Per le elezioni del 13 maggio anche noi comunisti dell’Oci abbiamo svolto la nostra "campagna elettorale". Il terreno elettorale non è certo congeniale all’affermazione e allo sviluppo dell’autonomia politica, organizzativa e di lotta del proletariato, ma questo non vuol dire che sia un terreno da cui i comunisti debbono ritrarsi. Anti-parlamentaristi lo siamo per principio, ma non pensiamo che alle elezioni si debba rispondere con un astensionismo principista, sarebbe come eludere il problema. Nemmeno siamo tra coloro che alle elezioni rispondono proponendo l’astensionismo di massa, perché non calcoliamo il grado di separazione dal sistema sulla base delle astensioni o dei voti annullati. Chi lo fa finisce, a sua volta, per adottare un metodo ugualmente elettorale, sia pure "alla rovescia". La nostra battaglia la diamo anche con riguardo alle elezioni, e, come sempre, è finalizzata unicamente all’autonomia politica e organizzativa della classe proletaria, al suo proprio antagonismo di classe. Su questa base si fondano le nostre scelte e le nostre indicazioni di lotta al proletariato. La destra dichiara a viva voce la volontà di demolire ogni forma di resistenza proletaria organizzata, ma la "sinistra" è, forse, da meno? Intendiamoci, quel che ci preoccupa non è di stabilire un’assoluta identità tra l’una e l’altra, quanto di prendere atto che ciò che distingue la sinistra dalla destra è solo la modalità con cui mettere in atto lo smantellamento reale del movimento di classe. La "sinistra" ha l’"attenuante" di dosare, a tal fine, più carote e meno bastone, ma ha senz’altro l’aggravante di usare tali carote per abituare meglio la "propria" base, e, soprattutto, a devitalizzarla, piegarla alla delega al ribasso continuo di fronte alle esigenze del capitale e del suo stato. Chi non si pone su questo terreno merita i rimbrotti alla Moretti (che esprimono un senso comune vivo anche all’"estrema", vedi il manifesto con tanto di lettere dei propri a-militanti, anche quando si difende il povero Bertinotti messo alla berlina). Tant’è: lo stesso Bertinotti, passate le elezioni e constatato che se non si è vinto è colpa sua, pur ribadendo tutte le (sacrosante) accuse al centro-sinistra, non riesce a veder altro che una "ricostituzione della sinistra vincente"… elettoralmente, e a questa prospettiva, da lui stesso fottuta, si inchina per il futuro spruzzando un po’ di vernice "rifondarola" su questa supposta neo-sinistra "ritrovata", al punto da ipotizzare un habitat "comune" entro cui convivere e (di fatto) dissolversi in quanto finzione alternativa. Ripresa della sinistra? Sì, elettoralistica. Così la vittoria di Veltroni a Roma (proprio lui!) riempie di soddisfazione e commozione Bertinotti in quanto "legittima" affermazione di un "modo originale di far politica locale, urbana e metropolitana". E i famosi soggetti alternativi su cui "costruire"? A parte i loro connotati sempre meno classisti, li si considera come collante per una nuova sinistra unita: caro Ds, vieni anche tu a Genova contro i G-8 e vedrai che… ci rilanciamo. Una destra apertamente anti-proletaria, una "sinistra" che lavora per sciogliere ogni legame di classe proletario, un’"estrema" sinistra che si richiama a un anti-capitalismo verbale, mentre si dà all’inseguimento della prima. Mai come ora, dunque, l’alternativa di classe non si gioca minimamente sul piano elettorale e si può riconquistare solo sconfiggendo la logica dell’una e dell’altra "sinistra". |
Le elezioni del 13 maggio hanno consegnato al centro-destra la maggioranza parlamentare e un successo politico innegabile. Questo è chiaro, se si rimane ai soli risultati elettorali. Ma non è questo il problema principale, perché la vittoria non è computabile solo in termini di voti bruti, ma anche di allargamento di una base sociale per la destra, anche se ciò non si traduce in una immediata mobilitazione attiva e se sconta scarsa omogeneità nell’alleanza Fi-Lega, che è, al momento, più un’alleanza "contro" che "per". Soprattutto, è vittoria per l’ulteriore distruzione della base avversa.
Nel centro-sinistra si impreca sulle divisioni per dimostrare che quanto ai numeri la distanza non è stratosferica. Ma distanza c’è, e non è poca. L’accordo Berlusconi-Bossi ha funzionato, anche se quest’ultimo ha patito la disaffezione che parte del suo elettorato gli manifesta da quando insegue l’accordo politico con Forza Italia.
Nell’Ulivo ci sono veri motivi di disperazione, che la vittoria ai ballottaggi per i sindaci solo superficialmente oscura. La "sinistra" ha perso, rispetto al ’96, qualcosa come due milioni e mezzo di voti. Dove sono finiti? Pochi nell’astensione, cresciuta di poco, parte nella Margherita di Rutelli, parte al Di Pietro sdoganato da D’Alema al Mugello, parte, soprattutto al Sud, verso Fi. Né le ferite da leccare sono solo sul corpo dei Ds; anche Rifondazione ha da piangere centinaia di migliaia di abbandoni, che pur detratti i voti a Cossutta, fanno sempre settecentomila.
Si ripeterà lo scenario del ’94, allorquando la destra scatenò un duro attacco a pensioni e sanità e la "sinistra" riuscì a rispondere rivitalizzando un rapporto con la mobilitazione di massa che reagì all’aggressione brutale alle proprie condizioni? Molte cose sono cambiate da allora, e molta acqua è passata sotto i ponti di destra e "sinistra".
Innanzitutto Berlusconi non minaccia gli sfracelli che allora lo portarono a confrontarsi con piazze gremite e scioperi. Una parte del lavoro che si riprometteva all’epoca è stato fatto dai governo ulivisti. È ancora largamente insufficiente in confronto ai programmi liberisti che, pur annacquati, son sempre al centro del suo progetto. Oggi, a differenza che nel ’94, Berlusconi è più consapevole del fatto che i rapporti di forza non si trasmettono automaticamente dal piano elettoral-parlamentare al piano vero e veramente decisivo dello scontro, cioè quello della mobilitazione di piazza e della militanza attiva di partito in tutta la società. Si tratterà, di conseguenza, di procedere esercitando con perizia l’arte del dividere il fronte avverso, dosando e articolando l’attacco, propria della famiglia dei "popolari europei" cui è approdato per conquistarsi la patente di "moderato" e per tessere una rete di alleanze sul piano europeo che nel ’94 gli difettò. Per uno scontro a tutto campo, occorrerebbero ben altri attributi di partecipazione e militanza di quelli che, al momento, può vantare. Anzitutto un partito vero, che Fi non è, essendo, pur se meno del ’94, un partito che si regge quasi unicamente sul "carisma" del capo e su una pletora di carrieristi e affaristi ben poco inclini a una battaglia politica che ricerchi nel rapporto di massa e nell’organizzazione militante la vera legittimazione dei programmi e dei progetti politici.
Ritardo persino maggiore si registra nei confronti del proletariato. Timidi tentativi del capo (il "presidente operaio") e tentativi un po’ più seri di qualche accolito (come a Torino) hanno portato qualche voto in più, ma non risolvono il problema di fondo, ossia: come aumentare la torchiatura dei lavoratori cercando, nel contempo, di mobilitarli attivamente. Non si può affrontare il proletariato quasi fosse soltanto una gallina da spennare, né è sufficiente prospettargli che una società "libera da ogni vincolo" gli dia l’opportunità di riscattarsi in quanto singolo, trasformandosi da venditore del proprio lavoro in acquirente di lavoro altrui, da operaio in padrone. Sono aspettative chiaramente fallaci che non potranno mai mobilitare in massa i lavoratori per un programma liberista. L’unico piano che può dar speranza di partecipazione attiva almeno di una parte del proletariato è quello classico del mussolinismo: mobilitazione di massa, anche "contro" il parassitismo dello stato e delle classi dirigenti, per conquistare all’Italia un "posto al sole" che prometta significative ricadute anche sulla condizione proletaria.
L’Ulivo e D’Alema hanno spinto in tale direzione, soprattutto con la guerra alla Jugoslavia, ma la posizione dell’Italia è rimasta sostanzialmente gregaria rispetto all’insieme dello schieramento imperialista, e di ricadute per il proletariato nisba. Per rilanciare a dovere questo piano bisognerebbe imprimere alla politica italiana un tono molto più nazionalista di quello ulivista, in grado di pestare i piedi anche agli alleati, e sviluppare un’autonoma presenza sulla scena internazionale, riprendendo e rafforzando le premesse che il duo Andreotti-Craxi, col decisivo apporto del Pci, avevano sviluppato negli anni ’70 e ’80. Ma le dichiarazioni dei leaders del centro-destra lasciano poco spazio a una ripresa di velleità imperialiste in proprio. Anche quando alzano la voce contro l’egemonismo tedesco sull’unificazione europea (agitando il rischio che allargare l’Ue verso Est possa svantaggiare il Mezzogiorno) lo fanno mettendosi ancor più sotto la protezione del capo-bastone imperialista americano. La visita di Kissinger per sponsorizzare Ruggiero a ministro degli esteri e Berlusconi quale Thatcher italico, dimostra come i padrini nord-atlantici siano disposti a proteggere il nuovo governo, e come siano sicuri di poterne fare un fedele alleato nella politica volta a evitare che l’Europa si sviluppi come polo imperialista contrapposto agli Usa nel predominio sul mondo. In cambio della fedeltà l’Italia può aspirare a qualche briciola in più di quelle che l’inevitabile marchio tedesco sull’unificazione europea le prospetta.
D’altronde, anche su questo specifico aspetto, la Casa delle Libertà non fa che riprendere e continuare l’inclinazione dell’Ulivo, confermata dalla stessa Fiat (non a caso co-sponsor di Ruggiero) con l’"alleanza" con Gm. E, se per caso avesse qualche velleità più "autonomista", la stampa estera -europea e americana- le ha fatto capire, prima e dopo il 13 maggio, quali conseguenze sono riservate a Berlusconi. Lo stesso Bossi ha abbandonato i toni anti-Usa gridati durante l’aggressione alla Jugoslavia, ed è andato a raccontare nei comizi che l’egemonia occidentale nel mondo non va messa in discussione purché si basi, oltre che sulla finanza e la potenza militare, anche sulla democrazia. Con ciò lui intende che le istanze italiane (o padano-italiane) debbano pesare di più nella spartizione di mercati e sfere d’influenza, ma è ben misero linguaggio rispetto a soli due anni fa. In ogni caso, anche lui, in perfetto allineamento con Washington, indica nella Cina il vero nemico che si erge contro l’Occidente.
Le due cose -coinvolgimento attivo di parte almeno del proletariato e rilancio in proprio dell’imperialismo italiano- sono strettamente legate. L’una non si può dare senza l’altra. O si danno insieme, o non si danno. Senza di esse non è che l’Italia precipiterà verso una posizione di colonia o semi-colonia, continuerà a rimanere nel blocco imperialista, semplicemente nel ruolo gregario in cui è ormai confinata. Gregario sul piano economico-industriale (priva di grandi multinazionali, ridotta, con la sua struttura di piccole aziende, a sub-fornitrice delle multinazionali estere), sul piano finanziario (terreno di scorribande estere d’ogni sorta), su quello militare (fornitrice di bassa forza per le aggressioni ai popoli ribelli all’imperialismo).
La mancanza, insomma, di un vero partito, militante e di massa, che sposi fino in fondo oltre che le ragioni del capitalismo, anche quelle particolari del capitalismo italiano, e tenda a mobilitare al suo servizio anche la forza proletaria, continua a esercitare le sue conseguenze sul centro-destra e sull’insieme della borghesia italiana.
All’interno del Polo l’unico partito che possiede tuttora delle (sempre più) minime caratteristiche in tal senso rimane quello bossiano. È vero che la Lega ha pagato duramente l’alleanza con Berlusconi, e l’ha pagata soprattutto dal lato operaio, che s’è sentito poco rappresentato nell’alleanza e nel modo in cui Bossi l’ha sostenuta (abbandonando ogni tematica di una Padania in grado di farsi carico dei problemi dei lavoratori oltre che di quelli delle aziende). Ma gli operai che non hanno votato Lega per non votare Berlusconi difficilmente, allo stato attuale delle cose, potranno essere attratti in modo significativo dalla "sinistra" e nemmeno stabilmente da Rifondazione. Né potranno essere attratti da una prospettiva comunista che stenta a emergere, all’immediato, come elemento davvero mobilitante. Gioco forza un rilancio padanista di Bossi potrebbe facilmente richiamarli al suo fianco. Un fallimento di Berlusconi potrebbe favorirlo, e la Lega, per quanti arretramenti abbia subito sul piano elettorale e della militanza, non ha ancora ceduto del tutto.
Nelle schermaglie post-elettorali, Bossi ha provato ad alzare il prezzo della partecipazione al governo, ma ha dovuto ingoiare alcuni rospi (Ruggiero agli esteri, prima definito "ciò contro cui noi combattiamo", poi deglutito, un presidente della Camera non leghista, il "ministero-dinamite" del Welfare), ricevendo in cambio il ministero della Giustizia e uno per la devolution. Rospi ingoiati proprio per ottenere un’accelerazione sulla devolution. È questa la carta di Bossi per conservare un’identità distinta dal resto del Polo, e da poter giocare in caso di fallimento di Berlusconi. Costui si dice federalista più convinto che nel ’94, ma il suo è piuttosto un federalismo di ripiego. Se non riuscirà a realizzare il programma liberista tenendo unito il paese, non gli rimarrà che ricorrere al federalismo come ultima chance per spezzare definitivamente le resistenze della massa dei lavoratori, poco disposti, nonostante le attuali debolezze politiche e sindacali, a farsi tosare impunemente. In tal caso Bossi si ritroverebbe il pallino tra le mani, ma dovrà, non di meno, fare i conti con un partito che, a causa anche delle sue giravolte, è disorientato e in preda a una visibile riduzione della carica militante. Una certa forza "di popolo" potrà riconquistarla, almeno al Nord, non tanto per le sue intrinseche capacità, quanto per la totale mancanza, al momento, di veri poli di attrazione alternativi.
Per quanto possa esser debole, e consapevole di ciò, Berlusconi non può limitarsi alla mera amministrazione dell’esistente. I passi da compiere gli sono dettati dalle stesse forze che li dettavano all’Ulivo: quelle impersonali delle leggi del mercato, della competitività, della necessità di accrescere di continuo i margini di profitto dei capitali, e quelle organizzate nelle varie istituzioni del capitalismo internazionale e nazionale (a partire da Confindustria, banche, assicurazioni, insomma il "mondo degli affari"). A dettare, dopo l’esito elettorale, ci si è messo, in modo più esplicito di prima, anche il Vaticano. I suoi temi contrastano solo apparentemente con i primi, ne costituiscono, in realtà, la necessaria integrazione. Un capitalismo senza "vincoli", e il ritiro dello stato dall’"assistenza dei più deboli", produce contraddizioni esplosive; la chiesa si candida a svolgere al meglio il ruolo di "alleviarle" col fine unico di contenere il rischio che debordino in ribellione sociale e politica. Più di prima, però, è necessario che questo ruolo venga svolto anche dalla famiglia, e dalle donne in particolare, nonché dalla scuola. Ecco perché Woytila sale in cattedra (con un auditorio ben disposto) a rivendicare una politica di difesa della famiglia e di "libertà di insegnamento".
Anche se con modalità non appariscentemente brutali (sempre che la situazione economica, finanziaria e militare internazionale non incappi in improvvise -ma per niente improbabili- accelerazioni di crisi), per i lavoratori, i giovani e le donne si prepara, dunque, un ulteriore attacco alle condizioni di vita e di lavoro. Assieme a loro nel mirino del centro-destra sono puntati anche i lavoratori immigrati. Per loro è annunciata un’ulteriore stretta sulla libertà di organizzazione e di lotta, aumentando il ricatto esercitato con il permesso di soggiorno e il controllo poliziesco, e limiti maggiori anche alla possibilità di conservare i propri tratti di identità culturale, religiosa e politica.
Resistere a queste nuove aggressioni è problema che riguarda ognuno di loro, che riguarda l’insieme del proletariato, dell’umanità che per vivere non ha altra risorsa che vendere la propria forza-lavoro. È una necessità che -Berlusconi o no- la riguarderà sempre più drammaticamente.
È sufficiente il bisogno di difendersi per determinare una mobilitazione di massa? È sufficiente che l’aggressione anti-proletaria passi dai metodi soft e concertativi dell’Ulivo a quelli più duri e dispotici del centro-destra per provocare una rivitalizzazione della lotta del proletariato, e magari, come tanti proletari sperano, anche una rigenerazione della "sinistra"?
La risposta a queste domande deve basarsi su una ricognizione dello stato sindacale, politico e organizzativo del proletariato e sulle ricadute che vi ha avuto la "crisi della sinistra".