DESTRA E SINISTRA RINCORRONO IL FEDERALISMO
PER FRANTUMARE ULTERIORMENTE IL PROLETARIATO

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Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire della situazione italiana. Il processo di logoramento dei partiti avanza; lo stato confusionale e rissoso dei poli si acuisce; il tessuto unitario nazionale borghese continua a sfaldarsi. Ma, tutto ciò non ferma l’attacco alle condizioni proletarie, né, anzitutto, si ferma la decomposizione dall’interno del grado di organizzazione e di resistenza delle forze proletarie. Per interrompere questo processo il proletariato deve ricostruire i suoi legami di unità di classe. Può farlo solo buttando a mare l’armamentario riformista che lo ha condotto allo stadio attuale, iniziando a lottare contro il governo D’Alema, la sua politica di strisciante smantellamento di ogni conquista operaia e di mobilitazione di guerra a difesa del "posto al sole" dell’italica patria.

Una crisi di governo aperta e chiusa con modalità tipiche della vituperata "prima repubblica", con lo scambio di favori all’interno di una coalizione di partitini, che, promettendo di volersi unificare, continuano a moltiplicarsi, rasentando, ormai, il record di "un uomo, un partito", e pronti a saltare il fosso, sull’esempio di Cossiga, di "un uomo, più partiti". Si è cercato anche di superare, in peggio, la prima repubblica sommando allo scambio politico il tentativo di acquistare in denaro qualche voto di fiducia. Cos’altro deve fare questa sinistra per dimostrare di aver cassato non solo ogni diversità di classe, ma ogni diversità tout court?

La faccenda della permanenza al governo dei Ds sembra risolversi in un puro e semplice "potere per il potere". Sappiamo che non è così, ma, forse, …ci manca poco. Il compito che D’Alema e i suoi si sono caricati sulle spalle, come logico sviluppo di tutta la storia del Pci, è di transitare l’Italia, ossia il capitalismo italiano, verso i vertici dell’oligarchia mondiale degli stati che dominano il mondo. L’obiettivo li accomuna a ogni altra forza politica borghese (Lega inclusa, sia pure con qualche particolarità); ciò che li differenzia è il modo in cui affrontano la "questione proletaria", che è questione decisiva per tutti. Per riscattare il capitalismo italiano e riportarlo, almeno, ai fasti craxiani, c’è bisogno, infatti, di stringere una doppia catena al collo del proletariato: spremergli più plusvalore (ovvero incrementare i profitti per competere nella globalizzazione) e intrupparlo nelle guerre necessarie a domare popoli e stati ribelli. Berlusconi provò nel ’94 con un attacco diretto a tutto campo. Andò maluccio. Di qui l’apertura dei "poteri forti" all’Ulivo e ai Ds per farlo con una strategia di piccoli passi.

Alla doppia morsa il Pci-Pds-Ds ha ben contribuito già dall’opposizione, più ancora dal governo. Il suo merito più grande non è tanto nelle concrete misure di smantellamento delle resistenze proletarie sul piano economico-sindacale (che pure sono notevoli e D’Alema ha puntualmente elencate al recente congresso), quanto nel fatto che ha indebolito la resistenza politica del proletariato, inducendo la militanza operaia a ritirarsi progressivamente su tutti i piani. La classe operaia educatasi alla lotta politica e allo scontro sindacale, assieme e grazie al Pci, è oggi smarrita, in buona parte ricacciata nello sconforto e nell’astensione (dalla lotta prima ancora che dal voto). Una parte ancora mantiene un certo livello di mobilitazione, soprattutto sindacale, ma sembra quasi puntare, ormai, solo a raggiungere la propria pensione senza subire traumi eccessivi.

La depressione di ogni attività in proprio della classe operaia sta, sì, prostrando e indebolendo il proletariato, ma sta riducendo anche i Ds a una formazione politica debole, sempre meno votata e sempre meno sorretta da una reale militanza. Né giungono al partito nuove leve capaci di catalizzare il consenso di strati sociali diversi. Dismessa ogni discriminante ideologica e programmatica, se non quella di bloccare una destra di cui si teme la rozzezza, in quanto foriera di riaccendere lo scontro di classe, il partito si barcamena in scontri tra individualità, il cui unico scopo sembra quello di promuovere se medesimi ai sommi gradi, in assenza di ogni visibile differenza di programmi.

La vicenda Bassolino ha mostrato platealmente a che punto sia giunta la situazione. Le diatribe sul candidato a presidente del consiglio tra le forze del centro-sinistra avevano già rivelato quanto la malattia fosse diffusa a tutto lo schieramento. Esiti ineluttabili di una coalizione nata solo per essere "contro" le destre, ma che la concorrenza a queste la fa sulle modalità di attuazione e non certo sui programmi, che sono, invece, in tutto simili: come rilanciare l’imperialismo italiano e incrementare la spremitura del proletariato.

Se sul secondo punto di passi in avanti ne sono stati fatti, per il primo il bilancio è decisamente negativo: le aspirazioni italiane a lucrare un proprio spazio imperialistico nell’aggressione e nella rapina ai danni dei popoli balcanici, e non solo, vengono sistematicamente frustrate. Il Corriere della sera del 31 gennaio traccia un bilancio sconsolato di un decennio di interventismo nei Balcani: tra scandali opportunamente pilotati, abbandoni di funzionari per minacce della malavita locale, "pulizia etnica" da parte degli americani (così la chiama il Corriere) dei funzionari italiani dell’Osce e dell’Onu, rimane ben poco di posti di responsabilità alla diplomazia italica. Il che si traduce, come ha testimoniato sullo stesso foglio (il 25.2) il generale Mazzaroli, in una sempre più manifesta emarginazione dell’Italia sia dalle decisioni politico-militari che dalla torta degli affari.

L’accumulo di frustrazioni non si traduce, certo, in rabbia verso l’imperialismo Usa acchiappa-tutto, e in un correlato tentativo di varare un polo europeo capace di strappare agli Usa il primato di dissanguamento dei popoli oppressi. Al contrario si traduce in un sempre maggiore servilismo verso di loro. La tendenza accomuna felicemente centro-sinistra e centro-destra, parimenti impegnati a conquistarsi i graziosi favori dei capibanda del brigantaggio mondiale.

Una maggiore quota del bottino rapinato al Terzo Mondo non si tradurrebbe, come avveniva una volta, in migliori condizioni per il proletariato, ma, certo, la sua mancanza rende per l’Italia capitalista i problemi più impellenti.

La borghesia italiana paga duramente la sua politica di lento smantellamento delle resistenze operaie. Mentre, infatti, lo realizzava con levantina furbizia, senza, cioè, riaccendere lo scontro di classe, s’indebolivano fortemente tutte le posizioni che s’era conquistata sul mercato mondiale. Alla sconfitta d’ogni tentativo di sistemare parti di suo capitale ai livelli alti, di dominio, del mercato (le vicende Gardini-Montedison, Calvi, Pirelli, Olivetti), è seguito, infatti, un’inevitabile ridimensionamento anche delle posizioni precedentemente acquisite. La "privatizzazione" dei monopoli energetici e delle comunicazioni ha lasciato sul mercato soggetti incapaci di tenere lo scontro con i giganti mondiali e destinati a essere, prima o poi, fagocitati da questi ultimi. L’ora è scoccata anche per l’ultimo dei giganti italici: pure la Fiat è, ormai, in vendita.

Un mare di motivi, insomma, spingono la borghesia a indurire il giogo sul proletariato. Sinistra e destra se ne propongono artefici, affievolendo ognora le differenze programmatiche, contendendosi, magari, i "nuovi capi" (l’oggetto del contendere, tanto per cambiare, è il governatore della Banca d’Italia), ma in un quadro generale in cui avanza lo sgretolamento del tessuto unitario nazionale, pur in presenza di uno stato unitario, che va riducendosi, però, a puro simulacro.

D’Alema continua a sperare di contrastare la destra occupandone con spregiudicatezza il terreno d’elezione, e spedisce lo sceriffo Bianco a tranquillizzare con le sue trovate le "esigenze di sicurezza dei cittadini", occupando, per esempio, militarmente il territorio della Puglia con licenza di sparare anche alle ombre che si agitano tra i carciofi (due clandestini albanesi feriti il 24 marzo), e cerca di tenere insieme i cocci del centro-sinistra riagitando il pericolo di riscossa dell’avversario. All’appello ha già risposto positivamente Bertinotti, che, immemore delle sue stesse critiche al liberalismo dei Ds e al loro ruolo nell’infame aggressione alla Jugoslavia, torna a sottoscrivere patti con loro e i loro ancor meno presentabili alleati, sempre in nome della necessità di costruire blocchi elettorali contro il pericolo della destra. Pur di sbarrarle la strada si difende a spada tratta un Bassolino, i cui trascorsi di sinistra "operaia" non sono neanche più un pallido ricordo, per il sol fatto che è "vincente", o di sottoscrivere dei penosi accordi elettorali accontentandosi di vaghe promesse contro la precarietà del lavoro, di rafforzamento della sanità pubblica e di costruire qualche centinaio di alloggi popolari. Cossutta lo sorpassa nella corsa verso il baratro calpestando la sua stessa "storica" battaglia per il democratico sistema proporzionale a vantaggio dei pregi del maggioritario, in grado di conservargli qualche cadreghino tra le pieghe dello schieramento di centro-sinistra.

Il federalismo avanza

Nella campagna per le regionali il centro-sinistra lotta contro la destra pressoché unicamente sul terreno del federalismo. Al Nord ci si batte per un "vero" regionalismo, che, al contrario di quello delle destre, rifiuti ogni "centralismo regionalista". Al Sud, la sparata di Bassolino non era diretta unicamente a pestare i piedi per un incarico (presidente di regione) ritenuto dequalificante, ma ha fornito anche una chiara dimostrazione del "federalismo possibile": quello inevitabilmente conflittuale, tra 20 regioni (o 2-3 macro-regioni) tra loro, nonché tra miriadi di territori al loro interno. Per il Sud l’evoluzione si prospetta ben più drammatica che per il Nord. Per avere un certo potere di contrattazione sui tavoli di conflitto che si preparano, sarebbe meglio se riuscisse a presentarsi unito. Così, Bassolino ha proposto un coordinamento delle regioni del Sud per creare un’"ossatura di autogoverno del Mezzogiorno", e ha aggiunto, in tono di sfida con i federalisti del Polo, "la Padania non esiste, il Sud sì" (con il che ha fornito un indiretto, quanto esplicito, riconoscimento della Padania stessa. Se ne sarà reso conto l’aspirante viceré?). Su cosa fondare l’unità, nel quadro attuale di dissoluzione di ogni collante politico di un certo peso? Non rimane che il "carisma personale" e personalistico, qualità di cui Bassolino crede, dopo i "successi" da sindaco di Napoli, di essere dotato ad abundantiam.

Il centro-destra, memore dell’esperienza ulivista (un’accozzaglia truffaldina e trasformista di alleati "contro la destra"), ha predisposto, per le regionali (e si prepara a ripetere alle politiche), la sua propria accozzaglia "anti-sinistra". Questa volta l’alleanza, si giura, durerà più che nel ’94. C’è da crederci. Infatti, la base principale di quest’alleanza è esattamente quella bossiana, nonostante i mal di pancia finisti-casinisti. È vero che Bossi ha fatto un passo indietro dalla secessione, ma è ugualmente vero che Berlusconi di passi indietro ne ha fatti due, piegando ogni pretesa che nel ’94 aveva di rilancio complessivo dell’Italia alla scoperta che un vero cambiamento si può avere solo con la devoluzione dei poteri alle regioni. I passi indietro di Berlusconi non dipendono principalmente da esigenze elettorali, ma, dal trovarsi nella necessità di inseguire il suo proprio elettorato piccolo e medio borghese (di Forza Italia e di AN) del Nord, che, persa la fiducia nella possibilità di affrontare come paese unito le sfide della globalizzazione, spera di poter resistere meglio e rilanciarsi abbandonando il Sud e disfacendosi della pletorica, assistenzialista, farraginosa macchina politico-burocratica dello stato unitario.

A qual punto sia giunta questa spinta s’è visto anche con la designazione di D’Amato a candidato presidente di Confindustria. Gran felicità per lo schiaffo alla grande industria, perché i piccoli industriali finalmente hanno deciso uomo e politica che li rappresenta, e perché ora si passerà a un vero decentramento dei poteri nelle aree periferiche (così il presidente degli industriali veneti a la Padania del 13.3). Non del potere interno a Confindustria, naturalmente, ma del potere vero di Confindustria, ossia della contrattazione con i sindacati. Come ha rivendicato il Sin.pa.: con D’Amato si spiana la via per giungere alle gabbie salariali. Ciò dà perfettamente il senso della deriva federalista: scompaginare fin nella fondamenta ogni vincolo unitario di classe. Fornire a ogni micro-sezione borghese la forza per dare, nel proprio territorio, la caccia a ogni resistenza operaia, e contendersi gli investimenti del grande capitale mettendo sul piatto la testa del proprio proletariato.

Nuovi dolori per il proletariato

Per il proletariato si annunciano nuovi dolori. La "sinistra" è sempre più determinata a proseguire sulla linea del liberalismo a dosi crescenti. La destra si è rimessa in marcia per re-impossessarsi del potere su una linea, più titubante e "moderata" che nel ’94, ma, nondimeno, decisa ad attaccare la "conservazione" dei residui di "comunismo" nei rapporti di lavoro e nell’organizzazione sociale. Il fatto che a ciò si aggiunge un federalismo sempre più convinto prepara una miscela esplosiva ai danni del proletariato. Organizzarvi la resistenza sarà sommamente difficile. Lo stato dell’armamento politico, sindacale e organizzativo della classe operaia è in condizioni pietose. Il peggior lascito della politica riformista si condensa proprio in ciò: decenni di politica tesa ad annullare ogni autonomia di classe per piegare l’intera classe alle esigenze del capitalismo, con in più gli anni recenti in cui questa politica è stata condotta dal governo, fino al punto di spingere i proletari a seguire il proprio imperialismo nell’aggressione armata ai propri fratelli di classe d’oltre confine, non sono passati invano. Oggi la borghesia può partire in un nuovo assalto capitalizzando i favori che la "sinistra" gli ha procurato.

Il proletariato deve iniziare d’accapo a ricostruire il suo armamentario di lotta. Deve farlo, perché l’aggressione capitalista non gli dà e non gli darà tregua. Può farlo, traendo anche dal suo passato recente e remoto gli insegnamenti sui programmi, gli organismi e le modalità di lotta.

Il corso del riformismo ha depotenziato politicamente il grado di resistenza operaio, ma ha anche depotenziato quella generazione operaia (non è questione di età, ma di influenza dei programmi e delle politiche) che lo ha seguito, potendone, talvolta, anche vantare i benefici ricevuti sul terreno immediato. Oggi, questa generazione si trova a dover difendere gli ultimi residui di conquiste del suo ciclo di lotte. Ma è completamente sola, intorno a lei si diffonde un proletariato che già non possiede la gran parte delle sue "garanzie". Anche solo per difendere sé stessa dovrebbe cercare di mettere in campo dei rapporti di forza capaci di contrastare il liberismo avanzante, e perciò ritessere i fili dell’unità che sotto i suoi occhi, e con la sua passività, sono stati recisi. Invece, nessun segnale di una simile iniziativa proviene dal suo corpo. Per riaggregare i milioni di giovani proletari, bianchi e immigrati, che già vivono e lavorano sotto il pieno dispotismo dei padroni e dei mercati bisogna lanciare una battaglia che rivendichi anche per loro garanzie contro l’arbitrio padronale. Per intraprendere una simile azione si devono, però, rimettere in discussione tutti i presupposti della politica seguita finora e che è stata la causa dell’attuale situazione di disgregazione della classe -la subordinazione alle compatibilità del mercato, delle aziende, dell’economia nazionale- e si dovrebbe rispolverare quel punto di vista di classe che la "sinistra" considera ormai pura bestemmia. Non un semplice sussulto d’orgoglio, ma un nuovo piano, un nuovo programma che recidano i fili con quelli del passato.

Un nuovo movimento operaio

Il nostro appello agli operai, ai militanti di classe, che vogliano davvero dare battaglia contro le ulteriori spoliazioni delle conquiste passate, è a lanciare un ponte verso quel proletariato che vive e lavora già ora senza di esse, sia quando è bianco, sia, e soprattutto, quando è colorato, sia che risieda in Occidente che nei suoi paesi d’origine. Non per chiedergli aiuto per conservare quel poco che rimane, ma per dimostrare, anzitutto, la propria determinazione a fare con loro un fronte comune per difendersi tutti, e tutti insieme. Un ponte che si può lanciare se si aprono definitivamente gli occhi per vedere che chi opprime loro (i "nostri" stati e governi, il "nostro" capitale finanziario e industriale, le "nostre" aziende) è lo stesso che opprime noi, e si riconosce di avere, finora, lasciato che svolgesse la sua opera senza la nostra opposizione, se non proprio con il nostro consenso.

Un appello di eguale intensità lo rivolgiamo ai giovani proletari, a coloro che lavorano senza beneficiare del patrimonio di conquiste dei loro predecessori.

Voi constatate la vostra situazione di precarietà e di ricatto sul lavoro, soffrite le immense difficoltà in cui è sommersa la vostra vita fuori dal lavoro, vedete come le cose vadano peggiorando anche per i più anziani e "garantiti". Avete ragione a pensare che tutto ciò è l’effetto del ciclo precedente di lotta operaia, ma sbagliereste a credere a chi vi racconta che la colpa consista nella lotta collettiva e che sia meglio adeguarsi al mercato cercando di conquistarvi individualmente condizioni migliori mettendovi in concorrenza con tutti gli altri lavoratori, italiani o stranieri, anziani o giovani. Non si è sbagliato a lottare, si è sbagliato nell’indirizzo dato alla lotta. Non si è lottato troppo contro il dispotismo delle aziende, dei governi, dei mercati, ma si è lottato poco, si è cercato di trovare sempre un compromesso, un modo per far convivere le proprie esigenze con quelle dei padroni. Non si è sbagliato nel volersi dare proprie organizzazioni sindacali e politiche, si è sbagliato nel lasciare che si conformassero alle esigenze dell’avversario di classe. Prendete lezioni dalle esperienze passate, per cercare di non ripetere gli stessi errori, ma date tutto il vostro impegno a costruire un argine di difesa collettiva, organizzata, di classe, contro tutte le politiche di sfruttamento del vostro lavoro e di oppressione della vostra vita.

Lavoriamo insieme a ricostruire i legami con i lavoratori anziani, con i lavoratori immigrati, con i popoli oppressi dall’imperialismo. L’organizzazione e l’unità di lotta è quanto bisogna per evitare di farsi spolpare dall’appetito dei mercati e di farsi trascinare, come truppa e come vittima, nelle guerre che il capitalismo conduce per rinnovare e rinforzare il suo dominio sui popoli di tutto il mondo.

Un nuovo movimento operaio deve, necessariamente, dalle ceneri del vecchio iniziare a prendere vita e forma.

A esso i comunisti devono dedicare le loro energie. Non per un astratto domani, ma per un oggi che già preme sotto inedite (rispetto al ciclo riformista declinante) forme e manifestazioni.