- Chi ha scannato chi
- Crociati al servizio dei poteri forti
- L'integrazione è fallimentare. È vero, ma perché?
- Degrado della vita sociale
- Omologazione forzata e falsa comunità
- Piccole o grandi patrie non fermano la globalizzazione. La favoriscono
- Per una comunità di lotta
- La comunità di lotta, premessa e anticipazione della comunità reale
Gli appelli a mobilitarsi contro l'Islam che "invade" e "disgrega" la "nostra società" si moltiplicano, fino al punto di dare vita a vere e proprie campagne anti-islamiche, che chiamano anzitutto i lavoratori a difendere la "nostra" civiltà dalla contaminazione di un tal pericoloso virus. Gli appelli non finiscono nell'indifferenza. Sarebbe da ciechi non vederlo, e sarebbe da perfetti imbecilli pensare che attecchiscono solo per merito del bombardamento mediatico che ne viene fatto allo scopo di deviare l'attenzione dai problemi veri e dai veri responsabili. Esse offrono soluzioni false e pericolose a contraddizioni reali. Si debbono, dunque, contrastare e si possono sconfiggere solo con una lotta che aggredisca i veri problemi e i veri responsabili.
Le prediche del buonismo catto-sinistrorso per la tolleranza e la convivenza pacifica tra fedi religiose stanno cedendo il passo all'incedere di campagne apertamente anti-islamiche. Un fronte composito, che va da settori influenti della Chiesa (cardinale Biffi in testa) alla Lega Nord, ad AN fino a esponenti di FI, passando per un numero crescente di organizzazioni locali che fanno della lotta contro questa o quella "concessione" agli islamici (moschee o terreni per costruire) o della lotta sic et sempliciter all'Islam il loro terreno di elezione.
Molti lavoratori, soprattutto leghisti, ma non solo, trovano queste campagne condivisibili. in tutto o in parte, e credono che i propri problemi si possano risolvere anzitutto, o in buona misura, impedendo l'intromissione nel "nostro" ambiente sociale di elementi religiosi, culturali, di vita sociale, così apertamente "estranei". Ma è davvero nell'interesse dei lavoratori appoggiare o assecondare questi moderni crociati?
Poniamo questa domanda avvertendo subito che la risposta non si può trovare nella discussione di una "destra" e di una "sinistra" che si rinfacciano vicendevolmente l'accusa di razzismo (che entrambe meritano in perfetta parità), ma solo partendo dai motivi profondi. e profondamente reali, che causano il disagio crescente tra i lavoratori. Questi ci interessano in sommo grado, e da questi bisogna patire per dare vita a una lotta che ne individui le cause. e ne ottenga la soluzione vera e duratura.
Gli argomenti principali di queste campagne risiedono sul fatto che i musulmani sono irriducibilmente diversi "da noi", che non potranno mai integrarsi davvero nella "nostra" società, che la loro fede va a una religione aggressiva, che postula non una semplice testimonianza ma una vera e propria milizia votata alla conversione degli infedeli o, in alternativa. al loro sterminio; una religione, perdi più, che impone pratiche arcaiche e disumane agli adepti, soprattutto alle donne (velo, schiavitù ai inatiti, poligamia maschile, infibulazione).
Alcuni di questi argomenti sono totalmente falsi (il Corano non impone il velo, tanto meno l' infibulazione) e alcuni giudizi sono interessatamente ingenerosi, masi uniscono a prese d'atto incontestabili sull'impossibilità di integrazione, salvo che ne riversano, mistificatoriamente, la responsabilità sull'Islam.
Chi sono i corifei di queste campagne? Buona parte di essi asside nelle alte gerarchie della Chiesa cattolica, una istituzione che nel corso di lunghi secoli ha dato istruttive prove dei più feroci metodi di conversione in tutti i continenti, ricorrendo alle più brutali orde di pii assassini, con corollario di "inquisizioni", caccia alle streghe e guerre nel cuore stesso del suo regno europeo. Il motivo addotto era religioso ("salvare le anime"), quello perseguito era tutt'altro: sottomettere i corpi al colonialismo prima, al capitalismo poi. E chi non vi asside per grazia papale, o perché laico, rivendica la storia della cristianità come tratto costituente dell'identità europea, per nulla schifato dei suoi risvolti cruenti, anzi nostalgico propugnatore di essi. in quanto meritevoli di aver fermato alle soglie del continente 1'"invasione islamica", o di aver represso sul proprio territorio le eresie protestanti (così. per esempio, Baget Bozzo. ex consigliere del cinghialone e consigliere del novello "principe", su la Padania del 28.1.1: "La Spagna fu antemurale della cristianità contro l'Islam e della Cattolicità contro il Protestantesimo. L'altro bastione fu l'Italia.").
Da sinistra si tenta un (decrescente) distinguo da tali tesi estreme, si invoca una tolleranza reciproca tra religioni in vista di una società in cui convivano una pluralità di esse, masi dichiara, comunque, l’"arretratezza" dell'Islam (che ci si impegna a superare con i civili metodi della democrazia e del confronto), e si dà volentieri il proprio partecipato contributo a tenere al caldo lo spettro del "terrorismo islamico", che vuol sempre significare che il cuore di quella religione è in grado di sprigionare mostri di cieca violenza (all'anima della tolleranza!).
Il risultato di queste campagne è di mettere gli sfruttati gli uni contro gli altri, "avanzati" contro "arretrati". cristiani contro islamici, occidentali contro orientali, e così via in una babilonia di conflitti che ottiene un decisivo effetto: evitare qualunque saldatura di lotta tra gli sfruttati di tutto il mondo contro il sistema imperante. Divide et impera. Una divisione che è, anzitutto. divisione in seno alla classe proletaria. quella che vive solo con il lavoro delle sue braccia, anche quando è associato a un piccolo capitale (magari del tutto virtuale, core sempre più spesso accade nella new economy dell'"auto-imprenditorialità"').
Sancire l'inferiorità religiosa, colturale, sociale dei popoli non-occidentali equivale a consolidare il potere sii di loro da parte di tutte le istituzioni finanziarie, politiche e militari del "mondo civile e democratico" (alias l'immonda sanguisuga-capital-imperialista). Sancire la loro inferiorità contribuisce anche a consolidare il ruolo subordinato degli immigrati, a giustificare la loro permanenza di gradini più infimi delle "nostre" società, in modo da consentire al padronato grande e piccolo, legale o "in nero". di praticare ai loro danni un vero e proprio sfruttamento differenziale. rispetto a quello subito dai proletari autoctoni, da usare anche contro questi ultimi per limarne ulteriormente le pretese salariali e delle più varie garanzie sociali. sindacali e politiche.
Avverso l'inevitabile e sacrosanta ribellione dei popoli che si oppongono alla sua oppressione, l'imperialismo cerca, così, di ergere una barriera invalicabile diffondendo contro di essi, le loro religioni, le loro culture, un odio viscerale. Chi deve odiare? Il proletario, il lavoratore occidentale. E lui che deve sentire come incolmabile la distanza tra la "propria" civiltà e quella "altrui", è lui che deve arruolarsi nelle milizie anti-islamiche, fare fronte comune con i rappresentanti della civiltà "superiore" contro la barbarie che promana dall'inferno di religioni e pratiche di vita "sub-umane". Tanto più viscerale deve essere il suo odio adesso che frammenti crescenti di questa "sub-umanità" affollano senza tregua il tranquillo orticello di casa propria. Non tutti, certo, sono islamici, ma gli islamici hanno il torto di opporre un rifiuto più forte e visibile contro l'omologazione a schiavi moderni, un rifiuto rafforzato proprio da una religione in cui loro trovano le motivazioni e la forza per resistere. Per questo le campagne contro l'Islam sono contro tutti i popoli oppressi e contro tutti gli immigrati, anche quelli che islamici non sono e non saranno.
Leaders laici e credenti, di destra e di sinistra, centralisti e federalisti, tutti costoro sono, insomma, al fedele servizio del capitalismo imperialista globalizzante che può conservare il suo dominio sul mondo intero alla sola coridizione di mettere gli sfruttati gli uni Contro gli altri.
Dentro al proprio cuore, questi campioni di religiosità, di identità culturalireligiose o di tolleranza, hanno, tutti, una sola cosa: l'amore imperituro per il sistema economico e politico che li ingrassa, che fa strame della vita dei popoli oppressi dal suo dominio e depredati dai suoi metodi mercantili, democratici o militari. Dichiarati cantori della globalizzazione (alla Berlusconi e alla D'Alema) e trucidi combattenti antiglobalismo (alla Bossi e alla Haider) sono su questo decisivo terreno, in perfetta linea di obbedienza e sudditanza ai diktat dei poteri forti mondiali.
Queste crociate raccolgono, però, un'attenzione popolare crescente. Ciò non avviene solo per merito del bombardamento mediatico (che pure c'è e gioca il suo ruolo), né avviene solo perché è comodo scegliere nemici più deboli quando non ci si sente in grado di affrontare quelli veri e potenti. Non si tratta, insomma, di semplice strabismo, che si possa correggere con una semplice (pur necessarissima) dose u quale e contraria di sana ri-educazione culturale e politica.
Il fatto è che campagne di questo tipo si alimentano (e, a loro volta, ri-alimentano) di un sentimento che si va diffondendo nel popolo lavoratore bianco, un sentimento che parte da una presa d'atto semplice e vera: l'integrazione tra popoli portatori di grandi differenze religiose, culturali, di vita sociale, è fallita ovunque sia stata dichiaratamente tentata. Gli Usa, la Gran Bretagna. la Francia e la Germania stanno lì a dimostrare la profondità di questo fallimento: non solo non c'è stata integrazione, ma c'è stato il proliferare di ghetti, di isolamento e di contrapposizioni spesso violente.
Quando la sinistra disegna felici mondi multi-etnici, multi-culturali, multi-religiosi, chi ha occhi per vedere, vede chiaramente in controluce la realtà di un mondo multi-ghettizzato e multi-conflittuale. È una visione incontestabile. Ma, perché ciò è avvenuto e avviene? Per colpe intrinseche di questa o quella religione, o perché determinati popoli sono geneticamente portati a instaurare con gli altri dei rapporti conflittuali? No. La realtà è che, in primo luogo, tutti gli spostamenti avvenuti da quando esiste il capitalismo sono spostamenti forzosi (per secoli furono basati direttamente sulla violenza fisica, decine di milioni di africani furono deportati in America, e, oggi, sono determinati da una violenza non meno infame, quella della miseria indotta e della disperazione), e, in secondo luogo, perché lo stesso sistema che produce gli spostamenti soffia sul fuoco delle differenze, perché trae un beneficio enorme dallo stato di conflitto tra i diversi popoli e le diverse etnie. La stessa parola -integrazione", nel vigente ordinamento capitalista, non può che esprimere un profondo sentimento razzista, perché presuppone che lo straniero debba rinunciare alla propria identità. o, per lo meno, a tutti quei tratti di identità che sono in contrasto con il sistema nel quale. altrimenti, non potrebbe mai integrarsi. Non può che essere fallimentare. ma date le condizioni in cui il capitalismo realizza il suo melting pot, non può che essere impossibile anche la semplice convivenza pacifica.
Alla presa d'atto sul fallimento dell'integrazione si somma, poi, la percezione di come l'afflusso di manodopera a basso costo rovini le condizioni di mercato anche per i lavoratori locali, di come anche la vivibilità dei quartieri sia degradata dall'insediamento di abitanti che si accontentano di vivere in case fatiscenti, nonché di come un certo numero di loro finiscano con il diventare manovalanza della micro-criminalità, che ha a oggetto inevitabilmente la micro-proprietà, cioè esattamente quel gruzzoletto che un normale lavoratore e la sua famiglia possono riuscire ad accumulare coi propri sforzi di lavoro e di risparmio.
Non manca una certa comprensione dei motivi che provocano questi effetti, e, cioè, che si emigra per le condizioni di miseria dei propri paesi, che si è costretti a vivere in case vecchie e sovraffollate a causa delle condizioni di povertà (si ammette meno che su questo pesa lo stesso razzismo dei locali, che fa ottenere ai proprietari di case il bel colpo di affittare case altrimenti fuori-mercato a prezzi da residence di lusso!) e che la stessa criminalità gonfia le sue fila di disoccupati senza prospettive. Si dovrebbe con ciò riconoscere che gli immigrati immigrati sono le vittime prime di un sistema che spinge al degrado le loro condizioni di vita e che peggiora la vita degli stessi lavoratori occidentali, al contrario si arriva al massimo a concludere di "aiutarli a casa loro-, il che vuole pur sempre dire: che se ne tornino a casa loro!
Ammesso pure che ciò avvenisse, le aziende smetterebbero, forse, di far precipitare i saltai e di prolungare i tempi di lavoro? Lo stato e le banche smetterebbero di ingigantire con imposte e interessi i loro prelievi sul lavoro dipendente e autonomo? Lo stato smetterebbe di dirottare i suoi fondi ai profitti lasciando nell'incuria gli ambienti di vita sociale delle classi sfruttate? I lavoratoti troverebbero più tempo da dedicare alla loro vita sociale e affettiva? La logica dell'arricchimento slegata dal lavoro cesserebbe di diffondersi e di alimentare la criminalità piccola e grande? No, nulla di ciò si realizzerebbe. II degrado continuerebbe inarrestabile fino a quando i lavoratori non si decideranno a lottare contro chi davvero lo provoca. E, allora, non è più utile e logico stringere un'alleanza di lotta assieme agli immigrati, che sono le vittime principali del degrado, piuttosto che azzuffarsi con loro per il piacere di chi si ingrassa sulle miserie di entrambi?
Ma c'è ancora dell'altro, qualcosa che agita dal profondo e che induce al rifiuto dell'Islam e dell'immigrato. Si tratta di una spinta a voler realizzare una comunità reale, che per essere tale abbia in comune la cultura, le leggi, i costumi e la fede religiosa. Essa nasce dall'esigenza di dover fare i conti con una globalizzazione che spiana come un rullo compressore ogni diversità e tende a plasmare ovunque individui identici in ogni cosa, nei prodotti di consumo, nelle aspirazioni, nei comportamenti e, ultimo e più importante, nella schiavitù produttiva, ovvero produttori indefessi di ricchezza (di cui altri si appropria) e appagati da un frugale (pur tuttavia differenziato tra metropolitani e immigrati, tra occidentali e popoli oppressi!) consumo ridotto al minimo indispensabile per sopravvivere. Individui slegati da orni vincolo di comunità, privati di ogni valore che non sia il raggiungimento del1'"efficienza economica" dettata dalle leggi del mercato, e, quindi in perenne concorrenza, scontro, tra di loro. Persino un Baget Bozzo con questo sentimento ci civetta: "Vogliono distruggere ogni comunità per ottenere solo una società di individui" (la Padania, cit.).
La globalizzazione spiana ogni diversità e costringe a convivenze forzate e forzatamente conflittuali, ma, allo stesso tempo, comincia a venire in luce anche come la stessa comunità esistente, la comunità politica statuale, sia, a sua volta, una comunità del tutto fittizia, il cui scopo non è quello di dare soddisfazione ad alcun bisogno davvero umano, ma solo di servire a chi detiene le leve del potere economico-finanziario, e che realizza questa missione attraverso un gigantesco e famelico apparato politico-burocratico-militare che non è affatto al servizio di tutti i mèmbri della società, ma che anzi ha verso la maggioranza di essi un rapporto di puro dominio e di controllo, di vera e propria potenza estranea e nemica.
Pecchiamo d'eccesso nel rilevare questa dinamica? Si leggano, allora, le parole di un Bossi: "L'idea giacobina del comunismo che lo Stato si identifichi con il cittadino, al punto che il cittadino stesso non possa ribellarsi allo Stato perché è come se si ribellasse a sé stesso, ha fatto molta strada. Le istituzioni, quand'anche fossero nate per difendere i popoli, a volte si comportano come se i popoli, che sono la dimensione sociale dell'uomo, fossero degli oggetti a loro disposizione." (la Padania, 15.12.00)
C'è molto da scremare in questa dichiarazione. Anzitutto l'attacco al comunismo quale propugnatore di uno Stato che è, invece, creatura propria del capitalismo. È senza dubbio vero che il "socialismo reale" (e i suoi epigoni d'ogni dove) ha messo lo Stato al centro dei suoi programmi e al vertice dei suoi strumenti, ma questo era, ed è, in diretto contrasto (per ragioni che abbiamo tante volte richiamato) con il comunismo, quello senza aggettivi di cui Marx ha dato fondamenti e corollari, compresa una denuncia dello stato che riecheggia anche nelle parole di Bossi (suo malgrado). Secondariamente, i giudizi di Bossi sullo stato non portano, certo, a programmi di lotta per disfarsene e neppure a ridimensionarlo, al contrario, portano a programmi che cercano di rigenerarlo, nel tentativo di restituirgli quella "legittimità popolare" che va perdendo, inseguendo riforme federaliste che portino l'amministrazione e la politica, cioè lo stato, "più vicino" ai cittadini. È un programma francamente reazionario, che cerca di deviare quella coscienza che fa capolino sullo e contro lo stato verso un rilancio di questo. Ma, nonostante tutto ciò, quelle parole sono (assieme a tante altre parole, non del solo Bossi, e a tanti eventi, piccoli quanto si vuole, nei più sperduti punti del pianeta, anzitutto dove lo stato ha raggiunto la sua dimensione più compiuta, e, cioè, nei paesi dell'Occidente imperialista) rivelatrici esattamente di una spinta più profonda, di una percezione che si va facendo spazio tra le classi lavoratrici.
L'aspirazione a una comunità umana vera, reale, che si contrapponga all'omologazione forzata della globalizzazione e alla comunità fittizia costituita dallo stato, è, dunque, un'aspirazione giustissima, che deriva da una presa d'atto -e che presa d'atto!- di aspetti fondamentali del capitalismo. Potrebbe una Padania, o una qualunque altra patria "omogenea", piccola o grande, realizzarla?
Innanzitutto, essa non potrebbe fare a meno dello stato, perché ogni società divisa in classi ne ha bisogno, necessita, cioè, di un apparato politico-burocratico-militare che difenda il diritto di una classe ad accumulare i suoi capitali e l'obbligo per le altre di fornire il proprio lavoro per consentire l'accumulazione. Secondariamente, essa non potrebbe isolarsi dal resto del mondo, in nessun aspetto, a partire da quello economico.
Anche ammettendo che i lavoratori riescano a conquistare delle condizioni meno vessatorie nei confronti dei "propri" padroni, queste durerebbero ben poco, dato che il capitalismo è mercato, concorrenza, profitto, sfruttamento del lavoro. Non solo. Nell'era moderna l'auto-sufficienza è impossibile, persino a scala europea, e, di conseguenza, il commercio con 1"'estero" è indispensabile. Le merci "estere" si porterebbero dietro, irrimediabilmente, una concorrenza ancora maggiore, e con essa riprenderebbero il pieno sopravvento nella piccola (o grande) patria tutte quelle leggi del mercato che rendono il lavoro sempre più schiavo dei profitti industriali e finanziari. La globalizzazione non rimarrebbe fuori dei confini, la vita di chi lavora continuerebbe a degradarsi, la comunità resterebbe fittizia come quella attuale, se non più.
Una comunità reale, davvero umana, non si può creare se non si bloccano le politiche con cui le multinazionali e gli stati imperialisti depredano il mondo intero, devastano l'ambiente naturale, immiseriscono interi popoli, li condannano alla morte per fame, per avvelenamento ecologico o per bombardamenti. Ogni atto del genere non è indifferente neanche per la più piccola e auto-protetta comunità, ma produce effetti a catena che si riversano ovunque. Non ci sono confini super-protetti che possano fermare le masse di disperati prodotti dalla rapina e dalle guerre imperialiste. Non ci sono protezioni che possano fermare l'inquinamento prodotto dalle produzioni industriali e dai consumi imposti dal sistema capitalista (super-profittevoli per gli investitori di capitale e super-distruttivi per la natura) o dalle bombe più o meno umanitarie. Non ci sono protezioni contro la concorrenza sempre più violenta del mercato mondiale, ne barriere contro i capitali fìnanziari che sottopongono alla loro usura ogni attività produttiva, anche la più minuscola e formalmente "indipendente".
O si accetta il dominio dell'imperialismo e ci si schiera dalla sua parte trasformandosi in milizia al suo servizio per opprimere e rapinare i popoli di interi continenti non-occidentali, o ci si schiera contro l'imperialismo, e, quindi, dal lato di quei popoli, per lottare assieme a loro contro l'unitario sistema che sfrutta loro e i lavoratori occidentali (per quanto in modo fortemente differenziato). I popoli oppressi e ribelli, gli immigrati, non sono nemici, ma sono una risorsa fenomenale per un proletariato, per i lavoratori occidentali che vogliano davvero condurre una lotta contro il proprio sfruttamento, contro il capitalismo che nella sua ansia di profitto non si ferma neanche dinanzi alla distruzione degli uomini, della natura, ne esita a scatenare guerre e stermini.
Una comunità reale, vera, i lavoratori, i proletari dell'Occidente possono crearla, dunque, solo lottando insieme agli immigrati e ai popoli oppressi, islamici e non, e non contro di essi.
Non quindi contrapposizioni religiose, culturali, identitarie, conflitti. Tutto ciò fa esattamente il gioco di quei poteri forti contro i quali si comprende di dover lottare per difendere le proprie condizioni di vita.
Neanche, però, ricerca di una "tranquilla" convivenza tra "diversi", tolleranza reciproca, "scambio" e confronto "culturale", che lascia ognuno nel "suo" e tutti sfruttati (sia pure -la ripetizione non annoi, è tema da tenere sommamente presente- a livelli differenziati).
No, nessuna di queste soluzioni risolve davvero qualcosa degli immensi problemi che assediano (essi sì, non gli immigrati!) la vita del proletariato, cioè della classe che vive esclusivamente del proprio lavoro. Quel che serve è la ricerca di una ferrea unione sul terreno fondamentale per entrambi della contrapposizione antagonista al sistema capital-imperialista, una vera comunità di lotta.
Non è una cosa facile da realizzare, e per la quale bastino più o meno ripetuti appelli. Su di essa pesano due immensi problemi. Il primo è che il proletariato metropolitano non ha, al momento, alcuna reale determinazione a contrapporsi alle politiche dei "propri" stati, delle "proprie" aziende. Decenni di politica e di pratica riformista lo hanno consegnato, disorientato e abulico, al nuovo pesante attacco che gli viene condotto alle condizioni materiali, sindacali e politiche, incapace, quindi, di vedere una propria prospettiva di classe che non sia al carro dello stato e delle aziende (l'uno magari da "alleggerire", le altre da chiamare, tuttalpiù, a una "responsabilità sociale" nei confronti del territorio di insediamento). Il secondo è che egli stesso ha finora beneficiato (e tuttora beneficia, sia pure in modo decrescente) delle (per quanto misere) briciole che il "proprio" imperialismo gli distribuiva degli sconfinati profitti che realizza nello sfruttare i popoli oppressi dal suo dominio. E, in virtù di ciò, è abbagliato dal guadagno che gli deriva dal mantenimento dell'ordine mondiale caro all'imperialismo occidentale.
Sull'uno e l'altro problema è necessario che si impegni tenacemente un'avanguardia saldamente orientata, in grado di cogliere, rafforzare e indirizzare tutti quegli elementi di lotta e di antagonismo che emergono dal sotto-suolo sociale e politico, per lavorare a una ripresa dell'autonomia politica e dell'organizzazione di classe del proletariato, nel cui quadro inserire anche una dura battaglia tesa a rieducare il proletariato metropolitano dal suo proprio razzismo nei confronti degli immigrati e dei popoli oppressi.
Per realizzare una vera comunità di lotta non si può, quindi, prescindere da un aspetto decisivo, e, cioè, che, finora, il proletariato occidentale non ha dato alcun segnale di dissociarsi dalle politiche di rapina dei "propri" stati e istituzioni economiche e finanziarie. Di conseguenza, i popoli oppressi e gli immigrati si sentono, giustamente, oppressi e sfruttati da tutti gli occidentali indistintamente. Se ne vuole conquistare la partecipazione a un fronte comune di lotta, il proletariato occidentale deve dimostrare di volersi davvero distinguere da ogni politica imperialista. Il che può fare a due sole condizioni: 1. Lottare costantemente contro ogni politica di rapina, di oppressione e guerra degli stati imperialisti; 2. Dissociarsi apertamente dalle politiche razziste, cioè da tutte quelle politiche che si basano sulla presunzione che qualsiasi cosa derivi da popoli non-occidentali sia immancabilmente "arretrata", "arcaica", "disumana".
Sono entrambe condizioni che richiedono un duro impegno (che troverà un indispensabile "aiuto" nelle esperienze dirette di lotta di massa, che, inevitabilmente, l'incancrenirsi delle contraddizioni antagoniste del sistema costringerà a mettere in campo), ma la seconda merita un'attenzione tutta particolare.
I popoli oppressi e gli immigrati non sono la causa dei problemi che diffondono malessere nelle società occidentali, ne sono, al contrario, le prime vittime. Quando si ribellano, lo fanno contro quel sistema di sfruttamento mondiale che li vuole schiavi sottomessi per rapinarli di ogni risorsa naturale e umana. Quando emigrano, lo fanno proprio per sfuggire alle condizioni di miseria causate da quella rapina sistematica e crescente. I loro non sono viaggi della gioia alla ricerca del multi-culturalismo, ma sono viaggi obbligati, in tutto simili alle deportazioni che ne ha fatto, per secoli, lo schiavismo. Quando, di conseguenza, rifiutano il "nostro" sistema di valori, di cultura, di religione, essi rifiutano esattamente quel sistema che li depaupera e li sfrutta. Più "noi" vogliamo "aiutarli" a "ripulirsi" delle loro "arretratezze", più partecipiamo, nei fatti, all'oppressione ai loro danni, la giustifichiamo e la rendiamo possibile. Per questo, il primo fondamentale passo per giungere a una vera comunità di lotta con loro è proprio quello di riconoscere che il loro legame con le proprie religioni, con le proprie tradizioni e costumi è null'altro che un modo di opporre resistenza a omologarsi e sottomettersi alle leggi, alle religioni e ai costumi di un sistema che li opprime.
Possono queste religioni, tradizioni, ecc., liberarli davvero dallo sfruttamento capital-imperialista? No, non lo possono affatto. Ma per liberarsi dallo sfruttamento è necessaria una lotta internazionale contro il capitalismo, in cui proletariato metropolitano e sfruttati delle periferie fondano le proprie forze in un sol blocco per abbattere il sistema presente e schiudere le porte a una società che non abbia profitto, denaro, stato, concorrenza nei rapporti umani e tra i popoli, che non schiavizzi le donne nel lavoro, nella casa e come oggetto di piacere, che non obblighi a spostamenti forzosi e a omologazioni innaturali, che schiuda, insomma, le porte al comunismo. Fare emergere questa prospettiva di lotta è compito anzitutto del proletariato metropolitano. Finché lui rimarrà sotto le ali protettive della chioccia capital-imperialista, questo sistema apparirà un mostro imbattibile. E, fin quando questa prospettiva di lotta non emergerà con forza, sarà inevitabile che i popoli oppressi dall'imperialismo baseranno la loro resistenza sul tentativo di difendere le proprie tradizioni e i propri costumi di vita.
Il proletariato occidentale deve, dunque, rifiutare di arruolarsi nelle campagne anti-islamiche, e tendere a costruire con i popoli oppressi e con gli immigrati un comune fronte di lotta, di vera fratellanza e comunità contro il capitalismo. Ma, per conquistarli come fratelli di lotta, deve dimostrare di essere davvero loro fratello, di volersi davvero affrancare da secoli in cui ha partecipato alla loro oppressione, evitando di cadere nella trappola social-imperialista di volergli imporre i "nostri" usi e costumi, che non sono, poi, meno barbari dei loro (anzi, lo sono, forse, di più), essendo gli usi e costumi della società capitalista, della società che infanga tutto trasformando in mercé, concorrenza, sfruttamento anche i rapporti più naturali e naturalmente umani.
La globalizzazione costituisce solo un ulteriore balzo in avanti del capitalismo lungo la sua corsa irrefrenabile verso il profitto. Questo balzo esaspera tutte le sue contraddizioni. Sono queste che degradano ulteriormente l'ambiente naturale e sociale nel quale vivono i lavoratori occidentali, non certo 1 " 'invasione' ' degli immigrati o degli islamici. Condizioni di vita più umane si possono conquistare solo insieme, lottando contro la vera causa della degradazione disumana della vita di entrambi, il capitalismo.
Non lotta contro l'Islam, dunque, o per ricacciare gli immigrati nelle loro case, ma lotta contro il sistema che li costringe ad abbandonarle, per togliere alle emigrazioni il segno attuale di costrizione, di schiavitù.
Non lotta contro l'Islam, dunque, ma lotta per conquistare agli immigrati la piena uguaglianza con le condizioni di lavoro, sindacali e politiche dei lavoratori occidentali, per conquistargli la libertà dal ricatto dell'espulsione che li depriva della possibilità di difendersi e organizzarsi, per difenderli da ogni tentativo di violentare la loro identità culturale, religiosa, di vita, ossia tutto ciò che fa parte del loro bagaglio di lotta per resistere all'oppressione e allo sfruttamento.
Non lotta contro l'Islam, ma lotta per gettare un ponte, attraverso l'affratellamento con gli immigrati, verso i lavoratori islamici e verso tutti i popoli oppressi dall'imperialismo. Lotta contro gli stati, le multinazionali, le istituzioni mondiali del capitalismo, che li sottomettono e li schiavizzano, e che giustificano la propria opera con ipocriti propositi di elevarli dal sottosviluppo e dall'"arretratezza".
Contro la segregazione in fabbrica e fuori!Un esponente veneto di Confindustria, Tognana, convoca una conferenza stampa per criticare alcune leggi in preparazione al parlamento. Le critiche più dure sono destinate alla legge sulle Rsu, che avrebbe il terribile torto di schiudere le porte alla possibilità che si formino nelle fabbriche del Nord "la rappresentanza degli albanesi e quella dei marocchini, o un sindacato islamico". Il "mondo politico e sindacale" insorge all'unisono (per quel che costa…) contro queste intollerabili "espressioni razziste" ; il Tognana non riceve alcun attestato di consenso, in compenso è sommerso di lezioni di bon ton. Persino chi dovrebbe essere suo alleato "naturale" (secondo la rappresentazione della sinistra governativa, d'opposizione e " antagonista" ), cioè la "xenofoba" Lega Nord, gli dedica una reprimenda. Anzi, su la Padania del 24.1 compare a tutta pagina il titolo "Per gli stranieri 'solo' lavoro", corredato da dichiarazioni di un deputato leghista e della rappresentate del Sin.pa. Tognana vi viene inchiodato alle sue ragioni di classe :per voi padroni gli immigrati sono solo strumenti di lavoro, perciò avete paura a riconoscergli i diritti sindacali. Ben detto! E se lo dice qualche esponente della Lega è perché sono in tanti in quel partito a pensarla allo stesso modo, senza dubbio sono in maggioranza lavoratori che hanno ben compreso il valore dell'organizzazione sindacale per sé stessi, ma hanno anche compreso che questa non vale a niente se ne restano esclusi gli extracomunitari. È proprio così. Accettare che gli immigrati vengano confinati, nelle aziende, in un mondo a parte, senza diritti sindacali, è per i lavoratori bianchi contro-producente. Ma, proprio per questo, è necessario chiedersi se il solo riconoscimento legale di questo diritto può emancipare gli immigrati dal mondo "a parte" nel quale vengono rinchiusi. A che vale, infatti, scrivere su una legge che qualunque gruppo di almeno 5 lavoratori è libero di presentare una lista per le Rsu aziendali, a prescindere dalla nazionalità, quando un ciclopico apparato legislativo e di forze militari impone a ogni immigrato il ricatto continuo dell'espulsione, concedendogli solo (quando li concede...) "permessi dì soggiorno" continuamente da rinnovare? Vale a significare che gli immigrati possono esercitare il diritto a sindacalizzarsi in proprio sotto la marcatura stretta di chi decide sulla concessione e sulla rinnovabilità dei permessi, il che vuoi dire mettere nelle mani dei padroni e dello stato un potentissimo mezzo di controllo e di pressione politica. Insomma una libertà scritta sulla carta e negata nei fatti, una di quelle libertà per le quali i parlamenti hanno sviluppato una vera e propria arte dell'ipocrisia e dell'inganno, che nei confronti degli immigrati viene esercitata allo scopo di trattarli come semplici strumenti di lavoro, privi della possibilità di organizzarsi e difendersi. E, ancora, a che vale riconoscere questi o altri diritti formali per gli immigrati che "ormai vivono qui" mentre la rapina imperialista crea ogni giorno le condizioni che costringono una massa crescente di lavoratori a cercare in Occidente, o nel proprio paese, il modo di sopravvivere alle condizioni più comode per i Tognana di turno? E, infine, si può lottare per riconoscere agli immigrati i pieni diritti sindacali e politici per sottrarli alla "libera disponibilità" dei padroni senza rivoltare di 180 gradi ogni politica che sostiene la loro irrimediabile "arretratezza" proprio per giustificare il loro confinamento in un "mondo a parte" ? |