UN PICCOLO, MA SIGNIFICATIVO EPISODIO
DI LOTTA DI CLASSE A ROMA

 

Il 25 Luglio scorso cinque immigrati del Pakistan abitanti al Pigneto, quartiere popolare di Roma, per aver richiesto di regolarizzare con un vero contratto una situazione abitativa che si trascinava "al nero" dal ’98, venivano cacciati in strada dal padrone di casa. Lo sfratto, subito denunciato dagli immigrati al loro coordinamento romano di lotta, veniva eseguito da uomini sicuramente assoldati dal padrone di casa (tra loro anche alcuni immigrati dell’est, portati sul posto da un furgone da trasporto edile e con indosso ancora le tute da lavoro).

Durante lo sfratto, gli immigrati pakistani venivano minacciati con i coltelli e subivano il furto dei risparmi e degli effetti personali (telefonini, libretti di lavoro, passaporti). Gli indumenti erano buttati nei cassonetti dell’immondizia. Nell’abitazione veniva staccata la corrente e rimossa una scala interna in ferro, e, a conclusione del blitz, la porta esterna veniva serrata con un lucchetto. Il padrone di casa, assieme a un "compare", dava vita a un pattugliamento della zona e, con fare mafioso, minacciava gli immigrati perché non rientrassero più in casa.

Gli immigrati, frastornati, chiedevano l’intervento dei carabinieri. Questi, arrivati sul posto, non solo non li facevano rientrare in casa ("non possiamo violare la proprietà privata se non ce lo ordina il magistrato…"), ma per poco non li portavano in caserma per accertamenti, dato che due di loro risultavano in attesa del permesso di soggiorno e un altro aveva in corso un piccolo procedimento in un’altra città. Il tutto si svolgeva davanti alla casa e in presenza del padrone che, con fare sfrontato, dichiarava di non conoscere gli immigrati e li invitava anche a denunciarlo, tanto: "ci vediamo fra due, tre anni in tribunale". La situazione si protraeva fino a tarda sera e si chiudeva con la richiesta dei carabinieri dell’intervento dell’ufficio tecnico del comune per accertare l’abitabilità della casa e con frasi di "incoraggiamento" del tipo: "passerete la notte di fuori, ma siete fortunati, il tempo promette bene".

Per come sono andati i fatti il carabiniere ci azzeccò. Infatti, fin dalla prima notte e per tutti e sei i giorni successivi, durante i quali gli immigrati si organizzarono per riprendersi la casa, il tempo lavorò a loro favore e non solo sul piano atmosferico, ma soprattutto su quello di classe.

La notte stessa, gli immigrati piantarono una tenda davanti alla casa, a significare che non se ne sarebbero andati finché la situazione non si fosse risolta positivamente. In questo modo, da un lato dimostravano di non voler piegare la testa; dall’altro, chiamavano allo schieramento i lavoratori e i proletari bianchi del quartiere. I frutti di questo giusto atteggiamento non sono tardati. Fin dal mattino seguente, infatti, la gente del quartiere cominciò ad avvicinarsi alla tenda per informarsi, si formarono capannelli e al racconto degli immigrati l’indignazione cresceva sempre di più. Iniziarono primi piccoli, ma significativi, gesti di solidarietà: alcune casalinghe e donne anziane portavano cibo alla tenda; un gruppo di giovani del Pigneto iniziò a denunciare l’accaduto, fino all’appoggio, giorno dopo giorno sempre più sentito, visibile e tangibile, del comitato di quartiere. La tenda diventò di colpo punto di incontro e di denuncia per molti altri immigrati del quartiere. Durante questi momenti di vita collettiva, un’anziana bambinaia (non baby-sitter, ma bambinaia, come lei stessa ci teneva a sottolineare) denunciò, ad esempio, la condizione di sfruttamento e invivibilità cui lo stesso padrone di casa, in un altro appartamento della zona, teneva una decina di lavoratori filippini. Durante le discussioni tra proletari, bianchi e immigrati delle più diverse nazionalità, si venne anche a sapere che il bastardone un po’ di tempo prima aveva già cacciato dalla stessa casa, e nello stesso modo, altri immigrati di origine maghrebina, ma che questi non avevano avuto la forza di denunciare l’accaduto anche perché gli immigrati ancora non avevano cominciato a organizzarsi come invece ora accade a Roma e in altre città d’Italia.

In questo clima di reciproca conoscenza, aiuto, discussione, confronto e denuncia, è maturata una spontanea e unitaria determinazione di lotta tra immigrati e proletari bianchi, e nella giornata del 31 luglio gli immigrati sono rientrati nella loro piccola casa con un atto di forza collettiva, dopo un’assemblea pubblica con un centinaio di persone. Il padrone, visti gli immigrati di nuovo in casa, chiamò i carabinieri che, una volta arrivati, cercarono di rientrare con lui in casa. A questo punto è accaduta una cosa molto bella, che a Roma non si vedeva da anni. I lavoratori, gli immigrati, i giovani presenti, tutti assieme, "improvvisamente" si sono ribellati: mentre un compagno al megafono denunciava l’ingiustizia subita dagli immigrati, gli altri presenti si posizionavano davanti all’entrata della casa e ne impedivano l’accesso. Cominciarono urla, invettive, slogans ritmati contro il padrone ("sfruttatore!", "fuori!", " vai via!") e una proletaria, senza alcun timore dei carabinieri che lo difendevano, lo affrontò di petto e lo ridicolizzò davanti a tutti. La gente dai balconi annuiva e batteva le mani; alcuni ragazzi, tipo ultras da stadio, circondarono l’amico del padrone che nei giorni precedenti giocava a fare il mafioso nelle vie del quartiere, e gli fecero capire con poche battute che era meglio per lui andare via. Non ci fu bisogno di dirglielo due volte…

Di fronte a una reazione così forte, gli stessi carabinieri rimasero increduli, paralizzati, non sapendo più cosa fare! Dopo una serie di conciliaboli e contatti via radio dissero al padrone che poteva fare una denuncia, salutarono e andarono via… Gli immigrati con l’aiuto dei proletari bianchi, riprendevano possesso della casa, felici e con le lacrime agli occhi. Un lavoratore dell’Enel gli riattaccava la luce, un altro si interessava per il gas, altri aiutavano a pulire. Un moto di solidarietà e di gioia vera.

Inutile dire che il padrone non s’è fatto più vivo e che l’affitto, dopo una brevissima valutazione fatta con i compagni e il comitato di quartiere, è stato autoridotto dagli immigrati.

Un episodio di lotta di classe, piccolo ma molto significativo. Dimostra che per il proletariato non c’è altro da fare che lottare e organizzarsi per qualunque suo bisogno, e; soprattutto, dimostra che un terreno di lotta comune tra immigrati e proletari italiani è possibile e necessario per entrambi.