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Nostra attività

L’8 MARZO nella sezione di Torino

Una discussione su parità formale e diseguaglianza reale

L’8 marzo, nato e celebrato per decenni come giornata di lotta delle donne, è diventato ormai festa commerciale: mimose e cioccolatini e la sera tutte fuori a cena o in discoteca o, perché no?, ad assistere a uno spogliarello maschile secondo i dettami dell’ultima moda dell’"emancipazione". Qualche stanco convegno o dibattito di rito e un tot di spazio sui mezzi di informazione, giusto per ricordarci quanto le donne occidentali stiano bene rispetto a quelle del Sud del Mondo velate e infibulate, e non abbiano quindi motivo e diritto di avanzare richieste, completano il quadro.

Prendere le distanze e denunciare tutto ciò è un atto dovuto per noi donne comuniste e per i rivoluzionari tutti. Ciononostante ci ripugna che il capitale si impossessi e stravolga a proprio uso e consumo una data che appartiene alla classe e alle donne in lotta.

Quest’anno perciò (un po’ casualmente e un po’ volutamente) l’8 marzo è stata l’occasione per organizzare nella nostra sede di Torino una riunione aperta a una serie di compagne e donne -e ai compagni!- alcune delle quali digiune di esperienze politiche precedenti e di militanza nei movimenti femministi degli anni ’70-’80, altre impegnate da sempre in organizzazioni o nel sindacato. Donne che, spesso insieme ai loro compagni, seguono da un po’ la nostra attività, ma anche donne che normalmente restano a casa con i figli mentre i loro compagni "fanno politica" o attività sindacale.

L’apertura ai corpi militari professionalizzati anche alle donne, propagandata e in larga parte vissuta come il compimento obbligato della progressiva parificazione della donna all’uomo nella nostra società, è stato lo spunto per la discussione, e il punto di partenza per allargare la riflessione a tutto campo sulla condizione della donna oggi. Diciamo subito che la risposta delle compagne è stata molto positiva anche per quanto riguarda il contributo a una discussione "vera" e partecipata che solo l’ora tarda ci ha costretto ad interrompere.

Un altro dato da rilevare è che la riunione è stata organizzata e gestita in modo prevalente, anche se non esclusivo, dalle compagne della sezione: la specificità che la questione femminile rappresenta ci spinge a prediligere questa impostazione, anche se abissale è la nostra lontananza dalle posizioni del "separatismo" che pongono la contraddizione di genere come alternativa alla contraddizione di classe.

L’introduzione al dibattito ha cercato di mettere in luce la realtà dell’oppressione della donna nei paesi dell’Occidente capitalistico e del suo progressivo peggioramento a tutti i livelli, non solo economico, a fronte della parificazione formale dei diritti e di una propaganda che vorrebbe risolta qui la questione femminile (salvo poi smentirsi anche solo con la pubblicazione periodica di dati statistici o con gli innumerevoli fatti di cronaca e di "costume" che dicono tutt’altro) (1). L’oppressione della donna rimane insieme allo sfruttamento classista uno degli assi fondanti e vitali di questo sistema. Abbiamo richiamato solo alcuni dei molteplici aspetti concreti che essa assume: il maggior sfruttamento, l’iperflessibilità, la subalternità a quella dell’altro sesso della forza lavoro femminile, il cui salario continua a essere considerato di integrazione rispetto a quello del marito (2); la marginalizzazione nelle professioni, nelle istituzioni, in politica, nelle organizzazioni della "sinistra" e nel sindacato e in genere nella vita sociale; l’aumento del lavoro domestico e di cura di anziani, bambini, invalidi, dovuto anche al ridimensionamento dei servizi sociali, lavoro che, tanto più se si aggiunge a quello fuori casa, sfianca la donna e le toglie ogni residua energia per qualsivoglia altro interesse o occupazione; il ruolo della donna nella famiglia, di subordinazione rispetto al marito/padre e nello stesso tempo di tenuta dell’istituzione familiare, un carico che chi non è in grado di reggere risolve con depressione o suicidio; il progressivo attacco ai diritti delle donne, vedi per tutti l’aborto; il livello di violenza crescente, sessuale, fisico, psicologico, di cui la donna è fatta oggetto in modo esponenziale in ogni ambito, a cominciare dalla stessa famiglia; la mercificazione esasperata del corpo femminile, oggetto-richiamo per ogni sorta di vendita e di prodotto da piazzare sul mercato, mercificazione a cui è legato l’ampio e redditizio mercato della pornografia e della prostituzione, e che richiama il più generale tema della mercificazione e dell’abbrutimento di tutti i rapporti sociali, in primis del rapporto uomo-donna.

Essenziale ci è sembrato rimarcare come le stesse conquiste degli anni precedenti anche in questo campo siano state comunque frutto delle lotte delle masse femminili e della classe operaia, e come il capitale non solo sia pronto a rimetterle drasticamente in discussione, ma addirittura utilizzi e faccia leva sulla sacrosanta esigenza di emancipazione e di riscatto delle donne per peggiorarne le condizioni materiali e per tentare di accorparle a sé, di attivizzarle nei confronti delle sue esigenze, delle sue politiche (emblematico esempio è proprio la legge che immette le donne nell’esercito). In questo, sia detto per inciso, dimostrando di avere ben chiara la rilevanza dell’atteggiamento e dello schieramento delle masse femminili, così come da sempre, ma per prospettive e finalità opposte e cioè per le sorti del movimento proletario tutto, è questo un elemento assolutamente decisivo per i comunisti rivoluzionari.

Se la reale e definitiva soluzione dell’oppressione femminile non può che darsi con lo scardinamento globale dei rapporti di proprietà e di produzione capitalistici, solo la ridiscesa in campo delle donne proletarie, e non solo proletarie, può costituire un argine al deterioramento progressivo del ruolo e della posizione della donna, in un percorso di organizzazione e lotta che sappia fare i conti col ruolo micidiale dello stesso riformismo, comprese le sue varianti "femminili", sappia individuare nemici e cause reali del proprio asservimento e legarsi alla battaglia generale del proletariato.

La discussione ha ruotato prevalentemente su due temi: il lavoro domestico e la cura dei figli come occupazioni che rimandano a un ruolo in qualche modo naturale della donna, in una certa misura gratificante per lei e a cui con difficoltà essa stessa rinuncerebbe, sempre che avesse la "libertà" di sceglierlo e non fosse una condizione imposta. Vecchia questione, più che mai attuale, quella di una presunta naturalità di ruolo che, nel capitalismo in modo del tutto peculiare, condanna -e non permette di scegliere!- la donna a una marginalità o a una vera e propria esclusione dalla vita sociale, che la incatena a una posizione di schiava del focolare. È vero infatti che il lavoro domestico è quella quantità enorme di lavoro sociale che non viene retribuito e che, in quanto tale, è senza valore; così come di conseguenza svalorizzato, senza valore, è il soggetto che vi è "naturalmente" preposto. Del resto la stessa divisione naturale del lavoro non ha sempre significato subordinazione del sesso femminile a quello maschile, ma questa si dà solo col comparire della proprietà privata e con la necessità di una sua trasmissione certa per via ereditaria da parte del proprietario.

Estremamente stimolante per noi ai fini dell’ulteriore approfondimento di queste tematiche e a partire dalla nostra "comprensione" parziale e lacunosa, è stato cercare di argomentare e mostrare nel concreto come quello che sembra essere la conseguenza delle nostre "libere" scelte e volontà sia in realtà imposizione sociale, operare di leggi non visibili, di meccanismi e dinamiche che sono arterie e nervi di un dato sistema produttivo e di rapporti sociali ben determinati. Così come è difficile, ma forse di più immediata percezione, rilevare quanto ciò che "ci appaga e gratifica", nella realtà di un sistema putrescente, sia in modo sempre più parossistico fatica, miseria, alienazione, in rapporto al reale appagamento di una collettività matura che davvero sia in grado di scegliere e costruirsi presente e futuro, libera dalle leggi della produzione per il profitto.

L’altro argomento al centro del dibattito è stata la condizione della donna nei paesi islamici in rapporto alla condizione femminile qui. In particolare ad esprimere questa fondamentale questione, è stato l’intervento di una compagna del Marocco, a cui siamo legati da profondo affetto e stima. In sintesi, la compagna ha riportato la sorpresa e la delusione con cui ha dovuto constatare come le sue aspettative e convinzioni al riguardo della donna occidentale fossero molto poco fondate: al posto di una donna libera ha trovato una donna umiliata, poco o nulla rispettata, non meno oppressa perché meno vestita o velata.

La realtà dell’oppressione femminile nei paesi del Sud del mondo o nei paesi islamici, con le sue particolari caratteristiche, è certo un dato incontrovertibile, pensiamo solo all’acquisizione dei diritti per via legislativa. Detto questo non possiamo non denunciare prima di tutto quanto i commentatori nostrani utilizzano a piene mani questo argomento ai fini esclusivi della loro crociata anti-islamica e anti-araba, e la responsabilità dell’imperialismo anche a tale proposito, la generalizzazione interessata e falsa a tutta l’area di condizioni di particolare arretratezza che guarda caso sono proprie dei paesi più asserviti all’imperialismo. Non possiamo non rivoltarci di fronte all’enorme mistificazione dell’avvenuto affrancamento della donna in Occidente.

Anzi la nostra propaganda e il nostro intervento verso le donne, comprese le immigrate, che qui vivono le condizioni di peggiore sfruttamento e discriminazione, deve proprio essere mirata a evidenziare gli elementi che ci accomunano e ci uniscono, di contro a chi ci vuole divise e contrapposte, per una comune battaglia per comuni obiettivi.

Significativa è stata inoltre la posizione espressa da una compagna operaia Fiat riguardo al significato comunque progressivo che l’immissione della donna nel processo produttivo rappresenta. Per quanto costringa ai turni, al lavoro notturno, ai ritmi bestiali, per quanto non salvaguardi dal supplementare lavoro in casa, il lavoro extra-domestico rappresenta comunque lo strumento per fuoriuscire dall’ambito chiuso ed avvilente delle mura di casa -una vera e propria prigione!-, ed è il presupposto per sentirsi parte di un corpo collettivo, di una classe, e non più individuo isolato.

Altro elemento sollevato, e che non può non trovarci concordi, è la necessità di "una lotta di classe anche in famiglia e col proprio compagno", il quale, non perché "di sinistra", non ripropone i più classici comportamenti da maschio nell’ambito del suo rapporto di coppia e della sua famiglia.

Per concludere, ci siamo lasciati con queste donne e compagne con l’impegno di riaggiornarci ad un prossimo appuntamento su questo ed altri temi a riprova di quanto al di sotto di una condizione di passivizzazione del proletariato e degli altri strati oppressi della società, al di sotto di quello che definiamo uno stato di narcotizzazione della classe, covi l’esigenza di ragionare in modo collettivo sui nodi, sulle contraddizioni con cui ci troviamo a fare i conti, sulle prospettive che abbiamo di fronte.

Note

(1) "La repubblica democratica non elimina l’antagonismo fra le due classi: offre al contrario per prima il suo terreno di lotta. E così anche il carattere peculiare del dominio dell’uomo sulla donna e la necessità, nonché la maniera, di instaurare un’effettiva uguaglianza sociale dei due sessi, appariranno nella luce più cruda solo allorché entrambi saranno provvisti di diritti perfettamente uguali in sede giuridica" (F. Engels, L’origine della famiglia, p.101).

(2) R. Manieri in Donna e capitale commenta il celebre passo di Engels: "L’operaio prima vendeva la propria forza lavoro della quale disponeva come persona libera formalmente. Ora vende moglie e figli. Diventa mercante di schiavi." Il capitalismo produce l’operaio come libera forza-lavoro di fronte al capitale, non produce similmente la donna come libera lavoratrice. Il rapporto della donna col capitale è mediato dal rapporto con l’uomo e di conseguenza la sua condizione non si origina e non si esaurisce, come invece quella dell’operaio, nella divisione sociale del lavoro capitalistico. Questo perché il luogo originario e specifico dell’oppressione della donna, primario nei confronti della fabbrica, è la casa, i rapporti che in questa si stabiliscono, la famiglia, e il legame di questa con il tutto sociale.

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