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Non dimenticare la Jugoslavia

CROAZIA: CON LE ELEZIONI,
REGIME NUOVO E VECCHI PROBLEMI

All’indomani della morte di Tudjman muore di colpo apoplettico elettorale anche il sistema di potere coagulatosi attorno al suo nome. Ma i nuovi padroni, universalmente benedetti come democratici, ereditano tutti i problemi accumulatisi nel tempo, da Tudjman e da prima di lui: un’economia a pezzi ed uno stato più che mai vassallo delle grandi potenze occidentali. Le spese relative vengono messe in carico alla classe operaia, agli sfruttati. Una lezione per questi ultimi: non si uscirà dal gorgo per via elettorale, per aggiustamenti più o meno democratici delle forme di regime, ma attraverso una lotta di classe aperta sulla base di un programma indipendente che riguarda l’insieme delle classi oppresse jugoslave e mondiali.

Dunque: elezioni e previsto, e programmato, tonfo dell’Hdz, come da copione. Il centrodestrasinistra della coalizione liberaldemocratica-socialdemocratica entra da trionfatrice nel nuovo parlamento, pur se con lo scorno dell’elezione dell’"indipendente" Mesic a capo dello stato.

La popolazione croata ha partecipato abbastanza massivamente al voto, com’è comprensibile, per mandare definitivamente a casa quel regime infame che, per la massa, ha significato privazioni inenarrabili di ogni tipo, economiche, sociali e politiche, ovvero la fame e la compressione dei più elementari diritti civili. Ma, significativamente, essa non ha dato grandi segni di giubilo all’annunzio dello "storico risultato" raggiunto. A festeggiare, più nei club privati che nelle piazze, è stata soprattutto un’élite delle classi superiori che si apprestano a mettersi a tavola.

Il dato è significativo. La coalizione vincente sa bene, e lo ha subito dichiarato a titolo di avvertimento alla popolazione a vittoria ottenuta, che anche tolta di mezzo la banda Hdz col suo corollario di corruzione, le cose in Croazia non potranno cambiare gran che. Il peso di un’economia allo sfascio, con una montagna di debiti di contorno, non si cancella con la fine di Tudjman, ma rappresenta un dato strutturale connesso alla posizione del paese nell’ambito economico e politico mondiale. L’unico rimedio contro di esso starebbe nell’aggredire direttamente le cause interne ed esterne di esso, vale a dire tutto il corso disastroso che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia ed alla riduzione della Croazia a stato vassallo dell’Occidente. L’ultima cosa, ovviamente, che i nuovi padroni possono sognarsi di fare. Essi sono lì, anche grazie al concorso diretto dei capi occidentali da cui dipendono, che hanno deciso di scaricare Tudjman, dopo averne ben spremuti i servigi, per dare uno sfogo provvisorio alle masse stanche della dittatura Hdz e sul punto di esplodere, ma unicamente per continuare a governare pro domo loro la colonia croata. Sono lì ben decisi a svolgere il ruolo ad essi affidato temendo, più di ogni altra cosa, la ripresa di un’attività autonoma da parte delle masse, tanto che, nella campagna elettorale, si sono ben guardati dal promuovere o sollecitare iniziative dal basso, dal dare la parola alle masse. Queste sono state sì chiamate a votare, ma condannate al silenzio e, ad urne chiuse, immediatamente richiamate al dovere di rimboccarsi per l’ennesima volta le maniche con la scusa che i conti arretrati da pagare sono alle stelle e non ammettono sciali. La massa l’aveva già capito: nulla di decisivo per le proprie sorti c’era e c’è da aspettarsi da costoro. In assenza di alternative, è andata pazientemente alle urne, forse con l’unica aspettativa in positivo che l’instaurazione di un sistema rinnovato di "libertà civili" le consenta di riprendere il filo, quanto meno, di una azione sindacale in proprio. Il che, data la situazione, non è pochissimo.

Non stiamo qui a spiegare il perché dal forte risentimento degli sfruttati contro Tudjman non sia automaticamente e d’improvviso sbocciata una prospettiva autonoma, rivoluzionaria. Le occasioni rivoluzionarie possono ben esser colte al culmine di un lungo ciclo di preparazione classista e di presenza del partito comunista, ma quando, come nella Croazia di oggi, si scontano decenni di smobilitazione di questo "apparato" di classe, la via della ripresa, anche in presenza dei pungoli oggettivi più acuti, ricomincia necessariamente da un lavoro molecolare dal basso: tutte le lezioni del marxismo vanno riprese dall’abc, e fors’anche dalle aste, come capita a chi si risveglia dopo decenni dal coma profondo e deve ripartire da quasi zero. Anche in presenza di buoni istruttori, se mai ce ne fossero, -e non ne vediamo troppi in giro, lì e nel mondo- miracoli non si fanno. E meno ancora ne fa la "spontaneità".

Queste considerazioni servono anche a spiegare il perché dello scarso successo elettorale, e non solo né precipuamente, dell’unico partito croato che, in qualche modo, si richiami esplicitamente al socialismo, vale a dire il Partito Socialista dei Lavoratori (di cui pubblichiamo l’analisi dei risultati elettorali compiuta e inviataci dall’organizzazione di Pola). Sul manifesto Giacomo Scotti, dal suo osservatorio diretto in Croazia, lo aveva accreditato come la possibile sorpresa elettorale; noi, più modestamente, da lontano, avevamo pronosticato ai nostri interlocutori il risultato poi verificatosi, sull’uno per cento circa.

Non c’è dubbio che questo partito è l’unico a trarsi fuori dalla fogna generale non temendo di parlare degli specifici interessi di classe dei lavoratori ed ha anche osato, a tempo debito, prendere una posizione netta contro l’aggressione Nato alla Jugoslavia. Da un punto di vista astrattamente logico dovrebbe sembrar perciò naturale che i diretti interessati, cioè i lavoratori stessi, lo premiassero col voto ed andassero ad ingrossare le sue schiere militanti. Così non è stato. Perché?

Alcune sommarie spiegazioni. In primo luogo il programma di questo partito si rifà sostanzialmente al vecchio titoismo senza mai osare metterlo in causa per le responsabilità che gli competono nell’aver statizzato ed aziendalizzato la classe operaia jugoslava aprendo, contemporaneamente, tutte le strade al corso dissolutivo di cui le varie microborghesie "nazionali" si sono fatte protagoniste. Al contrario, l’unica correzione decisiva portata al titoismo è quella, peggiorativa, di una critica ai suoi eccessi "socialisti", rispetto ai quali si suggerisce la solita solfa di un’economia di mercato "controllata" e "sociale". Si ha paura anche solo di pensarsi socialisti anti-mercato, di proporsi come partito della rivoluzione e, orrore!, della dittatura del proletariato. Quanto all’internazionalismo, non si va al di là di un vieto appello alla "solidarietà" internazionale da paese a paese, ferreamente ancorati al proprio meschino territorio "nazionale". Si pensa, forse, ad una sorta di jugoslavismo, ma anche questo regredito di un bel po’ rispetto al modello-Tito (e lasciamo da parte le legittime cautele cui questi militanti sono costretti a parlarne espressamente date le norme in vigore -anche dopo Tudjman- che vietano anche solo di parlare di Jugoslavia). In secondo luogo, in diretto rapporto con tutto ciò, l’attività di partito privilegia gli aspetti elettoraleschi, "democratici", a cui si sacrificano gran parte delle risorse umane e finanziarie, senza la capacità e la volontà stessa di legarsi agli aspetti concreti della lotta di classe materiale alla base per quella che essa veramente è, sia pure ai livelli molecolari di cui si è detto. E qui il richiamo al titoismo imbalsamato è ancor più evidente.

È esattamente il contrario di ciò che può preparare la ripresa. Perché essa si dia è necessario che il partito abbia un programma socialista, internazionalista, chiaro ed inequivoco verso cui orientare tutte le proprie energie ed ogni atto della sua propaganda e della sua azione. È necessario un partito che non si metta in pista in vista di improbabili successi elettorali, sacrificando vanamente ad essi le proprie energie, ma lavori a contatto della classe operaia sin nelle sue più modeste manifestazioni, costantemente richiamandola ad uno sforzo di "auto-organizzazione", di protagonismo antagonista in proprio. In assenza di ciò è del tutto naturale che i voti operai scappino altrove, dove tangibilmente si prospetta un risultato concreto purchessia e non un semplice atto di testimonianza, e che le varie molecole della resistenza di classe rimangano frammentate e incoerenti tra loro. La bandierina nostalgica del titoismo, del "si stava meglio quando si stava peggio", non porta da nessuna parte, nonostante che la massa senta magari questa nostalgia, perché, a parte ogni considerazione di merito sulla bontà del modello passato che si agita, non dà ragione alcuna dei motivi che lo hanno portato necessariamente al disastro né l’indicazione di una via qualsivoglia che ne propizi il riscatto. È una lezione universale che constatiamo in Russia e in tutti i paesi dell’Est, ad esempio in quella Romania dove oltre il 60% della popolazione, stando a recenti sondaggi, rimpiange Ceaucescu. La storia non si fa con sterili rimpianti, ma traendo tutte le debite lezioni dai disastri passati e guardando in avanti.

Certamente in questo partito, come abbiamo scritto nel precedente numero, affluiscono anche energie giovani che accolgono il richiamo al socialismo e lo sentono in modo serio. Noi salutiamo con favore questo fatto, indipendentemente dalle bandierine sventolate, che non sono le nostre, ma nella coscienza che a questi giovani spetterà il compito di sfruttare la stazione di transito su cui sono provvisoriamente attestati per andare avanti rimettendo in causa il bagaglio inconcludente che si trovano, intanto, per le mani. I militanti del partito socialista operaio croato che ci conoscono sanno che noi non bariamo, che gli parliamo sempre in piena, fraterna franchezza. Il dialogo con essi è sempre aperto, su queste basi. Per intanto, essi avranno potuto constatare che da quelli, qui in Occidente, a loro formalmente più vicini (del tipo Rifondazione e cossuttiani) non arriva nessun serio segnale di "cooperazione". Se ci rifletteranno sopra, vedranno bene quali ne sono le ragioni profonde: i mille "socialismi (borghesi) in un solo paese" spiegano tutto da sé; specie quando alcuni di questi "socialismi" sono perfettamente integrati al proprio imperialismo e perciò strutturalmente distanti anni luce da quelli dei paesi-dipendenti, dei paesi-colonia.

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