La cronaca degli ultimi anni ha registrato uragani sempre più violenti, dirompenti piogge alluvionali, siccità, desertificazione, scioglimento dei ghiacciai, scomparsa delle stagioni intermedie, intensificazione di fenomeni come "el-niño". Questi repentini mutamenti climatici hanno messo e mettono in pericolo la vita di fasce sempre più estese di popolazioni povere (l’uragano Mitch, ad esempio, nel 1998 in America Latina provocò la morte di 6.000 persone e la distruzione del 60% delle grandi infrastrutture nel solo Honduras, 3.000 furono i morti in Nicaragua e centinaia in Guatemala e Salvador). Si tratta di semplici fenomeni naturali indipendenti dalla mano dell’uomo, della solita natura matrigna?
Le leggi che governano il clima terrestre sono ancora tutt’altro che comprese. La cautela è quindi d’obbligo, soprattutto se si tiene presente che gli studi in materia risentono pesantemente dei limiti (per non dire altro) della scienza contemporanea. Qualcosa tuttavia si può azzardare.
Le alterazioni climatiche degli ultimi anni trovano tra le loro cause più significative l’incremento della temperatura media globale della Terra, il quale, a sua volta, è legato -almeno in parte- al cosiddetto effetto serra. O meglio: non all’effetto serra in sé, che è un fenomeno naturale e benefico per la biosfera, ma all’alterazione di esso prodotta dall’attività umana degli ultimi centocinquant’anni. La Terra, infatti, non trattiene per sé tutto il vitale calore radiante che il Sole fa giungere sulla sua superficie: essa ne riconsegna una parte agli spazi cosmici. Ma non tale e quale è arrivata, bensì trasformata in raggi infrarossi. I quali, a differenza della luce in arrivo sulla Terra, vengono fermati dalle molecole di anidride carbonica (e di vapore acqueo) che compongono l’atmosfera. In tal modo il nostro pianeta è in grado di intrappolare intorno a sé una quota supplementare di energia solare. Questo fenomeno è chiamato effetto serra, e ad esso va il merito di aver creato il nido in cui s’è sviluppata la vita sulla Terra...
Negli ultimi centocinquant’anni la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera è cresciuta del 50% circa in conseguenza dell’abbattimento delle foreste e dell’aumento del consumo dei combustibili fossili. Ciò ha portato a un’alterazione così profonda dell’equilibrio esistente che sono stati messi alle corde gli stessi meccanismi di autoregolazione di cui è dotato il nostro pianeta (tra cui l’assorbimento dell’anidride carbonica da parte degli oceani). Un risultato inevitabile della "civiltà industriale"? No, e poi no.
Ciò è il risultato del modo in cui il capitalismo (che ha avuto la funzione storica rivoluzionaria di sviluppare le moderne forze produttive socializzate) ha utilizzato queste forze produttive: non con la preoccupazione di salvaguardare la salute umana e il suo equilibrio con una natura resa infine umanamente benigna, bensì con l’quella di incrementare in ragione geometrica la produzione, costi quel che costi. Questo obiettivo richiede di aumentare a dismisura e in modo anarchico il consumo (e lo spreco) dei combustibili fossili? Richiede la distruzione delle foreste pluviali con grave danno della loro funzione riequilibratrice sul piano della composizione chimica dell’atmosfera e del clima mondiale? E chi se ne frega, risponde il profitto attraverso le imprese e gli stati che ne curano il corso. E chi se ne frega, risponde il blocco di comando del capitalismo mondiale, quell’Occidente imperialista responsabile per i 4/5 dell’anidride carbonica emessa.
Una delle conseguenze dell’aumento della temperatura media terrestre è l’avanzamento della desertificazione delle aree agricole, in particolar modo del Terzo Mondo. Qui, la piccola produzione di villaggio, già sistematicamente distrutta dalla centralizzazione del mercato agro-alimentare, viene letteralmente scalzata dal sopravanzare dei deserti.
Secondo una stima dell’Onu, circa 100 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare questi luoghi ormai incolti e a dirigersi verso altre città. È quanto sta succedendo in paesi come il Brasile, dove nella sola regione del Sertao l’avanzare inarrestabile del deserto ha scacciato circa 12 milioni di persone; così come nelle regioni centrali del Messico dove 700 mila piccoli contadini sono stati costretti a dirigersi verso la costa. Ricordiamo l’abbandono da parte degli abitanti della cittadella algerina d’El Oued, sparita sotto le dune avanzanti all’impressionante velocità di ben otto centimetri al giorno. Problemi analoghi incombono sui deserti del Sud-Est asiatico.
Il fenomeno, inoltre, è favorito dagli effetti economici e sociali indotti in queste zone del mondo dalle leggi del mercato imperialista: "Un esempio è quello delle cosiddette zone semi-aride dell’Africa, degli Stati Uniti e dell’Australia che sono state dedicate al pascolo. Lentamente la vegetazione naturale è stata forzata a quella più adatta al pascolo che la rende estremamente più vulnerabile alla siccità." (da G. Visconti, L’atmosfera, Garzanti, Milano, 1989, p. 232)
Come se non bastasse, i deserti contribuiscono a loro volta al riscaldamento della temperatura globale media del pianeta, in quanto (a parità d’esposizione) il calore del sole è riflesso in maggior misura rispetto a quello riflesso da un terreno fertile. Si amplifica così il circolo vizioso: innalzamento della temperatura-ampliamento della superficie dei deserti-incremento della temperatura…
Il riscaldamento della terra si ripercuote anche sul livello dei mari. Nell’Oceano Pacifico meridionale il livello delle acque marine è cresciuto negli ultimi venti-trent’anni di 10-25 centimetri a causa dell’aumento della temperatura di soli 0,3-0,6 gradi centigradi. L’associazione dei piccoli stati insulari del Pacifico denuncia che se saranno confermate le previsioni che parlano di un ulteriore aumento delle acque di 15-95 centimetri, almeno 14 paesi insulari abitati da 6 milioni di persone saranno sommersi. Analoghi saranno i problemi per i paesi continentali. Si calcola che l’innalzamento di soli 50 centimetri del livello del mare coinvolgerebbe -col rischio di inondazioni- da 46 a 92 milioni di persone nel mondo.
Non meno distruttive sono le "amplificazioni" di alcuni fenomeni climatici come quello di "el niño". "El niño" è una corrente d’acqua calda che compare al largo della costa del Perù. Questa corrente marina impedisce l’affiorare delle acque profonde più fredde e più ricche di sostanze nutritizie, riducendo la pescosità del mare negli strati superficiali. La conseguenza più vistosa sul clima, dovuta all’attenuarsi degli alisei, è l’anomala concentrazione della piovosità e dei tifoni. Nel 1982-’83 le alterazioni climatiche prodotte dal "niño" hanno provocato circa 2000 morti soprattutto nei paesi tropicali; nel 1990-’95 il fenomeno si ripeté per tre anni di seguito registrando uno degli episodi di "el niño" più lunghi di cui si ha notizia; così come nel 1997-’98 quando, nonostante la migliorata capacita di previsione del fenomeno, persero la vita circa 2100 persone.
Benché sia in alto mare la piena comprensione dei meccanismi geofisici e biologici che controllano il livello dell’anidride carbonica nell’atmosfera, si può tuttavia affermare con certezza che senza un mutamento drastico dell’attività umana si andrà incontro a modifiche climatiche di notevole entità e fors’anche a vere e proprie catastrofi. (Tanto per dire: al ritmo attuale scomparirebbero entro un’ottantina di anni le foreste della Terra...) Sembra che gli stati occidentali e le istituzioni internazionali di vario tipo si siano accorte del problema e vogliano mettervi mano. Per risolverlo davvero alla radice? O anche solo per limitare i danni nel breve periodo in attesa di trovarvi un rimedio? Tutt’altro.
In realtà, oltre alla necessità di fronteggiare una escalation della contestazione ecologista e il rischio di un indirizzo anti-capitalistico dell’insofferenza popolare, gli stati occidentali hanno cominciato a preoccuparsi delle conseguenze delle alterazioni climatiche perché esse rischiano di compromettere lo stesso andamento dei profitti. (Vedi ad esempio gli effetti cui sarebbero esposte le zone cerealicole degli Usa per la riduzione di umidità del suolo durante la stagione estiva susseguente allo sviluppo delle attuali tendenze climatiche.) La loro risposta è un ottimo manifesto del totale asservimento di stati e istituzioni scientifiche mondiali al profitto e al capitale, e dell’incapacità totale di preservare alcun futuro per l’intera specie umana, fosse anche quello dei paradisi naturali dove statisti e inquinatori mondiali trascorrono le proprie vacanze dorate.
Le varie conferenze che si sono succedute negli anni (da Kyoto a Rio de Janeiro e all’Aja) hanno da una parte enunciato le consuete petizioni di intenti sulla conversione delle fonti d’energia, sui piani di forestazione e sulla riduzione dei gas serra (gli scienziati ci dicono che per non schiattare tutti occorrerebbe una riduzione del 60% dell’emissione dell’anidride carbonica nel breve giro di qualche anno), dall’altra hanno messo al bando, Usa in testa, qualsiasi strumento di controllo delle riduzioni (quote) dei gas serra che si sono distribuiti a tavolino.
L’unico obiettivo concreto in cui i briganti mondiali hanno convenuto è stata l’imposizione ai paesi del Terzo Mondo di norme rigide per la riduzione delle emissioni e l’incremento della vendita della tecnologia delle fonti rinnovabili e alternative. Particolarmente banditesco è stato il varo delle "Emission Trading" (il mercato delle quote di emissione) che consentono ai paesi imperialisti -responsabili per la gran parte delle emissioni!!- di innalzare le proprie quote comprandole da altri paesi o scambiandole con tecnologie delle fonti rinnovabili. Ovvero: come scaricare sui paesi sfruttati l’onere della riduzione delle emissioni (nel mentre si contrabbanda nei loro territori ogni sorta di merda e di scorie), come imporre con la forza della finanza l’acquisto della "tecnologia rinnovabile", e determinare così una dipendenza ulteriore dell’apparato industriale dei possibili concorrenti (India, Brasile, Cina) dalle centrali imperialiste.
Questo è quanto può offrire all’umanità tale congrega di faccendieri. Un’utile lezione a quanti, molti in buona fede, credono basti riformare le regole del sistema capitalistico, rendendole più umane e accettabili. Un "avvertimento" da raccogliere per evitare di finire soffocati al carro degli inquinatori, brandendo casomai il vessillo occidentale della crociata contro le pestilenziali nuvole cinesi e indiane.
Non sono sicuramente in buona fede gli epigoni del verdismo governativo e istituzionale. Un verde sempre più simile a quello del cianuro.
In un articolo del numero di gennaio 2000 di La Nuova Ecologia, Guido Caroselli si preoccupa di non allarmare eccessivamente l’opinione pubblica (ma perché? è allarmata?) la quale sarebbe stata "di tanto in tanto terrorizzata". Oltre a elencare dei dati quasi sempre più bassi di quelli forniti dagli altri esperti in materia, egli considera il problema dei mutamenti climatici e ambientali solo ed esclusivamente per i danni e i disturbi che esso può creare alle classi più abbienti della società bianca, in particolare europea e italiana. Infatti, si pone il problema che il comportamento delle acque oceaniche possa generare "un forte impatto emotivo sull’opinione pubblica. L’immagine di coste sommerse, di interi paradisi delle vacanze sott’acqua, di un’ulteriore minaccia alla città di Venezia, tutto questo spaventa e colpisce la gente!". In tutto l’articolo non una parola sui flagelli che hanno già causato centinaia di migliaia di vittime nei paesi poveri, anzi si parla di "anomalia meteorologica che determina la perdita di miliardi di lire" e purtroppo, ogni tanto, quella di "qualche vita umana". Se la forma di razzismo più radicale è quella di non far mai apparire gli altri popoli, quasi che questi non esistano, i verdi possono far scuola in materia.
Un altro insegnamento verde ci viene propinato da Daniel Cohn-Bendit, già "eroe" del ’68, ora leader di spicco dei Verdi Europei. Subito dopo il fallimento della conferenza dell’Aja in un’intervista rilasciata alla Repubblica (27.11.00), così commenta: "Non è colpa di nessun paese europeo… l’Europa deve organizzarsi e unirsi in modo da opporre agli Usa e altri pane per i loro denti… L’Europa deve imparare a difendere i propri interessi, che in questo caso coincidono con gli interessi dell’intero pianeta… deve diventare una potenza capace di imporsi". Non c’è che dire: un’Europa forte e unita (unita dalla salvaguardia dei profitti dei nostri inquinatori) è il miglior modo per cambiare l’aria pestilenziale yankee in quella della fetente e vecchia latrina europea… Avanti, dunque, truppe ecologiste nell’arruolare le verdi divise nell’esercito europeo!
Un vero e radicale ricambio d’aria non mancherà di spazzare via con un opportuno tornado questi sozzi sciovinisti inquinati fino al midollo dagli interessi dei loro padroni.
Il fallimento annunciato delle proposte di regolamentazione degli effetti distruttivi della produzione industriale capitalistica rende ancora più necessario estendere, organizzare e ampliare il raggio della battaglia di chi si rende conto che "così non può continuare". Gli appelli alle istituzioni internazionali -in qualche caso confortati da una seria volontà di mobilitazione (che si è vista anche in occasioni come quella di Seattle)- sono stati puntualmente disattesi. Nel corso di questi anni è apparso sempre più evidente che sono quegli stessi stati o organismi internazionali che "dovrebbero regolare" l’anarchia della produzione a essere i primi sponsor del profitto. Ciò non accade per una mera indisponibilità del politico e dello statista di turno, ma per un vero e proprio legame indissolubile che corre tra il sistema economico e quello politico, tra stati e capitale.
Per quanto ci si possa sforzare di confinare la battaglia al singolo aspetto di questo sistema sociale, è esso stesso a sbatterci sul muso la necessità di una battaglia contro la sua complessiva esistenza, per un sistema sociale alternativo: quello del comunismo. Si può, infatti, chiedere la riduzione dei gas inquinanti, e nel contempo non combattere la rapina dei paesi del Terzo Mondo da parte dell’imperialismo che fa della stessa riduzione dei gas un’occasione di ulteriore assoggettamento e oppressione di milioni di uomini? Si può chiedere la razionalizzazione ecologicamente compatibile della produzione industriale e non battersi contro la razionalizzazione compiuta quotidianamente dal capitale col fine di intensificare quello sfruttamento mondiale del proletariato che incatena milioni di uomini alla fame e alla disoccupazione in nome del profitto? Si può imporre un piano energetico mondiale coerente con l’interesse della specie umana e della sua armonica convivenza con la natura di cui è parte, senza attaccare lo scopo cui oggi è finalizzato il consumo energetico? E si può portare a casa un qualche risultato senza la scesa in campo dell’unico soggetto che ha l’interesse e la capacità di ribaltare questa situazione degenerata, e cioè del proletariato?
Sì, lo si potrebbe anche fare, ma alla maniera dei noti ecologisti che per ridurre i gas inquinanti delle fabbriche si uniscono ai padroni dell’industria per chiedere il sacrificio della specie operaia in favore dell’inquinamento dell’industria turistico-affaristica (Marghera docet), e cioè in favore dell’organizzazione finanziaria mondiale che sponsorizza l’inquinamento globale…