I LAVORATORI IMMIGRATI CHIAMANO
ALLA LOTTA L’INTERO PROLETARIATO

Indice

 


Nella lotta, tuttora in corso, i lavoratori immigrati hanno dimostrato una grande capacità di organizzazione e di resistenza. Il proletariato italiano si è limitato a non nutrire ostilità verso di loro, almeno riguardo alle rivendicazioni avanzate. Una cosa minima, eppure importante per la mobilitazione dei fratelli di classe immigrati. Trasformare questo sentimento in vera alleanza di lotta è indispensabile sia per la prosecuzione della lotta degli immigrati che per la stessa ripresa di antagonismo di classe da parte del proletariato bianco. Per questo è necessario un primo, sia pur limitato, bilancio della prima parte di questa splendida esperienza.

Dalla primavera di quest’anno alcune piazze italiane (in particolare a Roma e Brescia) sono state occupate da presídi e da manifestazioni di lavoratori immigrati che rivendicavano il diritto a ottenere il permesso di soggiorno. Oltre 50.000 domande presentate per la legge Turco-Napolitano non avevano avuto risposta o erano state respinte. Gli immigrati, stanchi per le attese, le promesse e i ricatti del governo, delle associazioni che dicono di curarne gli interessi, e delle forze di polizia cui è demandato il compito di concedere i permessi, nonché dei palleggiamenti dell’ottusa burocrazia italica, si sono determinati a sostenere con una mobilitazione collettiva il loro diritto a un pezzo di carta che li facesse uscire dall’infame ricatto di poter essere in qualsiasi momento espulsi.

Tutte le strade individuali erano ormai esaurite, compresa quella delle false documentazioni fornite da una criminalità italiana grata per il canale di guadagno procuratogli da un governo, che, al contrario, contro la criminalità degli immigrati ha dichiarato e praticato assoluta fermezza. Non restava che tentare il grande salto, una lotta di piazza di cittadini senza diritto di cittadinanza, e, quindi, privi anche del diritto di manifestare. La determinazione per questa prova è sorta non tanto dalla disperazione, quanto da una ferma convinzione: siamo lavoratori, e vogliamo essere trattati come tali; senza il permesso siamo, invece, peggio degli animali, chiunque può fare di noi tutto ciò che vuole: comprare il nostro lavoro a salari bassissimi, con orari interminabili, costringerci, persino, a non poter dichiarare gli incidenti sul lavoro che proprio a causa delle nostra posizione "irregolare" subiamo in proporzione superiore agli altri, per non dire delle vessazioni che subiamo dai padroni di casa e dai "tutori dell’ordine".

Messaggio semplice e diretto, che ribaltava l’assunto principale di tutte le campagne che la destra scatena, tirandosi indietro una "sinistra" sempre meno riottosa, sul binomio immigrazione-criminalità. Non siamo criminali, siamo lavoratori, non siamo clandestini, siete voi che ci costringete alla clandestinità, siete voi, padroni grandi e piccoli, voi stato, voi forze di governo e opposizione, che avete tutto l’interesse a dipingerci come criminali e parassiti, per negarci ogni elementare diritto e costringerci a svenarci per i profitti delle vostre imprese. Quella che vi presentiamo non è una petizione caritatevole, ma una nostra pretesa, resa legittima dalla nostra realtà di lavoratori prima ancora che dalle vostre leggi, e ve la presentiamo, perciò, non in forma di supplica, ma in forza di una mobilitazione, di una lotta collettiva.

Non ostilità dei lavoratori bianchi

Il messaggio è giunto a destino. Non allo stato e alle forze politiche, ma ai lavoratori italiani. Questi, finora, hanno condiviso, attivamente o passivamente (i più), la necessità di por fine all’"invasione" e di mettere sotto stretto controllo poliziesco gli extra-comunitari, "fonte di criminalità". Verso questa rivendicazione il sentimento più diffuso è stato, invece, di comprensione. I segnali si sono visti più per via indiretta che diretta. Presenza di lavoratori alle manifestazioni degli immigrati non c’è mai stata, ma alcuni pezzi di sindacato si sono spesi (con molta parsimonia) a fianco degli immigrati in lotta, mentre, per esempio, le due manifestazioni della Lega indette a Brescia contro il presidio di Piazza della Loggia, tenuto dagli immigrati per settimane, sono andate deserte. Il sindacato s’è fatto interprete della "non ostilità" dei lavoratori bianchi, e identica "non ostilità" ha portato i lavoratori leghisti a lasciar cadere, in questo caso, l’appello del partito a manifestare contro "i clandestini". Non va dimenticato che nello stesso periodo all’appuntamento di Pontida c’era una grande mobilitazione della base leghista, e il partito conduceva con il supporto dei suoi media una campagna per la sottoscrizione di massa a una legge Bossi-Berlusconi contro i clandestini.

La percezione di questo umore diffuso ha condizionato la risposta del governo. Da un lato, ha continuato la campagna per una linea dura contro la "criminalità" degli immigrati (un marocchino di 17 anni, sospettato di furto di un cellulare, ucciso a Roma da un poliziotto, un altro immigrato "saltato giù" da un balcone a Torino durante una perquisizione), e non ha rinunciato a distribuire minacce e repressione, intensificando le operazioni di polizia nei quartieri a forte presenza di immigrati, con rastrellamenti ed espulsioni, e attaccando il corteo di immigrati che volevano raggiungere il papa nel "Giubileo dei migranti". Dall’altro lato, ha evitato, però, una dura repressione dei presídi e dichiarato ufficialmente la disponibilità a riesaminare i carteggi. In verità a Brescia il presidio è stato rimosso e decine di immigrati arrestati. L’immediata mobilitazione davanti alla questura degli altri lavoratori immigrati e l’intervento della Cgil sul questore hanno ottenuto la loro immediata scarcerazione e il presidio si è riformato il giorno successivo.

Le promesse del governo si sono concretizzate nei miseri 5.000 permessi concessi in due mesi. Il problema per il governo non è nel numero di permessi da concedere, né nella paura della reazione della destra contro la sua "generosità"; è un problema tutto politico: non si vuole cedere al "ricatto della piazza", non si vuole sancire che la lotta paga per gli immigrati, non si vuole rafforzare la convinzione che si fa strada in questa esperienza, e, cioè, che per riscattarsi da una condizione di schiavitù, bisogna unire le proprie forze, organizzarle e dare battaglia collettiva. La politica del governo tenta, perciò, di logorare il movimento e di introdurvi elementi di divisione, costringendo gli immigrati a tornare alla dimensione individuale dello scontro (file interminabili agli uffici, confronto individuale con burocrati che il potere di decisione rende, se possibile, ancora più arroganti) e disegnando linee di frattura tra le varie comunità (permessi distribuiti alle comunità ritenute più addomesticabili). Con ciò la lotta è posta dinanzi a un’ulteriore prova, la mobilitazione non deve cessare, e deve rinnovarsi lo sforzo per uscire ancora di più dall’isolamento.

Per andare avanti e fare i conti con i problemi nuovi che emergono, è indispensabile fare un franco bilancio di ciò che la mobilitazione ha finora prodotto.

I lavoratori immigrati lottano e si organizzano

Nel bilancio figurano, anzitutto, una gran quantità di elementi positivi. Un settore di lavoratori immigrati, quello sottoposto al ricatto più duro, ha verificato che solo l’organizzazione e la lotta possono dare la speranza di acquisire quei diritti che lo stato gli nega per lasciarli alla mercé di una intera classe di sfruttatori. E ha cominciato a darsi organizzazioni proprie, a dotarsi di sedi, ad autofinanziarsi. Con ciò ha reciso i legami con le organizzazioni umanitarie (religiose e laiche) che offrono la propria carità in cambio della rinuncia ad alzare la voce. Ha anche sperimentato come per pesare davvero si debbano superare le divisioni in comunità di origine e formare un’unica comunità di lotta. Nella necessità di uscire dall’isolamento, poi, ha lanciato un diretto richiamo ai lavoratori bianchi: siamo come voi, semplici lavoratori, se usciamo dal ricatto avrete da guadagnarci anche voi, perché non avrete più la concorrenza di forza-lavoro a basso costo. La nostra lotta è anche vostra.

Nata sulla base di una necessità elementare, la lotta dei lavoratori immigrati ha dovuto iniziare a fare i conti con la politica del governo e degli apparati di "pubblica sicurezza" verso gli immigrati e sull’immigrazione in generale, dando una risposta collettiva che si è tramutata in iniziativa politica diretta e organizzata. È un dato nuovo che evidenzia il manifestarsi tra questi proletari di primi elementi di coscienza di classe. Un significativo passaggio è stato, per esempio, quello sulla criminalità.

Gli immigrati, infatti, hanno respinto l’identificazione con la criminalità e hanno dichiarato la disponibilità a lottare contro di essa, dentro e fuori le proprie comunità. Come e con chi farlo non può essere, naturalmente, richiesto solo a loro. Eppure da parte loro è venuto in più d’una occasione, per esempio, un appello a organizzare nei quartieri un’opera di pulizia in comune tra tutti gli abitanti. Certa "sinistra", anche "estrema", romana ha risposto con un maldestro tentativo di mettergli in mano una ramazza per ripulire le piazze.

Ma le questioni poste vanno molto al di là di questo solidarismo peloso e social-sciovinista (solidarizzo con te a condizione che dimostri la tua disponibilità a strisciare nei bassifondi della società). La piccola criminalità e le truppe per la grande sono alimentate dalle condizioni di miseria e di ricatto in cui versano parte degli immigrati e degli stessi italiani, e la grande criminalità è saldamente in mani italiane. Lo stato affronta con una certa durezza la prima, mentre lascia che la seconda prosperi, limitandosi a evitare che cresca troppo come potere politico armato "in proprio". Sperare, quindi, che possa lui aggredire le vere origini e ai veri boss della criminalità è perfettamente inutile. Gli immigrati percepiscono che non serve a nulla, anzi è controproducente, invocare che lo stato sia più determinato "contro i criminali". Questa coscienza gli deriva dalla esperienza stessa di vita: essi vedono come lo stato si comporta con loro anche quando sono del tutto onesti, mentre protegge chiunque si arricchisce (lavoro, casa, certificazioni, ecc.) approfittando delle loro condizioni, le quali sono, in più, proprio il frutto delle leggi dello stato. I loro appelli alla lotta contro la criminalità hanno, quindi, un altro naturale destinatario: chi vive esclusivamente del proprio lavoro ed ha, quindi, interesse a scrollarsi dalle spalle i parassiti, grandi e piccoli, legali o illegali. Se per gli stessi immigrati non è del tutto chiaro chi sia l’unico potenziale interlocutore su questo terreno, non è per loro scarsa consapevolezza, ma perchè l’interlocutore-proletariato nicchia e si ritrae da questo compito, fino al punto di non cercare di opporsi neanche a chi parassita direttamente sul suo lavoro.

Ognuno di questi elementi acquisiti nella lotta viene immediatamente messo alla prova dalle nuove necessità: c’è da continuare la mobilitazione per conquistare il permesso per tutti, e, assieme a ciò, c’è la necessità di proseguire sulla via del proprio riscatto, per ottenere il quale non basta il "permesso". Nei comizi s’è sentito più di un lavoratore immigrato dire: non è che l’inizio, vogliamo conquistarci tutti i nostri diritti, e abbiamo capito che possiamo farlo solo con l’organizzazione e la lotta.

È, quindi, indispensabile coinvolgere nel fronte di lotta anche gli immigrati che, pur possedendo già il pezzo di carta, ben sanno di non essere usciti affatto dalla condizione di ricatto permanente, e si deve promuovere una partecipazione più attiva dei lavoratori bianchi. Come ottenere questa duplice estensione? Il semplice appello e l’invito a seguire il proprio esempio non possono essere sufficienti. In particolare, per convincere i lavoratori bianchi non si può evitare di affrontare tutti i nodi politici sul tappeto, e lanciare un’iniziativa che aggredisca tutte le motivazioni che li tengono, al momento, estranei dalla lotta presente e restii a tentare anche una qualche attivizzazione che più direttamente li riguardi.

Proletari bianchi e immigrati: comuni interessi di classe, comune programma, comune partito

I lavoratori immigrati in lotta sanno di dover cercare un legame forte con i lavoratori italiani, e, per quanto li riguarda, hanno già rivolto i loro espliciti appelli, giungendo, persino, a Brescia, a richiedere uno sciopero di tutti i lavoratori in appoggio alle proprie richieste. Il sindacato si è guardato bene dal far sua la proposta. Il motivo del rifiuto non è nelle scarse possibilità di successo dello sciopero, ma in una precisa politica sindacale che vuole evitare una profonda saldatura tra lavoratori bianchi e immigrati, perché questa potrebbe avvenire solo sulla base di un riconoscimento di interessi comuni, di classe, e, di conseguenza, di aperta rottura con gli interessi delle aziende e dello stato italiano, entrambi interessati a non liberare i lavoratori immigrati dalla cappa di ricatto e oppressione sotto cui li tengono il sistema di segregazione, di legge e di fatto, da loro costruito e difeso.

Anche solo, dunque, per ottenere una più attiva partecipazione dei lavoratori bianchi all’attuale lotta di questo settore di lavoratori immigrati, c’è bisogno di denunciare una linea sindacale compromessa pienamente con le esigenze capitalistiche. C’è bisogno, di conseguenza, di un’attività che sappia andare fino in fondo nella denuncia del capitalismo, e che sappia, perciò, indicare perché rimanere succube del capitalismo sia suicida per il proletariato, e cosa e come bisogna fare per disfarsene. In una parola di un’attività di partito, che, a sua volta, indichi all’insieme del proletariato come sia indispensabile per sé stesso darsi un proprio autonomo partito, il partito dei suoi interessi, della lotta a fondo al capitalismo, del riscatto vero da esso, del comunismo internazionale.

La mancanza di una tale iniziativa pesa sullo sviluppo della lotta attuale e, ancor più, pesa su quella diretta a rivendicare ulteriori diritti. Infatti, se di fronte alla rivendicazione del permesso, l’umore maggioritario del proletariato bianco è di "non ostilità" (e già soltanto ciò aiuta a dare qualche possibilità di successo alla lotta degli immigrati, e, di conseguenza, una fiducia maggiore nelle proprie stesse forze), in una lotta per ulteriori diritti la "non ostilità" non è garantita, se rimangono inalterate tutte le premesse materiali e politiche che determinano l’atteggiamento dei lavoratori bianchi nei confronti degli immigrati. Quei lavoratori bianchi "non ostili" oggi, non fanno nulla, per esempio, per aiutare gli immigrati dal sollevarsi dalle condizioni di inferiorità (di mansioni, di orario, ecc.) nelle quali sono tenuti nelle aziende, anzi, partecipano essi stessi a conservare tali condizioni, fosse solo per sentirsi, a loro volta, più "in alto" nella gerarchia interna e, complessivamente, sociale.

Incondizionatamente dalla parte dei lavoratori immigrati

Può sembrare eccessivo chiedere a quei lavoratori immigrati che hanno appena cominciato a scoprire le necessità della lotta e dell’organizzazione per sé stessi, di farsi carico dell’enorme problema di smuovere il proletariato bianco dal sonno nel quale si conserva. Ma non è così. Non possiamo, infatti, nascondere che riguarda direttamente gli stessi immigrati, per il semplice motivo che vi impattano nello stesso momento in cui debbono preoccuparsi di come consolidare quanto è stato raggiunto da loro e di come metterlo a frutto per fare ulteriori passi avanti. Ma, non lo chiediamo soltanto a loro, né pensiamo che debba gravare solo sulle loro forze. È un compito dal quale non ci sottraiamo, come comunisti, e al quale chiamiamo innanzitutto i proletari bianchi per rispondere come classe a tutta l’offensiva che gli viene portata.

Se, infatti, le scintille sprigionate dalla lotta in corso avranno difficoltà a diventare una vera fiamma, ciò dipende esclusivamente dalla reazione del proletariato bianco. Questo va tenuto in ferma considerazione. Se noi chiediamo ai lavoratori immigrati di farsi carico di tutti i problemi incontrati nel loro percorso di riscatto, non è per caricarli di una responsabilità che essi non hanno, né per la loro situazione attuale (di immigrati), tanto meno per la loro origine (da popoli e paesi che l’imperialismo occidentale spoglia e rapina con il tacito consenso dello stesso proletariato metropolitano). È qui, nella metropoli, che sta l’origine dei problemi. È qui che va affrontata e sconfitta la bestia. È una lotta che richiede programmi, teoria, organizzazione, partito, e -qui il senso del nostro appello- tutti i proletari bianchi o immigrati che già ne raccolgono l’esigenza, non devono esitare a contribuire, in prima persona, a realizzare e mettere in pratica. È un punto decisivo rafforzare i primi elementi di coscienza emersi nella mobilitazione degli immigrati spingendo perchè si affrontino tutti i nodi politici sul tappeto e lavorare sul dato della "non ostilità" dei proletari bianchi per indicare l’esigenza di una risposta attiva ai segnali lanciati loro dai fratelli di classe: per far ciò è indispensabile che un’avanguardia inter-etnica si organizzi da subito per dare battaglia, con un lavoro di partito, su tutti i piani richiamati da questa mobilitazione.

Per parte nostra, noi saremo sempre, incondizionatamente, al fianco dei lavoratori immigrati. Le nostre sedi saranno sempre aperte alle loro necessità. Le nostre energie saranno sempre disponibili alle loro lotte, che sappiamo e viviamo come nostre, non come un qualcosa di diverso o "di più". Gli saremo al fianco anche se i loro e i nostri ripetuti tentativi di aprire un varco nella massa del proletariato bianco per una linea di riscatto di classe comune non dovessero sortire effetti. Siamo pronti a questa evenienza, e pronti a non abbandonare mai la battaglia tra i lavoratori bianchi per dismettere ogni separativa nei confronti degli immigrati e dei popoli oppressi e per costruire con loro una mondiale comunità di lotta contro il capitalismo e l’imperialismo.

La mancanza di effetti ai loro e ai nostri appelli a costruire comuni organizzazioni di lotta, potrà portare i lavoratori immigrati a consolidare una loro propria organizzazione per "comunità" nazionali o religiose. Non sarà, in ogni caso, possibile una semplice riedizione delle vecchie comunità; l’esperienza della lotta e la sua permanente necessità non permetterà di tornare a comunità che si limitino a un semplice solidarismo etnico. Ciononostante, l’esigenza di tenere alto il livello di lotta e di organizzazione potrebbe portare a considerare la religione e la propria identità cultural-nazionale come delle armi collettive per difendersi dallo sfruttamento, nonché dal razzismo che gli fa da contorno e da sostegno. Saremo anche in questo caso incondizionatamente al loro fianco e daremo battaglia nel proletariato bianco contro il rischio che egli si pieghi a un’alleanza con i propri padroni e con i propri stati per combattere quella che loro chiamano la "arretratezza" dei popoli non occidentali, allo scopo di mantenerli sotto ferrea oppressione. Non è dei popoli colorati e degli immigrati la responsabilità di dover ricorrere, per difendersi dalla rapina, dallo sfruttamento e dal razzismo, ad armamentari, politici e religiosi, avuti in dotazione dallo loro storia. Se meritano una critica da parte dei comunisti, non è sul fatto se siano migliori o peggiori di quelli -fetidi- su cui si fonda la coscienza politica e religiosa occidentale (compresa quella attuale del proletariato), ma solo sul fatto se siano efficaci o meno a combattere davvero contro l’imperialismo e il capitalismo.

Se il proletariato occidentale esprimesse una vera forza e un vero programma di classe in grado di dare prospettiva concreta all’abbattimento del mostro che opprime il pianeta, allora ogni altro armamentario sarebbe abbandonato da ogni altro sfruttato. Per questo, la nostra lotta nel proletariato occidentale è affinché lui riprenda la strada del proprio riscatto. È lui che deve sanare alcuni secoli di partecipazione all’oppressione imperialista dei popoli del resto del mondo. È lui che deve, per primo, riprendere il cammino di una vera lotta per il comunismo.