Israele si ritira dal Libano

Le masse arabe che esultano
sono chiamate anche a disfarsi
della politica delle proprie borghesie

 

Lo scorso maggio l’esercito israeliano si è ritirato dal Libano del Sud che occupava da oltre vent’anni. Le masse libanesi hanno esultato e un’eco di ciò si è avuta tra le masse dell’intero mondo arabo. Al tempo stesso l’Occidente ha approntato il rafforzamento e la ridislocazione delle truppe Onu per coprire senza indugi il "vuoto" lasciato da Israele. Non si può dire che nell’area non stia succedendo nulla. Cosa c’è dietro la sequenza empirica di questi fatti?

Una cosa è esclusa, che si tratti dell’abbandono da parte israeliana e dell’imperialismo della presenza nella zona e della presa sugli sfruttati arabo-islamici. Piuttosto, assistiamo a un relativo sganciamento dello stato di Israele dal coinvolgimento diretto in Libano -nella forma dell’occupazione militare in loco divenuta in certa misura onerosa e controproducente- legato, questo, alle manovre imperialiste di ridefinizione delle forme di controllo sull’area. Un controllo che deve passare, nei piani occidentali e americani in primis, anche -se non soprattutto- attraverso l’attizzamento e l’uso dei contrasti aperti o dei conflitti potenziali tra i governi arabi, tra questi e le direzioni della resistenza palestinese e libanese, tra queste ultime fra di loro e al proprio interno. Ritiro dal Libano sì, ma per proseguire e, se possibile, generalizzare la politica imperialista di libanizzazione all’intero scacchiere mediorientale, sull’esempio di quello che è successo -complici, a diverso grado, tutte le direzioni del "fronte arabo"- sul terreno libanese dagli anni ’70 in poi.

Sicuramente hanno contato altri fattori e tra questi, in misura non trascurabile (e oltremodo interessante), anche le ricadute dell’occupazione militare sulla società israeliana. Più di milleduecento caduti e un alto numero di feriti, l’altissima percentuale di famiglie con almeno un figlio che è stato al fronte, una certa perdita di fiducia o per lo meno la crescente demotivazione tra i ranghi bassi dell’esercito -con un reciproco rimando di causa ed effetto tra fronte interno e fronte militare- tutto ciò ha reso difficile continuare un’occupazione che oramai veniva vista con sfavore in più di un settore della popolazione israeliana e anzi ha suscitato un embrione di opposizione (ad esempio, un attivo comitato delle madri che hanno perduto i figli in Libano). Del resto il quadro sociale ed economico ha non da ora iniziato a manifestare linee di frattura che tendono a polarizzare la popolazione, quand’anche non (ancora) lungo nitide linee di classe

Ha giocato poi -terzo ordine di cause- la reazione delle masse libanesi, la loro determinazione e continuità nella resistenza all’occupante, pur superiore militarmente, di fronte al quale non hanno mai abbassato la testa nonostante tutta l’arrendevolezza, i cedimenti, le complicità col nemico delle loro direzioni. (Non a caso queste hanno dovuto incassare la crescente presa, tra le masse, di un’organizzazione come Hezbollah più determinata nella lotta, che pure non potrà portare fino in fondo). È questo l’elemento che ha fatto del Libano del Sud un territorio sempre più ostile e sempre meno controllabile per Israele. Si è trattato di una resistenza dalla chiara connotazione plebea (ché le classi proprietarie e i vari notabilati ben si sono guardati da un’attiva partecipazione ad essa), il cui serbatoio è rappresentato dai contadini poveri o senza terra e dai salariati. La lotta di questi strati non poteva che portare, di conseguenza, una chiara istanza di riscatto sociale. E in effetti la risposta non si è data semplicemente sul terreno del confronto armato con i militari israeliani, ma anche e soprattutto su quello dell’organizzazione (e, per certi versi, se guardiamo alla tradizione di lotta delle masse libanesi, riorganizzazione) sociale e sindacale delle masse, portata avanti in prima persona anche con la costruzione di una ramificata rete di sostegno "assistenziale" che supporta, raccoglie e organizza gli strati poveri coinvolgendo l’insieme della popolazione anche al di là delle appartenenze religiose (non perchè questa attivizzazione sia a-religiosa, attenzione, ché anzi è proprio il richiamo a un Islam comunitario e popolare a essersi maggiormente caratterizzato per l’azione su questo terreno). L’odio anti-israeliano si è qui legato alla ripresa di intervento su temi che toccano direttamente le condizioni di esistenza degli strati diseredati, il che rappresenta le premesse per un rinnovato protagonismo delle masse diseredate sul terreno politico dello scontro tra classi antagoniste nella società libanese. Un elemento, questo, che va al di là degli sviluppi immediatamente connessi al ritiro israeliano.

Analogo significato riveste il modo in cui la vicenda è stata accolta dalle masse arabe, a partire da quelle palestinesi del Libano e dei territori occupati, che hanno gioito e manifestato questa gioia nelle strade. È stato come uno sfogo - dopo anni di arretramenti e cedimenti delle direzioni arabe - di un sentimento di riscatto, con il senso di potere finalmente vincere o almeno battersi veramente. È uno stato d’animo comprensibile e sacrosanto che saremo noi gli ultimi a disprezzare o trascurare. Perchè se è vero che il ritiro di Tsahal non è merito solo (né primariamente) delle masse libanesi, è altrettanto importante la modalità con cui, in tutti i paesi arabi, gli sfruttati hanno vissuto il fatto, e la volontà di lotta che vi hanno "proiettato". Sappiamo che i passaggi da questa istanza anche solo ai primi passi per una sua realizzazione saranno oltremodo difficoltosi. L’importante però è che si sviluppino energie, sentimenti e "idee" che dovranno fare i conti con la mole di problemi cui la condizione di oppressione delle masse arabe è legata.

Questi problemi, infatti, il ritiro israeliano non li ha affatto risolti. Di ciò deve prendere atto chiunque abbia a cuore la causa degli sfruttati. Si prenda la questione dell’unità delle masse arabe. Non si può affermare che, con questa "vittoria", le divisioni tra gli strati oppressi di diversa nazionalità o religione siano state, anche solo in Libano, superate. È vero che l’aggressione sempre più aspra dell’imperialismo (e dello stato sionista) a tutte le masse oppresse arabe non solo non cancella, ma esige ed evoca oggettivamente la loro unificazione. Solo che questa non si potrà dare -punto primo- con un presunto "fronte unico" arabo-islamico che accorpi sfruttati e borghesie insieme. Le borghesie arabe e gli stati che ne sono espressione (compresi quelli "progressisti") hanno in mille e una occasione dimostrato la loro disponibilità al compromesso, quando non la vera e propria complicità verso Israele e l’Occidente (cui sono avvinti da legami economici e non solo), la volontà di non dare spazio all’attivizzazione delle masse povere e di difendere fino in fondo, invece, gli interessi delle classi sfruttatrici, la definitiva rinuncia all’unità panaraba. Da questo "tradimento" - che ha profonde radici nelle relazioni di classe - non potrebbero riscattarsi neanche laddove in futuro dovessero essere costretti a una nuova guerra da Israele o dall’imperialismo o da entrambi. Ma l’unificazione delle masse arabe non sarà possibile neanche con le direzioni attuali della resistenza palestinese (basta pensare al punto di non ritorno cui è arrivata la linea disfattista di Arafat, che se ha esitato per ora, per l’opposizione delle masse palestinesi, davanti all’ultima svendita richiestagli a Camp David, comunque non ha intenzione di deviare dalla ricerca di una "pace" che ha solo disarmato la lotta di questo popolo) o di quella libanese (che, legata a questo o quel governo arabo, non ha esitato in un passato non lontano a scagliare le masse in più di una guerra fratricida) o degli stessi islamici filo-iraniani che oggi ereditano presso le masse arabe il credito da altri dilapidato.

Questa unificazione -punto secondo- non si può dire neppure che stia spontaneamente marciando "dal basso", con un semplice accorpamento delle masse locali. Certo, in Libano è stato fatto un passo avanti preliminare in quanto la lotta contro Israele alimentata dal basso della mobilitazione popolare ha condizionato e in certa misura bloccato le lotte tra le diverse fazioni della resistenza libanese. Ma le profonde ferite dovute, per esempio, allo scontro tra i proletari e i diseredati maroniti raccolti sotto le bandiere delle reazionarie Falangi e i palestinesi (come nel massacro di Tal al Zaatar, perpetrato sotto la "supervisione" dell’esercito siriano) o tra palestinesi e sciiti (basta ricordare l’assedio dei campi da parte delle milizie di Amal) e via discorrendo (la storia recente libanese mostra un’infinità di questi esempi): queste ferite sono a tutt’oggi lungi dall’essersi rimarginate. Un vero fronte unito delle masse arabe può definirsi solo in rottura con le forze sociali e politiche che al momento le "rappresentano" dopo averle portate a quel disastro, ricomponendosi sulla base di forze e di un programma che si battano per la liberazione sociale degli oppressi dell’area - compresa la parte sfruttata di Israele - contro le borghesie arabe per una lotta a fondo contro la dominazione imperialista in Medio Oriente e contro lo stato di Israele che ne è il bastione locale. Bilancio non facile da trarre, ma anche unica condizione a cui è possibile valorizzare sul serio, e non disperdere, quell’inizio di demarcazione, maturato nella lotta contro l’occupante, delle classi sfruttate libanesi dalle rispettive fazioni borghesi.

Lo diciamo francamente: la lotta di liberazione del proletariato e delle masse arabe non può essere condotta insieme alle classi proprietarie arabe, ma deve essere portata avanti in unità con gli sfruttati ebraici. Può suonare ostico, ma è un punto fondamentale per chi ha a cuore non la lotta arabi-ebrei, ma quella proletariato-borghesia a scala mondiale (la quale ricomprende, per collocarla nel senso giusto, anche la lotta masse arabe-stato di Israele!). Su questa questione, che va al di là dei coefficienti immediati, torneremo senz’altro certi che essa non è affatto secondaria per l’emergere di un’avanguardia di classe, di partito, anche nell’ambito del proletariato arabo e islamico.