resistenza in alcuni settori della popolazione lavoratrice jugoslava, ma più per l’intuizione esatta di ciò che significano le manovre contro il defunto regime che per uno schieramento attorno a esso.

Il "caso Milosevic", insomma, è assunto come "simbolo" di una battaglia che non s’identifica con la difesa del precedente sistema. È il tentativo di cercarsi una strada di resistenza e contrattacco, ma in assenza di un preciso orientamento. Tanto più che il partito-stato di Milosevic non offre a questo movimento alcuna sponda e i burocrati che lo hanno impersonato sono, per lo più, intenti a salvare la propria pellaccia riciclandosi in fretta e furia sul versante "democratico", ubbidendo con ciò ai propri interessi personali e a quelli della continuità dei "generali" interessi borghesi di classe. Un po’ quello che, fatte le debite differenze, è successo con il "post-fascismo" italiano, contrassegnato dal repentino abbandono del defunto Duce da parte della massa rappresentativa del fu-regime passata armi e bagagli nelle file della "democrazia", a cominciare dalle dirigenze sindacali fasciste ipso facto assunte a pieno titolo dal neo-sindacalismo "resistenziale". Come motivava un saggista italiano, di cui al momento ci sfugge il nome, i regimi passano, la continuità del sistema resta, a meno che non intervenga una vera rivoluzione sociale. Solo la rivoluzione comunista non è riciclabile. In Jugoslavia, come ovunque, si tratterebbe di delinearne perlomeno la fisionomia qualora si volesse realmente battersi contro l’imperialismo. Gli appelli pro-Milosevic per cui tanto si prodiga qui un Grimaldi, suggerendo manifestazioni di protesta dinanzi alle ambasciate e a Montecitorio, a parte l’impossibilità di cavare un ragno dal buco, rivestono un solo significato: deviare la lotta proletaria, qui e in Jugoslavia, dai suoi compiti in nome di "diritti internazionali" nel campo dei rapporti interni borghesi che non solo non ci riguardano, ma sono anche, in ogni caso, irricevibili e respinti al mittente per definizione.

Anche i famosi "partiti comunisti jugoslavi" non fanno alcunché di meglio: come abbiamo mostrato nel numero precedente, essi si acconciano a una pura "lotta" elettoral-parlamentare in vista dell’uno, due e poi, chissà, 50% più uno dei "consensi", ma si ritraggono dalla preparazione rivoluzionaria nelle e delle masse di cui (da non comunisti) non vedono lo sbocco "tangibile" all’immediato. Ricorderemo sempre lo stupore con cui alcuni di questi "comunisti" accolsero la nostra domanda: cosa fate per coinvolgere in prima persona le masse, per trascinarle nel movimento e dare a esso una direzione? Da (sinceri, e a loro modo rispettabili) burocrati dello statalismo titoista "dall’alto", questa nostra domanda li stupì fortemente: ma come?, devono essere le masse (incolte, arretrate) a farsi protagoniste? Siamo noi a "rappresentarle" e a esse spetta solo di "riconoscerci". Col voto, se va…, con la "delega". Uno di questi "comunisti" addirittura ci disse: nel processo dell’autogestione abbiamo lasciato troppo spazio agli "incompetenti", alla "base", la "prossima volta" non ripeteremo l’errore. Ebbene, cari amici, una prossima volta non ci sarà. O le masse entreranno decisamente, in prima persona, nell’agone, con tutte le loro "arretratezze" comprese, o possiamo tranquillamente andarcene ‘a cuccà.

Le elezioni in Croazia

Queste stesse considerazioni le facciamo rispetto alla situazione in Croazia. Qui il regime di Tudjman è stato "travolto" elettoralmente nelle ultime elezioni politiche dal fronte di "centro-sinistra" (quello capitanato dall’ex-braccio destro di Tudjman Mesic e dal "post-comunista" Racan, entrambi ottimi guerrafondai nazionalisti). Il rifiuto dell’Hdz da parte dell’elettorato lavoratore, in questo caso, manifestava il sintomo di una ribellione agli effetti catastrofici di un nazionalismo croato risoltosi in dipendenza reale dall’Occidente. Il "centro-sinistra" (od anche le ali estreme "titoiste") potevano raccogliere e far trascrescere in qualcosa di reale questo sintomo? Giammai. Il "nuovo potere democratico", basato quanto a coefficienti elettorali sul "consenso popolare", non ha potuto che registrare l’impossibilità di un cambiamento effettivo della situazione economico-sociale "interna" e amministrarne la miserabile realtà secondo gli ordini impartiti dall’Occidente. Non sta a esso scegliere la via di un "proprio autonomo sviluppo" una volta sottomessosi alla linea di "inserimento" nell’ordine imperialista che lo nega dalle fondamenta. Tudjman si arricchiva personalmente e questi "nuovi" no? Può anche darsi, seppure certe facce neo-democratiche ci fanno propendere, un po’ lombrosianamente, verso ipotesi meno ottimistiche (e ce lo confermano, più materialisticamente, certe voci dirette dall’interno). Il problema non sta qui. Il problema è che Tudjman affamava la Croazia svendendone pezzo per pezzo l’arsenale produttivo che conta ai creditori occidentali e questi ultimi sono gli stessi che da Racan e soci esigono, e ottengono, quanto a essi dovuto. Le cifre ufficiali parlavano già due anni addietro, se non ricordiamo male, di un settore metalmeccanico nazionale ridotto al 50% di manodopera quo ante e con un peso proprietario nazionale assai più striminzito. Le stesse cifre ci parlano oggi di una disoccupazione attorno al 25%, e si tratta solo di trucchi contabili perché nell’occupazione è messo un po’ di tutto: dall’arte di arrangiarsi individuale al numero di coloro che neppure più si iscrivono alle liste di collocamento come disoccupati nonché la gran massa di saltuari, part-time etc. etc. I prezzi di luce, acqua, gas, trasporti, telecomunicazioni sono ormai talmente alle stelle che molti non riescono a pagarseli e o tirano a campare come capita senza tali "servizi" oppure, come ci è stato raccontato di persona, ricorrono a ingegnosi allacciamenti abusivi. Col nuovo regime i morosi o i "ladri", indifferentemente, non si vedono tagliati gli allacciamenti, ma, più sbrigativamente, tradotti in galera: "pagherete caro, pagherete tutto!".

Si capisce bene come, in una situazione del genere, la maggioranza dei potenziali elettori abbia disertato le urne (un 60% sono le ultime notizie frammentarie che abbiamo). Chi ci è andato, in maggioranza, ha votato ancora per Racan e soci per marcare, soprattutto nelle grandi città (Zagabria, Spalato), la propria ripulsa nei confronti dell’iper-nazionalismo tudjmaniano, di cui si possono ora ben valutare i "vantaggi", ma non si è trattato affatto di un "plebiscito" per i nuovi governanti, visti, nel migliore dei casi, come un "meno peggio" cui piegarsi, in assenza di forze proprie, per evitare il ritorno al… più peggio (pessimo italiano, ma in croatesco suona bene). A Pola hanno vinto quelli della Dieta Istriana, con un programma di devolution regionalista con un occhio di riguardo verso un’Italia in grado di garantire un "autonomo" "ponte per l’Europa". Le campagne hanno votato per l’Hdz vuoi perché detentrici di risorse "autosufficienti" per far fronte alla crisi che morde soprattutto nelle città, vuoi, ci pare di poter ipotizzare, perché spaventate dai programmi di ristrutturazione agraria promossi dal Fmi e consimili e presi in carico dai "democratici" centro-sinistri e, perciò, suscettibili di venir suggestionati dai proclami "nazional-indipendentisti" dell’Hdz, scaricata dall’Occidente tanto per il suo carattere impresentabile di fronte alle masse quanto per i suoi retorici (ma nondimeno pericolosi) tardivi richiami alla "sovranità nazionale". Come per altre situazioni mondiali, noi osiamo pensare che tra i due settori, di proletariato cittadino e campagne in via di espropriazione, non esista un reale fossato computabile in ragione delle dichiarazioni di voto (o non-voto), ma un’identità fondamentale di interessi che spetterebbe a un partito comunista interpretare e portare avanti. Contro il tudjmanismo così come contro il centro-sinistra, in nome di una comune lotta di classe in grado di rivendicare sul serio la propria indipendenza nazionale dall’imperialismo nel solo modo possibile: la ripresa dello jugoslavismo in termini di classe, appunto, e con un ponte gettato verso il proletariato d’Occidente. Impresa troppo ardua anche per i rimasugli "titoisti", indefettibilmente social-titoisti nel solo proprio paese Croazia e altrettanto indefettibilmente elettoralisti puri.

I "nodi" Montenegro e Macedonia

Le stesse considerazioni si potrebbero fare per il Montenegro, dove il secessionismo di Djukanovic ha ricevuto un duro colpo da parte delle masse lavoratrici "istruite" da ciò che significa l’occupazione del paese da parte dell’imperialismo, ma che i pro-jugoslavisti vorrebbero racchiudere in una stretta ottica statalista "piccolo-jugoslava". Non rompere con Belgrado? Bene. Ma per fare che cosa? Su quali basi di classe? In che prospettiva di classe? Da nessuna parte vien fuori una risposta plausibile a questi interrogativi.

La situazione in Macedonia non si presenta diversa. Qui la fantasia della "transizione morbida" verso uno stato nazionale (di quale nazionalità!?) indipendente fuori dal conflitto ha fatto luogo alla constatazione che non solo il paese è occupato dallo straniero d’Occidente coi suoi manutengoli locali al seguito, ma che questo stato di cose non è neppure in grado di garantire una parvenza illusoria di unità statuale. Il gioco al massacro tra macedoni (disputati tra serbi e bulgari) e albanesi segna un punto ulteriore a favore della "balcanizzazione" infinita della regione. Come tirarsene fuori? Macedoni contro albanesi? Questo lo scenario che detta l’imperialismo, pronto a usare gli uni contro gli altri e tutti contro sé stessi. Non diciamo che una forza politica comunista, forzatamente esigua all’oggi, potrebbe immediatamente rovesciare i fronti stabiliti dall’imperialismo grazie alla collaborazione servile dei locali ex-jugoslavisti borghesi, ma certamente segnerebbe uno spartiacque in grado, in prospettiva, di farlo. Da chi aspettarselo? Mai più dai resti del titoismo che fu, giunto al suo capolinea definitivo; sì, però, da un inizio di riaggregazione politica del proletariato locale, a condizione che noi, da qui, gli facciamo giungere la voce tangibile della nostra solidarietà.

È penoso che anche chi, col massimo di buona volontà e dedizione personale militante, in Italia, ha condotto e conduce una battaglia contro l’aggressione occidentale, proponga, in controsenso a ciò, un’opzione statale micro-jugoslavista che giunge persino alla vergogna di propagandare e sottoscrivere programmi "indipendentisti" jugoslavi sulla base dello sciovinismo anti-albanese o addirittura delle crociate "cristiane" contro il "pericolo islamico". Il pericolo non è quello islamico (lo è forse in Palestina?) e la soluzione non è quella cristiana (lo è forse da noi?); il pericolo sta nella divisione tra gli sfruttati di ambo i lati cui non si sa proporre un programma comune di emancipazione. Questo vorrebbe dire non esser pronti a sparare sull’Uck? Dipende da chi spara e con quali pallottole. Anni fa qualcuno troppo semplicisticamente ha inneggiato alla "rivoluzione albanese". Gli stessi, oggi, fanno assai di peggio: dimenticando quella insorgenza (i cui connotati di fondo richiamavano, senza essere immediatamente in grado di tradurli in pratica "spontaneamente", tutti i motivi dell’anti-imperialismo proletario internazionale), si mira all’"albanese" per sua natura agente dell’imperialismo e, per questa via, si affossa quella soluzione proletaria del problema balcanico che ha bisogno del fronte unico tra gli sfruttati di qualsiasi etnia e colore politico di partenza dal momento stesso che l’imperialismo li ha posti su un unico fronte di tiro al massacro.

In alcune riunioni pubbliche della nostra organizzazione noi abbiamo misurato tutto ciò attraverso la partecipazione solidale alle nostre posizioni di battaglia di serbi, albanesi etc. "indifferentemente". Tra noi, e con noi, essi si ritrovavano assieme sulle proprie postazioni internazionaliste di classe, si ritrovavano fraternamente assieme in un proprio esercito solidale. Non vogliamo gonfiare i dati, non diamo numeri che non abbiamo al presente, ma indichiamo una strada su cui già qualcuno si è messo attorno e grazie al nostro lavoro. Ed è la strada del futuro, anche astraendo da quel poco o tanto che "noi" siamo in grado di fare. Diciamo noi, e traduciamo proletariato internazionale, partito comunista internazionale, lotta internazionale per il socialismo. Senza sfilate davanti ad ambasciate e montecitori, senza petizioni sottoscritte da intellettuali "pacifisti". "Semplicemente" con le armi della guerra di classe sottoscritta dal solo odio degli sfruttati.