TEORIA E PRATICA

A PROPOSITO DI SOLIDARIETÀ
CON I POPOLI DELLA JUGOSLAVIA…

Indice


Solidarietà? La parola sembra assai semplice: qualcuno ha bisogno di qualcosa, qualcun altro gli si sente vicino e gli tende una mano fraterna. Tutto qui.

Nella realtà sociale -come lo è sempre ogni realtà umana-, la cosa si fa un tantino più complicata: la solidarietà ubbidisce ad un criterio politico; non esiste una solidarietà, "la" solidarietà, ma vari tipi di impostazione, finalità o conseguenze politiche in cui essa si manifesta. Non basta mai chiedersi con chi solidarizziamo, ma come e per che cosa lo facciamo.

Umanitarismo ed umanità

Di fronte alla miseria ed all’abbrutimento che condannano all’inferno quaggiù centinaia di milioni di esseri "umani" l’oggetto su cui si esercita la solidarietà, ad esempio, è lo stesso tanto per noi marxisti che per gli umanitaristi in genere, ma, per essi e per noi, il termine assume un ben diverso significato concreto.

La Chiesa Cattolica, esperta nel ramo, ha da sempre esercitata la sua "solidarietà cristiana" secondo una ben precisa visione ed in vista di altrettanto ben precisi scopi. Il ruolo di tale solidarietà è sempre stato finalizzato alla conservazione sociale, indipendentemente da ogni considerazione sull’affarismo che vi gravita attorno, ed indipendentemente dal sano sentimento di molti fedeli di franco sentire pronti a "dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati". Si poterono così "soccorrere" gli indigeni colonizzati (e, contestualmente, "evangelizzati") per dire ad essi ed ai loro sfruttatori che l’ubbidienza all’ordine vigente è d’obbligo ed essa sola si merita in premio la carità. Lo stesso si fa oggi nei confronti dei nuovi schiavi di mezzo mondo e delle mille forme di emarginazione nelle stesse metropoli, proponendo sempre, ed invariabilmente, una via d’uscita caritatevole, individuale al problema (sia dal lato di chi riceve che da quello di chi dà) in luogo di un’organizzazione collettiva di battaglia per uscire da un pantano che è frutto di un determinato sistema sociale e non di eventi pressoché naturali.

Lo ripetiamo: tutto questo indipendentemente dal fatto che una miriade di persone degne si diano (personalmente) da fare sul serio con assoluta dedizione ed anche toccando campi su cui noi marxisti siamo, un po’ per forza di cose, un po’ per pigrizia e sordità, latitanti (per dirne una: il lavoro verso drogati, prostitute o rom, da "redimere" od "integrare" secondo la coscienza cristiana). In molti casi noi stessi dovremmo imparare qualcosa da tutto ciò. Imparare a riconoscere un oggetto -ed un soggetto!- su cui esercitare il nostro specifico tipo di solidarietà militante.

Ciò non toglie che l’umanitarismo cristiano, come ogni altra sua versione, abbia dei confini ben definiti di conservazione del sistema esistente, ed in ciò si contrapponga al reale senso umano della lotta per l’emancipazione sociale: un "giusto salario" al posto dell’abolizione del sistema salariale, un pane elargito agli affamati al posto della conquista del pane sottratto dal capitalismo, una personale redenzione dal "peccato individuale" in luogo della messa a morte del sistema di alienazione che ne sta alla base con la riduzione di ogni singolo a merce e la sua separazione dall’autentico essere sociale collettivo.

Solidarietà equivoche

Queste banalissime considerazioni ci introducono al tema attuale della solidarietà coi popoli della Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Africa e di ogni altro luogo martoriato di questo sozzo, capitalistico mondo; e ci soffermeremo qui sull’esempio della Jugoslavia, su cui il nostro impegno è assiduo e penetrante da prima ancora che ne emergesse alla superficie pubblica il bisogno.

Su questo punto i conti con la Chiesa sono presto fatti. Le sofferenze, anche reali, del Kosovo sono state da essa prese in carico, come sappiamo, per produrre occasioni di guerra e di nuove sofferenze ingigantite per mille, se basta, e queste ultime per ribadire un "ordine" perfettamente funzionale alle esigenze del capitalismo imperialista. Chi si è, "cristianamente", speso, in perfetta buona fede, per soccorrere le "vittime della pulizia etnica" ha dato una mano a produrre la vera e peggiore pulizia etnica che si possa immaginare, preparando le condizioni psicologiche di massa per l’attacco armato all’insieme dei popoli jugoslavi in quanto tali. Non parliamo poi della mascherata "solidaristica" messa in atto dallo Stato, con tanto di fanfaroni venduti del mondo dello spettacolo e del circo "culturale" a sostegno: in questo caso non c’è neppure la scusante di aiuti materiali che siano comunque andati a buon fine a favore dei sofferenti, sia pure di parte, ma un maneggio di danari a favore di camarille e mafie interne ed esterne.

Ma veniamo a chi si pone dall’altra parte, a chi ha, perlomeno, realizzato a tempo -anche se, generalmente, a tempo regolarmente scaduto-, che la Jugoslavia ha subito un’aggressione e la subisce tuttora, che la Jugoslavia, con tutti i suoi popoli, è dunque una vittima con cui solidarizzare. In questo caso, il problema del con chi solidarizzare è risolto. Resta da comprendere in che modo debba esplicitarsi la solidarietà ed in vista di quali obiettivi.

Su questo punto dobbiamo essere chiari: tanta parte, se non quasi tutta la solidarietà che oggi si esprime, qui da noi, verso la Jugoslavia, ondeggia tra due estremi opposti che, insieme tra loro, sono anche opposti ai criteri di ciò che noi marxisti intendiamo per solidarietà di classe.

Un primo segmento del movimento attuale di solidarietà concepisce la cosa in questi termini: si deve ripristinare la "legalità violata" nel caso dell’aggressione alla Jugoslavia premendo verso le forze politiche e gli Stati -gli Stati soprattutto!- di qui, verso l’ONU (da "riformare" per esser rimessa al patto coi sacri codici della giustizia universale) e poi, magari, dando una mano in Jugoslavia ai "democratici" autentici contro il Satana-Milosevic. È questa, ad esempio, la linea tipica del Manifesto che, anche nei suoi massimi momenti di sdegno "morale" contro l’aggressione NATO, non dimentica mai di perorare la causa di un "mutamento del regime interno" jugoslavo in consonanza con i desiderata, i diktat, dell’imperialismo. L’aggressione NATO non è servita a scalzare Milosevic, si dice in buona sostanza, come quella analoga contro l’Iraq non è servita a toglier di mezzo il "dittatore" Saddam. L’embargo idem. Perciò: no a misure militari e via l’embargo, ma allo scopo di meglio -democraticamente, pacificamente- realizzare questo compito, rispetto al quale l’imperialismo reale si è dimostrato inefficiente. I popoli jugoslavi non devono pagare per le colpe di Milosevic; a pagare dev’essere solo quest’ultimo. Come se non fosse del tutto trasparente che l’obiettivo primo dell’aggressione NATO sono, invece, esattamente i popoli della ex-Jugoslavia, dell’Iraq, del… mondo intero.

(È una posizione, tra l’altro, abbastanza incoerente: tuttora questa gente non ha alcun dubbio sul fatto che, ad esempio, il popolo tedesco dovesse pagare per le colpe di Hitler e quello giapponese per le colpe del Mikado. Ora, perché mai lo stesso criterio non dovrebbe andar bene per i popoli jugoslavi? Dopo Dresda e Hiroshima-Nagasaki non è cambiato un gran che nell’"intervento umanitario" imperialista -lo stesso che ci delizia dal ’45 della cosiddetta Liberazione-. Perché oggi, a differenza di ieri, si tratterebbe non di semplice "errore", ma di aggressione imperialista? I nostri umanitari possono, forse, arrivare anche a sussurrare che "da parte degli USA" un pizzico di interventismo imperialista c’è (e ieri?); giammai, però, da parte dell’Europa e dei suoi stati maggiori "socialisti" o centro-sinistri, tirati per puro caso dentro l’"avventura". Per questi ultimi si reclama solo una maggior "autonomia" di giudizio, di azione e di interessi, ma allo scopo di promuoverli in concorrenza con gli USA a massimi beneficiari dell’intervento nei Balcani. Un intervento che, va da sé, data la nostra diversa "cultura", andrebbe fatto non a suon di bombe, ma di euro-moneta ed euro-diplomazia per arrivare allo stesso risultato utile per la nostra "cultura", cioè per le nostre casseforti. Un imperialismo, se mai fosse possibile qualcosa del genere, al di fuori di questo abisso di ipocrisia, dal volto pacifico… )

Con la classe o con gli stati?

Un secondo segmento, quello più seriamente impegnato nel produrre solidarietà "incondizionata" con la Jugoslavia, commette un errore opposto e speculare. Dice: poiché si tratta di un’aggressione imperialista dell’Occidente, di tutto l’Occidente, Italia in prima linea, "sinistra" italiana in prima linea, e la Jugoslavia ne è l’unica vittima, indipendentemente dal regime in essa vigente, non ci è permesso alcun distinguo pre o post-condizionante in merito a tale regime. Giusta considerazione. Come abbiamo spesso ricordato, il marxismo, nel caso di aggressione imperialista a un determinato paese, non si è mai posto il problema del regime interno di quest’ultimo per condizionare la solidarietà all’aggredito. La resistenza all’aggressore va sostenuta incondizionatamente, quand’anche a capo del paese aggredito vi sia un qualsiasi Menelik.

Il discorso va, però, completato. Il tipo di solidarietà che i marxisti offrono a questa resistenza del paese aggredito è rappresentato dallo scatenamento della lotta di classe nelle metropoli per rompere la morsa dell’imperialismo e, contemporaneamente, dall’estensione di tale lotta di resistenza -da unificare alla propria- proprio per solidificare un autentico movimento anti-imperialista unitario, che può darsi solo attraverso la sua assunzione là da parte di forze autenticamente rivoluzionarie. Un’autentica lotta comunista nelle metropoli non esclude, ma al contrario comporta un processo rivoluzionario nei paesi soggetti al dominio imperialista, contro i Menelik, i Saddam, i Milosevic. Chi erige compartimenti stagni tra i due campi nega e calpesta l’unica via d’uscita anti-imperialista, qella rappresentata dal comunismo internazionalista.

Ora, la stragrande maggioranza dei compagni di cui parliamo postula invece la "non intromissione nei fatti interni jugoslavi", il che, a vario titolo, significa precisamente la negazione di cui sopra. Bisognerebbe capire quantomeno che sempre ed in ogni caso ci si intromette nei casi "altrui", in un modo o nell’altro. E infatti: il tipo di solidarietà verso la Jugoslavia che qui si propone manda ai popoli jugoslavi un dato messaggio, indica una data soluzione del problema. La più "estremista" è questa: noi ci diamo da fare qui, contro gli aggressori di casa nostra; voi resistete lì attorno alle vostre intangibili forme di potere, al vostro Stato. Socialisti, anti-imperialisti? Sì, ma ognuno nel proprio paese, ognuno per proprio conto. Stalin insegna (non solo agli stalinisti confessi). Per giustificare meglio questa posizione si può addirittura assumere che la Jugoslavia rappresenti oggi una qualche forma di "socialismo", come non mancherà di affermare qualche brillante, e generoso, giornalista rebelde che, tra un Bella ciao ed un buon sorso di rakia consumati assieme agli attuali "socialisti" jugoslavi, ricorderà le rispettive "lotte di liberazione" di un tempo per concluderne che la lotta continua. Perdente allora (quanto alla liberazione del proletariato e perfino, circa la Jugoslavia, quanto al taglio radicale dei lacci dell’imperialismo), catastrofica oggi.

La verità è che non ci si vuol intromettere da comunisti rispetto al proletariato jugoslavo, salutato sì, come d’obbligo, per le sue innegabili doti di coraggio "popolare" (e fin qui tutto bene), ma affidato al "socialista" Milosevic, allo stato "socialista" di Belgrado, all’alleanza, se non proprio "socialista" presuntamente anti-imperialista, degli stati schierati o schierabili contro la NATO e il suo padrone statunitense. Questa posizione si traduce inevitabilmente qui, in Italia, nella subordinazione del movimento di solidarietà alla logica politica statale, sia pur da "riformare" (Italia indipendente dalla NATO, con una "sua" politica estera di "tradizionale amicizia" -le conosciamo le "tradizionali amicizie" imperialiste!- verso la Jugoslavia etc. etc.); una logica che, di fatto, prescinde dai criteri di classe.

(Dobbiamo qui aprire una parentesi: conosciamo di persona molti bravissimi compagni che, indipendentemente dalle loro idee confuse -se ci è permesso!- sul "socialismo" jugoslavo attuale e sui suoi, ben più sostanziosi, eppur sempre "dubitabili", precedenti, intende "come noi" la necessità di uno schieramento di classe. Le loro confusioni circa l’"ambiguità di parte della sinistra e dei movimenti pacifisti" rappresentano, a nostro modo di vedere, un retaggio tradizionalista che gli impedisce di dire pane al pane, vino al vino; ma la loro attitudine, indipendentemente dalle residue illusioni sulla "sinistra" attuale -che è tutt’altro che "ambigua"- non gli impedisce una chiara presa di posizione in senso tendenzialmente internazionalista. Noi non ci indigniamo se essi pensano, all’opposto di noi, che Rifondazione Comunista possa essere recuperabile ad una prospettiva di classe; ci piace la loro attitudine militante libera da pregiudizi di schieramento ufficiale e se, su questa base, essi intendono dar battaglia, ciò ci sta bene. Si vedrà in seguito e in conseguenza di ciò, come stanno realmente le cose, e insieme si vedrà perché bisogna andare verso la costruzione, come noi pensiamo, di un diverso ed alternativo soggetto politico.)

Solidali nella lotta internazionalista, per il socialismo

Noi, va da sé, la vediamo in tutt’altro modo.

La nostra solidarietà ai popoli jugoslavi è da sempre indirizzata verso il proletariato pluri-nazionale jugoslavo in cui la causa del popolo si riassume coerentemente. Ad esso ci siamo rivolti ben prima del deflagrare dei secessionismi "interni" per indicargli la via dell’unità di classe, pan-jugoslavista in prima istanza, internazionalista in termini conclusivi, richiamando a questi temi gli stessi proletari di casa nostra, direttamente coinvolti nella questione dall’inizio alla fine. Naturalmente, dando per scontata la difficoltà di smuovere quelli di qui e quelli di là dalla loro inerzia di classe, frutto avvelenato dello stalinismo (e dell’imperialismo, di cui lo stalinismo, quello titoista compreso, è il risultato e l’agente disfattista nella classe). Questo appello, databile a ben prima del ’91, quando l’abbiamo veicolato, marginalmente, date le condizioni, nella stessa Jugoslavia, comportava -e ancor più oggi comporta- il richiamo a riassumere, lì e dovunque, i propri connotati di classe. I tentativi, che ci sono stati, da parte delle organizzazioni proletarie jugoslave di difendere l’unità di classe in Jugoslavia (e per la Jugoslavia), si sono scontrati precisamente con la deriva nazional-indipendentista delle varie rappresentazioni ("socialiste" o anti-socialiste) del potere, quella di Milosevic in primo luogo.

Nessuna di queste poteva figurare, anche solo simbolicamente, neppure quale "jugoslavista". Lo stato "socialista" serbo è stato il primo responsabile di una frantumazione del paese lungo linee di interessi sotto-nazional borghesi che, nell’assurda, oltre che distruttiva, visione miloseviciana comportava precisamente una "ragionevole divisione" della "vecchia Jugoslavia" lungo linee di deriva nazionale. La Slovenia se ne vuol andare? Nema problema. La Croazia se ne vuol andare? Nema problema, purché si risolvano i "contenziosi nazionali" tra "comunità nazionali" serbe e croate (e il destino delle Krajne ha poi dimostrato come questa soluzione si è potuta realizzare). Queste le basi minate su cui si è realizzata, all’interno, la divisione del paese per linee nazionalistiche, eterodiretta dall’imperialismo.

Nel nostro sforzo di riannodare i fili di un’azione di classe noi ci rivolgiamo, invariabilmente, ai proletari in grado di capitalizzare le lezioni degli eventi succedutisi. Con gli operai della Zastava, ad esempio? Sì, ma non limitandoci ad inviare soltanto degli aiuti materiali, bensì richiamando questi compagni indomiti di fronte all’aggressione imperialista, al loro dovere internazionalista di classe. Sappiamo che, in questo nostro sforzo, ci incontriamo immediatamente con determinate loro "rappresentanze", che certamente esprimono al meglio (per quel che possono fare delle burocrazie legate allo stato) il potenziale di resistenza, in primo luogo, contro l’aggressione imperialista. Ma queste stesse burocrazie -e lo dobbiamo ben sapere!- non esprimono alcuna soluzione del problema. Quando ci incontriamo con loro, esse ci invitano invariabilmente ad offrire aiuti materiali (il che sta benissimo) ed a premere verso il "nostro" stato, le "nostre" forze politiche. E, stando a questa ferrea linea statalista, borghese, non fa meraviglia che i nostri sforzi siano salutati con riconoscenza sincera, ma il massimo di attenzione sia rivolto a possibili cambiamenti di orientamento del nostro "quadro politico" ed alla possibilità di un rinnovato rapporto tra esso e lo stato jugoslavo.

Esse espressamente ci dicono: "Noi non possiamo far politica" (vale a dire: un’altra politica rispetto a quella del lealismo, oggettivamente comprensibile, verso Milosevic, visto quel che è l’"opposizione democratica" filo-NATO). Non possiamo: cioè, non intendiamo promuovere un’azione di classe. Tanto che il potenziale di solidarietà che si profila tra i proletari di tutta la (ex)-Jugoslavia di fronte alla manomissione imperialista viene bellamente trascurato. I movimenti (ancorché piccoli) del proletariato jugoslavista di Slovenia, Croazia, Bosnia etc. etc. non ci coinvolgono, non ci interessano ("dato il loro scarso peso"), di fronte alla nostra causa statale piccolo-jugoslava. Non sono forzature, è la semplice trascrizione di quel che esse ci hanno espressamente detto. Anche quando si è tentato, da parte loro, di promuovere un incontro sindacale europeo, lo si è fatto badando più (od esclusivamente) alle rappresentanze statali dei lavoratori che all’esercito di classe, ricevendone, tra l’altro, impreviste chiusure.

Se noi ci fermassimo al semplice, sia pur vitale e doveroso, "aiuto materiale", concorreremmo a questa colossale mistificazione del problema, foriero solo di nuovi disastri. Il nostro tentativo è di arrivare direttamente, anche utilizzando questi canali, al cuore della classe operaia jugoslava nel suo complesso. Ad essa noi diciamo: l’iniziativa di rivolgersi alla classe operaia occidentale è la strada su cui dovete impegnarvi, impegnarvi politicamente. Su questo noi possiamo darvi la mano (piccola, per ora) che vi serve, e nessuno ve ne darà un’altra efficace. La vostra indomita resistenza all’imperialismo, quello delle bombe e quello dell’"opposizione democratica" da esso foraggiato e diretto, ve ne dà la possibilità, il diritto, il dovere. Per salvare voi stessi, per salvare l’insieme inscindibile del nostro esercito di classe.

Noi non siamo soliti edulcorare le amare pillole. Sappiamo benissimo che, anche ove potessimo rivolgerci direttamente alla massa proletaria, incontreremmo oggi, sia pure in modi diversi, le "stesse" incomprensioni con cui ci scontriamo quando ci troviamo a tu per tu con le sue rappresentanze ufficiali. L’abbiamo detto in più di un’occasione: il tito-"stalinismo" è responsabile di un crimine storico innanzitutto, quello di aver deprivato (dopo averlo chiamato a lotte eroiche, dopo essersi appoggiato su un’instancabile energia proletaria, dopo aver molto "concesso" corporativamente a questa sua base sociale costitutiva) il proletariato jugoslavo dei suoi connotati indipendenti ed antagonisti di classe: autogestione come "buon affare di mercato" per tutti, dispotismo illuminato di stato ("socialista") per tutti, nazionalismo per tutti (pan-jugoslavo sin che si è potuto e poi… quel che è stato). Questa la spirale che deve essere spezzata. E che non sarà spezzata dalla "naturale" evoluzione della situazione con la ri-acutizzazione dello scontro di classe interno e di quello con l’imperialismo, ma solo a condizione che un’avanguardia comunista lì e qui si impegni a tracciare un bilancio di classe di questa interminabile deriva (non semplicemente jugoslava, ma internazionale) e ponga basi teoriche e politiche chiare per la ripresa dell’autonomia della classe. La "contestazione" che muoviamo qui a determinati indirizzi a-classisti di "solidarietà con la Jugoslavia" e lì a un determinato "jugoslavismo" non è di non vedere già presente in scena un proletariato protagonista e antagonista (che al momento non c’è), è di non saper e voler preparare il terreno al suo ritorno in campo, anzi di contribuire -al di là delle intenzioni- a ritardarne il ritorno in campo.

"Noi siamo innocenti, non facciamo politica; le colpe sono tutte dei politicanti". Questo ritornello, ricorrente tra i lavoratori jugoslavi, ci dice perché di tutto quel che è successo non si riesce a cogliere il senso e tanto meno a dargli una risposta. Ma chi "non fa politica" ne fa sempre una, quella degli altri. I proletari jugoslavi, brutalmente sbattuti dinanzi all’imprevista e tuttora "inspiegabile" aggressione imperialista, devono riacquisire la capacità ed il gusto di fare la propria politica ed è in questo che noi, soprattutto, dobbiamo essere solidali con essi.

A questi principi è commisurata la nostra solidarietà. Raccolta di fondi, medicinali, beni di consumo? Naturalmente sì, e noi possiamo tranquillamente asserire di aver fatto e di fare su ciò la nostra parte, non secondi a nessuno in relazione ai nostri effettivi. Ma, in primo luogo, questa raccolta non si fa in modo neutro: essa è parte di una battaglia di contro-informazione, denunzia, mobilitazione di forze di classe da condurre in seno al proletariato ed alle masse per un’autonoma azione indipendente ed antagonista. La si fa, ad esempio, rivolgendosi con forza ai lavoratori immigrati mostrando ad essi come lo schiacciamento della Jugoslavia da parte dell’imperialismo faccia il paio col loro schiacciamento qui da parte della borghesia nostrana; la si fa cercando di rompere il muro che divide gli immigrati jugoslavi qui dai nostri lavoratori e la conseguente loro disorganizzazione in quanto soggetto di classe (o, magari, la loro aggregazione attorno alle proprie ferite bandiere nazionaliste). La si fa anche rivolgendosi, come abbiamo fatto noi e militanti USA, agli assoldati della NATO di estrazione popolare per tentare di rompere, com’è possibile, il loro asservimento ai criminali che li sfruttano come cani da guardia.

Può questa azione, mettiamo il caso, arrivare all’abolizione dell’embargo contro la Jugoslavia? Sì, potenzialmente, se essa sarà in grado di contrapporsi alla logica dell’imperialismo. No, se essa dovesse rimaner subordinata alle "prospettive" dei giochi politici e governativi interni od esterni, a meno che questi ultimi non vedessero nell’abolizione una carta a proprio favore. La fine dell’embargo non è per noi lo "scopo"; lo è, invece, la lotta contro gli embargadori che da questa lotta vanno piegati. Non c’è nessun "diritto internazionale da ripristinare", perché, ove non si aggredisse a fondo il quadro del dominio imperialista attuale, non ci sarebbe comunque posto per alcun tipo di ritorno all’antico "diritto" (alla vecchia Jugoslavia "sovrana" nel presunto concerto di tutti gli altri stati "egualmente sovrani"): l’imperialismo embarga, e sempre più di fatto, tutto il mondo.