UNA NUOVA INTIFADA 
CONTRO LA "PACE" DI ISRAELE E DELL’OCCIDENTE

Indice


Da più di quattro mesi lo stato di Israele si trova a fronteggiare una nuova Intifada della popolazione palestinese. Contro questa rivolta di prima grandezza ha scatenato un vero e proprio massacro con centinaia di morti e migliaia di feriti, oltre al blocco dei villaggi, al soffocamento economico, alla distruzione di case e coltivazioni. La colpa dei palestinesi? Quella di rifiutare la "pace" voluta da Israele e da tutto l'Occidente. E di farlo con una resistenza di massa, sentita, partecipata, che coinvolge i settori profondi della popolazione palestinese (compresi quelli che in maggioranza, dopo la firma dell'accordo di Oslo, avevano riposto fiducia nel processo di "pace"), a cui si è unita la partecipazione in prima linea delle giovani e giovanissime generazioni. E questa volta, fatto importantissimo, si sono messi in moto anche i palestinesi da dentro i confini ufficiali di Israele che finora, in cambio di alcuni parziali diritti, avevano concesso al governo di Tel Aviv una sostanziale passività (a parte alcuni significativi momenti di lotta, come nelle giornate per la terra del '76).

Al di là degli esiti immediati, una cosa è certa: questa rivolta segna il tramonto definitivo del "processo di pace" avviato dall'accordo di Oslo. E segna l'impossibilità, in futuro, che le masse palestinesi accettino qualsiasi nuovo accordo che si dia nel quadro lì tracciato: quello di una "pace" che ha rinchiuso i palestinesi in città-ghetto, isolati, circondati e controllati dall'esercito israeliano, costretti a cercare lavori sottopagati in Israele e a piegarsi a ogni arbitrio delle autorità sioniste che conservano il pieno controllo sulle risorse idriche e proteggono le espropriazioni di terre palestinesi a favore di sempre nuovi insediamenti di coloni, mentre milioni di profughi palestinesi sono destinati a restare tali per le generazioni a venire. Una situazione non certo attenuata, per le masse palestinesi, dal coinvolgimento dell'Olp, nelle vesti di una ben misera Autorità nazionale, in questa operazione di normalizzazione israeliana e imperialista della questione palestinese.

La nuova Intifada è la risposta di massa a una soluzione che è inaccettabile per i palestinesi non solo per le sue conseguenze materiali, sociali, ma perché segnerebbe, se accettata, la fine di un popolo, la rinuncia, cioè, a ogni volontà di riscatto nazionale! È quanto i palestinesi, dopo alcuni anni di "normalizzazione", hanno realizzato e stanno respingendo con un rifiuto massiccio e determinato che manda all'aria i "piani di pace" israeliani e scombina le carte al gioco dell'Occidente imperialista nell'area mediorientale. Questo spiega il sistematico terrorismo dello stato israeliano -accompagnato da una feroce campagna razzista (i palestinesi inumani che lancerebbero nella battaglia fìnanco i bambini!)- e l'appoggio completo a esso da parte degli Usa così come quello non meno determinato e solo più ipocrita degli stati europei, Italia inclusa, con i loro bei governi progressisti e il codazzo dei partiti di "sinistra". Il punto è che l'Occidente e il suo gendarme nell'area non possono offrire altra soluzione ai palestinesi che non sia quella di una "pace" da servi oppure il loro sterminio, una sorta di armenizzazione fatta di eccidi di massa da un lato e di dispersione definitiva nei paesi arabi vicini (come paria, s'intende) dall'altro. In entrambi i casi, l'obbiettivo è di cancellare i palestinesi come popolo contraddistinto da una propria terra, identità, storia e futuro, di cancellare insomma l'esistenza di una questione nazionale palestinese. Perché questo e niente di meno è richiesto oggi per ridurre i palestinesi alla "ragione" di quei piani e di quei giochi. Ed è ciò che fanno intendere, neanche tanto velatamente, i moniti rivolti ai palestinesi sotto la minaccia dell' uso dei potenti mezzi di distruzione di massa, compresi quelli atomici, di cui la sentinella dell'imperialismo in Medio Oriente è ben rifornita (e, sembra, già utilizza, come le armi all'uranio impoverito).

Le soluzioni intermedie, dunque, si stanno bruciando.

Prospettive della lotta

Quali sono i fondamenti della "pace" occidentale e israeliana? Conservare in Medio Oriente uno stato super-armato, basato sull'apartheid, che contrasti l'insorgenza delle masse oppresse palestinesi e dell'area, garantisca gli attuali assetti politico-statuali e sostenga, direttamente o indirettamente, le dirigenze arabe infeudate all'imperialismo occidentale. In palio sono, per l'Occidente e Israele, gli equilibri della regione e il controllo del petrolio. La sorte del popolo palestinese è legata indissolubilmente a questo ordine di cose. In Palestina non si sta svolgendo solo lo scontro tra palestinesi e stato di Israele, ma anche tra masse oppresse dell’area e imperialismo. Ciò significa che la soluzione dell’intera questione non può essere impostata utilmente senza far procedere oltre i suoi confini la lotta oggi circoscritta alla Palestina.Vuol dire che la questione nazionale palestinese è superata dai fatti? Al contrario, essa non solo non è risolta, ma e vieppiù acuita proprio in quanto risulta inestricabilmente connessa al quadro complessivo di dominazione imperialista dell'area mediorientale. La "semplice" rivendicazione di "autonomia nazionale" del popolo palestinese non può prescindere da esso, non può cioè confrontarsi solo con Israele, ma può affermarsi solo con la rottura dell'ordine generale imposto dall'imperialismo all'intera area.

La nuova Intifada esige, allora, una prospettiva politica all'altezza di questo scontro, in grado di spingere in avanti quegli elementi che la lotta sta già facendo emergere -come spinta delle masse e come problemi in cui esse, lottando, impattano per imprimere alla battaglia la giusta direzione. La questione, allora, è: chi può sostenere uno scontro di questa portata, e con quale programma?

Intifada e palestinesi

L'Intifada sta cambiando, ha già cambiato il quadro delle cose, non solo nei riguardi di Israele (il cammino per la sua pace è bloccato) e sul piano mondiale (dimostrando che il tentativo di normalizzazione imperialista è alla lunga impossibile), ma anche all'interno dello stesso fronte palestinese e nel mondo arabo. Una cosa è chiara: la linea di Arafat, il tentativo di strappare qualche misero riconoscimento (più sul piano formale, oltre tutto) in cambio della svendita sostanziale della causa palestinese, è oramai agli occhi delle masse bruciata. Arafat stesso, e il notabilato borghese che gli sta dietro, vede i propri margini di manovra via via ridursi a pochissima cosa, messo al muro (per ora metaforicamente) dall'impossibilità -di fronte alla radicalità e al carattere di massa della sollevazione- di procedere alla completa e definitiva svendita senza però potere e volere imboccare, data la natura di classe degli interessi che rappresenta, una strada diversa da quella di mendicare dagli assassini del proprio popolo un bantustan da governare. Di fronte a ciò, i palestinesi lottando hanno iniziato anche a fare i conti con quegli interessi politici e di classe, ben rappresentati nella direzione di Al Fatah, che sono diversi e confliggenti con quelli delle masse. È quanto dimostra l'attivizzazione in prima persona e lo spostamento su posizioni chiaramente contrapposte alla linea arafattiana della stessa base militante di Al Fatah (p. es. i Tanzim ) che sta organizzando la rivolta nei territori. O la vicenda del direttore della Tv palestinese ucciso dalle "Brigate dei martiri di Al-Aqsa", perché inviso come altri alti burocrati e notabili noti per la loro corruzione (il direttore della banca palestinese è accusato dai militanti palestinesi di aver spostato dall'inizio dell' Intifada 12 milioni di dollari nei paesi del Golfo) -corruzione che evidentemente è politica prima che pecuniaria. Ed è quanto segnala, ancora, la stessa discussione accesasi sull'opportunità di boicottare le elezioni per il parlamento israeliano da parte dei palestinesi con passaporto israeliano.

Se all’immediato il senso politico di questa attivizzazione rimane quello di far sentire il fiato sul collo ad Arafat perché non accetti un negoziato improntato agli attuali diktat israelo-americani, e di impulsare una diversa trattativa, questa però deve essere basata sui "diritti dei popoli e non sull'inganno" e prevedere, innanzi tutto, un effettivo ritiro israeliano da Gaza e dalla Cisgiordania (così, in un'intervista al manifesto del 31-12, M. Barghuti, il capo dei Tan-zim). Ma, soprattutto, è importante vedere la linea di tendenza che dalla rivolta sta emergendo, e questa indica senza dubbio una spinta a superare la vecchia direzione e a darsene una nuova (non è un caso se il leader arabo di gran lunga più popolare nei territori è diventato Saddam Hussein), più rispondente al bisogno di portare avanti la battaglia contro un nemico, l'establishment sionista con alle spalle tutto l'imperialismo, che si prepara a una resa dei conti durissima con i palestinesi.

Non contare sulle borghesie arabe

Con l' Intifada, è tutto il mondo arabo a uscirne sempre più polarizzato e, insieme, più strettamente legato a quanto avviene in Palestina. Ciò sia nel rapporto tra masse sfruttate e stati, sia in quello tra gli stessi stati. Di fronte alla sollevazione della massa palestinese indomita, infatti, c'è stata una forte ondata di simpatia, partecipazione e rabbia tra le masse lavoratrici arabe, che ha dato luogo ad alcuni momenti di mobilitazione popolare: dal Marocco (dove c'è stata una delle manifestazioni più imponenti) all'Egitto, dal mondo arabo all'Indonesia, fino alla Malesia e alla Nigeria. Con segnali di mobilitazione tra gli immigrati arabi e islamici anche in Occidente. (Un'eco di questo moto spontaneo di solidarietà lo si può percepire nelle trasmissioni, seguitissime, dell'emittente televisiva "indipendente" AUazeera, nel Quatar, l'unico canale arabo a riportare, in certo qual modo, le voci dal basso e gli umori degli strati profondi del mondo arabo e islamico).

Di fronte a ciò cosa stanno facendo i regimi arabi? La Siria si è affrettata a dichiarare di non volere affatto la guerra con Israele; nel mentre tiene sotto tiro in Libano le tendenze plebee islamiche e le masse palestinesi dei campi profughi appaltati al suo controllo (ricordate Tal al Zatar?). L'Egitto -impegnato a pompierare in ogni modo la rivolta palestinese (ma non il massacro israeliano)-sta facendo terra bruciata intorno a qualsiasi possibilità di scontro con Israele e anche solo di maggiore contrattualità da parte arafattiana nel negoziato presentato come inevitabile. Dalla Lega Araba -che pure i governi arabi hanno dovuto convocare sotto la spinta delle masse (estendendo l'invito, ed era la prima volta dalla guerra del Golfo, all' Iraq)- non è venuto fuori niente al di là di una generica condanna di Israele per "boicottaggio della pace"! Nessuna anche solo larvata minaccia di boicottaggio petrolifero contro i paesi occidentali, non l'appoggio (ancorché retorico) alla dichiarazione di indipendenza dello stato palestinese, men che meno il congelamento delle relazioni con Israele, ma solo un obolo (i trenta denari) per "acquietare gli animi'.Negli stessi giorni la Giordania della dinastia haschemita, in cambio del suo ruolo di cane da guardia e macellaio dei palestinesi (dal "Settembre nero" in poi), ha accettato dagli Stati Uniti lo status commerciale concesso a Israele (e l'Egitto si appresta a fare lo stesso). Inutile poi parlare di paesi come l'Arabia Saudita e il Marocco. Su questo versante dunque, Israele può dormire sonni tranquilli, perché –come ha scritto l’Economist allo scoppio della rivolta- "sa bene che ciò che preoccupa di più i regimi arabi non è Gerusalemme, ancor meno la Palestina ma è la propria sopravvivenza". Sopravvivenza sulle spalle delle classi lavoratrici per poter mantenere i privilegi propri delle classi sfruttatrici. La stessa corruzione di questi regimi (che giustamente suscita l'indignazione e l'odio delle masse) ha origine in questi rapporti di dominazione, ed è ineliminabile senza il loro rovesciamento.

Su un altro versante, invece, si è delineata una rottura nei confronti dei regimi arabi venduti, con Gheddafi che giustamente si è rifiutato di assistere all' ennesimo vertice-farsa, o l'Iraq che rimane nel mirino dell'Occidente (e qualche sorpresa potrebbe riservarla la stessa Siria a misura che l'imperialismo dovrà probabilmente riaggiustare il tiro in questa direzione). I militanti di classe arabo-islamici, senza aspettarsi da nessuno di questi stati "intransigenti" la soluzione, ne devono accogliere il segno al proprio modo: se c'è chi chiama a una posizione di combattimento, questa deve significare sovvertimento dei regimi svenduti all'imperialismo (a cominciare da Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Siria, ecc.) nell' unità di lotta con l'avanguardia palestinese.

Possono far ciò paesi come l'Iraq o la Libia? Questi, certamente, sono portati da una serie di fattori (oltreché dalla spinta delle masse) a tentare di rompere l'ordine regionale esistente che blocca ogni loro sviluppo e toglie alla stessa borghesia la possibilità di giocare un ruolo in proprio in quanto classe dirigente nazionale. Ma lo possono fare solo in maniera parziale, operando rotture ma senza la continuità indispensabile per la lotta antimperialista. Questa infatti può essere garantita solo con un'arma fondamentale: la mobilitazione e l'armamento delle masse oppresse. Ciò comporterebbe però ineluttabilmente anche il rivolgimento dell'ordine sociale e politico interno, contro quelle classi sfruttatrici di cui i Saddam e i Gheddafi sono comunque i rappresentanti.

Unità delle masse oppresse arabe e islamiche

Solo una sollevazione di classe rivoluzionaria di tutti gli sfruttati arabi della regione contro l'imperialismo può invece farsi beffe delle divisioni artatamente disegnate e rinfocolate dalle potenze occidentali, e condurre una lotta a fondo contro tale ordine. La lotta di emancipazione palestinese necessita, dunque, di proiettarsi verso l'insieme delle masse arabe per una battaglia, un'organizzazione, una prospettiva unitaria di emancipazione. L'Occidente e Israele temono ciò al massimo grado, le direzioni borghesi dei regimi arabi non lo temono meno. La rivolta palestinese ne ha assolutamente bisogno, e per farlo deve entrare in rotta di collisione con le direzioni attuali (tanto meglio se sempre più in difficoltà) del movimento e con i governi arabi venduti.

Il sacrosanto odio contro Israele non può, di conseguenza, limitarsi a ricompattare gli arabo-islamici attorno alle "proprie" bandiere statali, ma deve costituire il detonatore per l'unificazione politica delle masse oppresse locali contro i "propri" poteri, quelli esistenti come quelli in gestazione (tipo il bantustan palestinese diretto da Arafat), per il sovvertimento dell'ordine sociale e politico anche del mondo arabo. Il che comporta per i palestinesi la necessità di fare i conti anche al proprio interno.

Nulla di ciò è totalmente nuovo. La stessa resistenza palestinese ha avuto, alle sue origini, ben presente il carattere di classe e internazionale della "specifica" questione palestinese, come si vede, per esempio, dalle dichiarazioni del Fronte Democratico (di cui non cauzioniamo l'impianto di fondo) nei primi anni '70 (La rivoluzione palestinese, Bertani '71): "La resistenza oggi, e anche ieri, non è in grado di assolvere da sola al compito della liberazione nazionale, ma è in grado di costituire un detonatore per la rivoluzione araba complessiva... L'isolamento della resistenza in un guscio palestinese o l'apertura al panarabismo attraverso i regimi arabi esistenti (due facce della stessa medaglia) impediscono attualmente alla resistenza di svolgere questo ruolo rivoluzionario a livello arabo". Di qui la necessità, in prima istanza, della riunifìcazione, al di sopra dei confini statuali divisori, del "popolo palestinese-giordano" per abbattere il regime haschemita, proiettando questa prospettiva all'insieme dei popoli dell'area; di qui, già allora, il rifiuto di un "mini-stato" palestinese buono solo a spezzare l'unità del popolo palestinese-giordano, subordinato economicamente e militarmente a Israele, e "destinato a legarsi sempre più all'imperialismo in specie americano".

Insomma, non si darà soluzione al dramma palestinese senza aver tagliato gli artigli ai rapaci occidentali e scatenato una guerra sociale di classe in grado di scardinare gli assetti imperialistici. Per far questo non si può far a meno di togliere all'Occidente le sue due risorse fondamentali in loco: da un lato lo stato di Israele, dall'altro la divisione delle masse oppresse lungo le linee artificiali degli attuali stati, tracciate dall'Occidente e preservate dai regimi arabi borghesi. Ed è la prospettiva per la quale i comunisti si battono senza smettere di appoggiare la sollevazione delle masse palestinesi, che è, anzi, la condizione principale per rendere quel programma davvero realizzabile.

Per la distruzione dello stato di Israele

La sollevazione delle masse sfruttate arabe deve, inevitabilmente, dirigersi contro lo stato d'Israele, contro, cioè, il fortilizio armato che domina su tutto il Medio Oriente e lo controlla nell'interesse dell'imperialismo. Finché, però, questo stato riceverà l'appoggio compatto dell'Occidente, la lotta sarà terribilmente impari. Come rompere la compattezza occidentale? La questione presenta due aspetti, diversi, ma strettamente intrecciati tra loro.Il primo riguarda la possibilità di incrinare lo schieramento occidentale. Più di un palestinese, e tutti i "pacifisti" europei, pensano che il fronte imperialista si possa suddividere tra un imperialismo aggressivo e guerrafondaio, quello Usa, e un imperialismo dal "volto umano", quello europeo, disposto ad ascoltare con maggiore benevolenza le istanza arabe. L'abbaglio è totale. Non solo l'Europa è all'origine stessa dell'attuale dramma mediorientale, avendo essa per prima intrigato per dividere e sottomettere gli arabi, ma se oggi manifesta qualche dissenso lo fa non per la natura presuntamente diversa dei suoi interessi (che sono totalmente identici a quelli Usa: piena libertà di appropriarsi del petrolio a prezzi stracciati, piena libertà di sfruttare le masse lavoratrici, dando loro in cambio una stentata sopravvivenza), ma per il puro motivo di concorrenza verso lo strapotere americano. Il fronte compatto occidentale si può incrinare, dividere, scompaginare, ma non illudendosi di separare briganti "più umani" da briganti criminali, bensì solo attraverso linee di contrapposizione di classe, ovvero con l'emergere della lotta e dell'organizzazione di quelle classi che non hanno alcun interesse a sostenere il dominio imperialista sul Medio Oriente, ma che anzi sono, a loro volta, vittime delle guerre che i propri stati e le proprie borghesie conducono ai fini del profitto. Non è compito che si debba chiedere alle masse palestinesi di risolvere (che i loro compiti li affrontano già con inimitabile determinazione!), ma è compito che dovrebbero assumersi, assieme ai comunisti, coloro che sono sinceramente preoccupati di giungere alle condizioni di una vera pace in Medio Oriente, quella pace che può essere garantita solo dalla totale espulsione dall'area di tutti gli interessi imperialisti e delle artificiose formazioni statali che li difendono.

Il secondo riguarda direttamente la questione degli ebrei. Lo stato sionista è stato impiantato come strumento in loco della politica occidentale di rapina e oppressione delle masse arabe. Utilizzando il fatto che gli ebrei avevano subito in Europa terribili persecuzioni, il sionismo e l'imperialismo, diventatone il padrino, hanno offerto loro la prospettiva di un proprio stato come riparo da nuove tragedie. Ma questo stato si è costituito espropriando e opprimendo i palestinesi, e può sopravvivere solo a patto di tenere a bada con il terrore la loro rivolta. Il popolo ebreo, a causa di ciò, è costretto a vivere lui stesso nel terrore della reazione che tutto ciò scatena e sempre più scatenerà tra gli oppressi arabi. E, come se non bastasse, il fatto che svariati suoi esponenti svolgono il ruolo di oppressori in prima fila per conto dell'imperialismo, in Medio Oriente come ovunque ci sia bisogno del pugno di ferro contro popoli ribelli, lo espone al diffondersi di un odio che può sconfinare facilmente nell'antisemitismo. Si aggiunga, poi, che il malcontento che si diffonde contro il ruolo usuraio della finanza ai danni degli strati popolari, anche in Occidente, può facilmente essere diretto contro quello che il capitalismo ha storicamente indicato come l'usuraio per antonomasia (l'ebreo). Si comprende, così, come in cambio di miseri privilegi, la parte non sfruttatrice degli ebrei è divenuta carne da macello che l'imperialismo usa per difendere il proprio dominio nella regione, preparandosi a deviargli contro l'odio che cresce contro se stesso. Valgono quei privilegi a compensare la partecipazione all'oppressione di un altro popolo a vantaggio di quelli che sono anche i propri sfruttatori e padroni?

La soluzione di questo dramma allora non può essere quella dei "due popoli due stati", perché questa, da un lato, tiene ferma l'esistenza del gendarme israeliano ovvero uno dei presupposti della continuazione del dominio imperialista sull'area, dall'altro contribuisce all'ingabbiamento delle masse arabe da parte delle rispettive borghesie asservite all'imperialismo. Non risolve la questione nazionale palestinese, ma neanche quella ebrea. Al contrario, sia dal punto di vista della lotta emancipatrice delle masse arabe che per le stesse masse sfruttate ebraiche, la distruzione dello stato di Israele è un passaggio indispensabile per ribaltare la manomissione imperialista nell'area e aprire la strada a una convivenza fraterna fra lavoratori arabi ed ebrei.

La soluzione sta nella trasformazione della guerra tra popoli in una sollevazione unitaria di tutte le masse arabe e islamiche contro l'imperialismo e lo stato sionista, sollevazione che sappia, in prospettiva, guadagnare a questa lotta anche le masse sfruttate ebraiche.

Unità di classe tra sfruttati ebrei e arabi

La strada per questa decisiva unità presuppone che il proletariato ebreo rinunci a difendere il sionismo e con ciò lo stesso stato israeliano. Come può avvenire questa presa di coscienza? Cosa devono fare i palestinesi per conquistarsi veri alleati tra gli israeliani? Più d'uno gli consiglia, a questo fine, di "moderare" le proprie lotte. È il consiglio per suicidarsi. La "moderazione" non farebbe altro che lasciare la situazione così com'è adesso. Una situazione in cui anche il proletariato ebreo percepisce di vivere una condizione di vero e proprio privilegio economico e politico in raffronto all'insieme delle masse palestinesi e arabe. Perché mai dovrebbe rinunciarvi? Qualche barlume di coscienza potrà balenargli solo se sarà costretto a guardare in faccia la realtà, ovvero che fa parte di uno stato che vive solo grazie alla violenza sistematica e alla rapina organizzata ai danni dei palestinesi, i quali non sono affatto "moderati" nel contrastarla, ma anzi sono disposti a una vera guerra per liberarsene, una guerra contro tutti coloro che li opprimono o sostengono, attivamente o passivamente, la loro oppressione. Solo se si trova dinanzi alla secca alternativa se continuare ad appoggiare il proprio stato nella guerra contro le masse oppresse e con ciò diventare soldato e vittima di questa guerra, oppure se schierarsi dal lato di quelle masse contro il proprio stato, intrecciando con esse lotte, programmi, organizzazione.

È questa una potenzialità oggettiva che il rincrudirsi della situazione offre, ma non risolve automaticamente. La società israeliana manifesta alcuni segnali di crisi, ma non è al capolinea. Anzi la sollevazione palestinese sarà utilizzata dallo stato sionista per compattare la popolazione intorno alla liquidazione definitiva della questione palestinese come unica strada per la "sopravvivenza degli ebrei". Il problema per la lotta palestinese non è di incunearsi "tatticamente" tra queste contraddizioni per "indebolire" il nemico e ottenere condizioni di "pace" meno "inique" -come vorrebbe la direzione dell'Olp- allorquando tutto va verso l'incrudimento della situazione. L'obiettivo deve essere invece di lavorare per la formazione di un'avanguardia di classe nell'area che sappia sollevare la bandiera della guerra di tutte le masse e popoli oppressi contro l'imperialismo e lo stato d'Israele e per il rovesciamento dei regimi arabi compromessi con l'Occidente.

Nei primissimi anni Settanta, proprio nel momento dei più duri colpi ricevuti da Israele e dai regimi arabi, la sinistra della resistenza palestinese osò porre, anche contro le borghesie arabe, la questione di una prospettiva di convivenza fraterna fra arabi e la parte non sfruttatrice della popolazione ebraica, cui tendere l'invito per una comune (ancorché differenziata) battaglia contro l'insieme dei rapporti di dominazione e sfruttamento imperialisti. Citiamo da un documento del Fronte Popolare del '69 (anche qui senza cauzionarne la linea politica): "Il Movimento di liberazione nazionale palestinese non è un movimento razzista... contro gli ebrei. Il suo obiettivo è distruggere lo stato d'Israele in quanto base militare, politica ed economica fondata... sull'organica alleanza con gli interessi imperialisti... Israele ha sempre dipinto la nostra lotta come un movimento razzista teso a gettare a mare gli ebrei (con lo scopo di) mobilitare tutti gli ebrei in una lotta per la vita e per la morte. Di conseguenza (sott. ns.) un nodo strategico fondamentale della nostra linea di lotta deve essere costituito dallo smascheramento di questa mistificazione: per questo bisogna rivolgersi alle masse sfruttate ebree, mettendo in evidenza la contraddizione fra i loro interessi e quelli del movimento sionista". E una parte, ancorché minoritaria, degli ebrei si mostrò capace di schierarsi a fianco dei palestinesi (e non con Israele) per "una lotta comune delle masse degli sfruttati dei due popoli come sola strada per la liberazione" (così un militante comunista ebreo davanti al tribunale israeliano che lo accusava di collusione con lo "straniero": da La resistenza palestinese. Savelli '76).

Per una direzione comunista della battaglia

Per complessi motivi di ordine internazionale, il richiamo (ancorché incompleto) alle coordinate classiste della battaglia palestinese è andato perso (per responsabilità non in primis proprie, che rimandano alla nullità politica attuale del proletariato metropolitano). La resistenza palestinese ha pagato carissimo questo arretramento, come si è visto a partire dalle vicende libanesi allorché dovette subire il fuoco incrociato non solo degli israeliani, ma altresì dei "fratelli arabi" (a cominciare dallo stato siriano), per non aver potuto e saputo lavorare all'unificazione con le classi diseredate libanesi delle diverse etnie e religioni anche contro le borghesie e i regimi arabi.

Ma quei problemi sono tuttora attualissimi, non possono essere saltati perché è la lotta stessa a richiamarli. Tant'è che il vuoto determinato dalla débàcle della sinistra, oltreché dalla parabola della direzione arafattiana verso posizioni di completa svendita, tende a essere colmato oggi dalle forze islamiche che a modo loro rispondono -con un programma non di classe, ovvio, e dunque in maniera inconseguente- alle esigenze lasciate cadere da "sinistra", in termini di attivizzazione, organizzazione e riunificazione delle masse deluse (vedi quanto successo in Libano). È un passaggio che segna, al tempo stesso, un arretramento quanto a programmi politici, ma anche oggettivamente un venire al dunque di alcuni dei nodi lasciati insoluti da tutto il corso precedente della battaglia. Non sarà l'islamismo a poterli sciogliere, anche se da esso con tutta probabilità -a causa principalmente del mancato sostegno da parte della classe operaia d'Occidente a una lotta antimperialista fino in fondo sotto la bandiera del comunismo- dovrà transitare anche il movimento di lotta palestinese. Ma se arretrano le direzioni, la necessità della lotta non può venir meno, e con essa la possibilità di una "giusta direzione" che nasca dall'incontro tra la coscienza spontanea delle masse in rivolta e il lavoro organizzato di un'avanguardia rivoluzionaria che sappia far trarre dalla lotta e nella lotta il dovuto bilancio.

Questo bilancio è oltremodo necessario per la battaglia, pena il suo accartocciarsi, seppur transitoriamente, su se stessa. Esso non si da nel vuoto, ma sulla base di ciò che la lotta stessa ha messo in luce. Sono i fatti a indicare che le masse palestinesi sono il solo soggetto in grado di portare avanti con determinazione la lotta, e che il loro vero alleato è rappresentato dalle restanti masse dell'area che già oggi sentono la necessità di affrontare un comune nemico (lo stato di Israele e l'imperialismo). Ma è possibile fare ciò continuando a delegare a chi più volte ha tradito questa consegna (i governi e le classi dominanti arabe interessate alla conservazione dei propri privilegi)? O senza togliere al nemico le sue armi principali, e cioè le artificiose barriere statuali che dividono il popolo arabo e l'appoggio delle masse ebraiche sfruttate allo stato israeliano gendarme dell'Occidente? Affrontare questi nodi significa approntare un programma di lotta intorno al quale organizzare, in prospettiva, tutte le masse oppresse dell'area. Ma cosa sono questo programma e questa organizzazione se non quelli del comunismo internazionalista e del partito di classe? Quale è la prospettiva da conquistare se non quella di una rivoluzione antimperialista di area per il potere ai Soviet dei lavoratori arabi, ebrei, turchi, kurdi in grado di abbattere la dominazione imperialista in Medio Oriente?

E appoggiare questa battaglia non è interesse anche del proletariato d'Occidente (Occidente che è l'oppressore) per rompere con la sua posizione di schiavo "di favore" di un sistema da cui oggi gli derivano briciole (di corruzione), e domani non solo un destino un tantino più comune sotto l'aspetto materiale, ma la richiesta di coinvolgimento diretto nello schiacciamento nel sangue della rivolta delle masse oppresse dall'Occidente? Non è suo compito allora appoggiare incondizionatamente la lotta palestinese, qualunque ne sia la bandiera attuale, rompendo ogni solidarietà con i "propri" governi imperialisti che partecipano pienamente all'oppressione e allo sfruttamento delle masse palestinesi e arabe? Se questo compito sarà portato fino in fondo, i nostri compagni di lotta palestinesi avranno la possibilità (e il dovere) di andare oltre il ristretto orizzonte di un mini-stato asservito ai padroni imperialisti che lascerebbe intatti i rapporti sociali e politici nella regione.

Con questa prospettiva noi comunisti internazionalisti siamo incondizionatamente a fianco del popolo palestinese per la cui causa siamo impegnati a lottare, una causa che non è locale e neanche "nazionale" in senso stretto, ma è parte integrante della battaglia internazionale di classe per l'emancipazione dall'imperialismo.

Promesse della tempesta
 
Così sia!
Devo rifiutare la morte:
bruciare le lacrime delle sanguinose canzoni
e rendere nudi gli ulivi dei falsi rami.
Se io canto la gioia
dietro le palpebre
d’occhi spauriti
è perché la tempesta mi ha promesso del vino
ed arcobaleni:
è perché la tempesta ha spazzato via il canto
dei pigri uccelli
e smascherato nell’albero diritto
i falsi rami.
 
Così sia!
Sarò fiero di te,
piaga della città,
quadro dalle mille luci
nelle nostre tristi notti:
tu mi proteggi dall’ombra
e dagli sguardi odiosi,
quando la via si chiude
al mio avvicinarsi.
 
Canterò la gioia
dietro palpebre d’occhi spauriti:
la tempesta già si leva sulla mia terra:
mi ha promesso vino
e gli arcobaleni.

 

La poesia è del palestinese Mahmoud Darwish, che di sé e dei suoi versi ha detto:

"Non appartengo più ad un popolo che chiede misericordia e che elemosina, bensì ad un popolo che combatte.
Mi sento due volte dilaniato: prima, per il mio popolo, poi per i cittadini ebrei, trascinati dai loro leaders verso la catastrofe.

Io sono uno scrittore che non contempla la vita, ma si getta in essa; è difficile per me tracciare una separazione tra la letteratura e la vita.
A mio avviso, la patria non è una valigia, non è una montagna, ma una causa che posso difendere ovunque mi trovi. (…)

Io sono un cittadino palestinese ed il mio popolo ha subito oppressioni e torture morali e corporali indescrivibili. L’esilio e lo sradicamento di un intero popolo, costretto al vagabondaggio, non e una questione prettamente palestinese, ma un pugnale conficcato nella coscienza di tutto il mondo. (…)

Il mio popolo non conosceva altro che l’elemosina e si presentava soltanto attraverso le tessere di soccorso. Piangere per il ricordo della patria usurpata è un diritto; presentarsi davanti alle Corti Internazionali è un diritto; suonare le campane della coscienza mondiale è un diritto. Il diritto, tuttavia, non è tale se colui che lo deve esercitare è debole… Questa è la vita!

Adesso l’immagine del mio popolo è cambiata: non si presenta più con la tessera di soccorso, bensì con la tessera della morte e dell’eroismo. Questa è la Resistenza e questa è la soluzione del problema palestinese. Da quale parte credete che io stia? (…)

Sono un cittadino internazionale e faccio parte del movimento di rivoluzione mondiale; sono lieto di essere un membro della grande famiglia della Liberazione e del Socialismo, che invita a cambiare il mondo dalle radici.
Sono felice perché appartengo alla parte illuminata del nostro secolo".