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Bossi e Berlusconi preparano il bis

PER I LAVORATORI
SARÀ PEGGIO DELLA PRIMA VOLTA

Bossi e Berlusconi hanno rinnovato un patto di alleanza. Le fondamenta, dicono, sono questa volta più solide, perché si basano su una profonda condivisione del progetto federalista. Un loro ritorno al governo troverebbe, grazie all’opera soporifera e disgregante della "sinistra", un proletariato incapace anche di una reazione come quella del ’94. Per poter ricostituire le sue forze, però, il proletariato non può evitare di confrontarsi con i problemi che l’adesione di una sua parte alla Lega ha segnalato. Si possono affrontare e risolvere solo uscendo completamente dalle secche del riformismo e del collaborazionismo di classe.

Polo e Lega stanno provando a riproporre la loro alleanza per cacciare il centro-sinistra dal governo oggi delle regioni, domani dello stato. Entrambi giurano che non ripeteranno gli errori cui, a loro dire, la comune inesperienza li indusse nel ’94. Per Berlusconi quella anti-sinistra è la motivazione principale. Per Bossi, invece, l’alleanza ha il merito di aprire una strada concreta per la Padania: rinunciamo alla secessione, ma abbiamo in mano un patto che porta al vero federalismo e alla devolution. Il patto che i due hanno sottoscritto prevede, infatti, di iniziare a devolvere sanità, scuola e polizia, con le relative quote di federalismo fiscale per consentire alle regioni di sovvenzionare i nuovi compiti. Promette un Coordinamento delle regioni nei rapporti con lo stato centrale e con l’Europa, nonché degli Uffici per il Nord, Centro e Sud presso la presidenza del consiglio. Anche ammesso che il "patto segreto" di cui ha parlato il Corriere (28.2) non sia stato sottoscritto e depositato dal notaio, ha ragione Bossi nel sostenere che la dinamica che si aprirebbe porterebbe, inevitabilmente, dove lui vuole: parlamento del Nord, e, di conseguenza, del Sud, Padania e Italia (o Ausonia), magari in compresenza di uno stato centrale svuotato di funzioni.

Berlusconi, in verità, non perde occasione per confermare di essere divenuto un convinto federalista. All’assemblea dei costruttori di Verona è giunto persino a dichiarare che bisogna difendersi dai rischi di sradicamento causati dalla globalizzazione preservando la propria cultura a partire dai dialetti. Non è semplice folclore, la situazione italiana versa già nella pericolosa spirale di uno scontro di tutti contro tutti, a iniziare proprio dai principali strati di riferimento di Berlusconi, quei piccoli e medi imprenditori del Nord sempre più bisognosi, per competere su un mercato vieppiù selvaggio, di liberarsi del peso dello stato centralista, incapace di sostenerli e attrezzarli, e delle residue "rigidità" della forza sindacale del proletariato.

Anche se le promesse di fedeltà dei capi corrispondessero a vere intenzioni, sul patto Lega-Polo si addensano ugualmente contraddizioni non di poco conto.

Innanzitutto il liberismo berlusconiano. Questo trova nella Lega fervidi aficionados (tra i quali un Pagliarini che alle lodi del sistema americano di mercato del lavoro unisce la proposta di privatizzare anche le forze di polizia: ogni regione, propone, acquisti i servizi di quelle che le sembrano più convenienti), ma Bossi non può sposarlo fino in fondo, e, infatti, ha sciorinato una sua particolare revisione storica dei fatti del ’94, in cui Berlusconi appare come un pover’uomo raggirato da Dini, agente segreto dei "poteri forti" inviato nel governo del Polo per far scattare la trappola di una riforma impossibile delle pensioni. Il fatto è che la sua base "popolare" difficilmente digerirebbe un nuovo assalto alle pensioni, così come ha dimostrato di gradire poco i referendum liberisti di Bonino-Pannella. Ma Berlusconi, tornato al governo, non potrebbe fare a meno di dare l’ultimo e definitivo colpo al sistema delle pensioni pubbliche, sia per distruggere uno degli ultimi terreni di intervento unitario dei lavoratori, sia per mettere a disposizione della borghesia nazionale ed estera quella massa di risorse finanziarie che bramano per sovvenzionare le aziende e i giochi di borsa. Non basterebbe, insomma, regionalizzare le casse; anche le pensioni del Nord dovrebbero subire falcidie.

Secondariamente, Bossi non rinuncia ad attaccare gli Usa e la loro politica di dominio che costringe in un ruolo subordinato anche una realtà economica come la Padania; Berlusconi, invece, continua a dichiarargli amore imperituro. Allorchè dalle "opzioni ideali" si tratterà di passare alle scelte concrete, ben difficile sarà, inevitabilmente, il compromesso.

Bossi, inoltre, non ha affatto accantonato il progetto della Padania, mentre Berlusconi non può aderirvi totalmente, né può accettare che lo stato unitario si riduca a puro ectoplasma.

Per finire, Bossi mantiene in sottofondo la possibilità di lanciarsi sul carro di una mitteleuropa, non appena questa dovesse prendere contorni meno fumosi degli attuali, e proporsi seriamente come patria delle "comunità", che, scese in battaglia per difendersi dalla globalizzazione a stelle e strisce, finiscano con il contrapporsi apertamente da imperialismo europeo all’imperialismo americano. Berlusconi, invece, deve, per esempio, attaccare Haider apertamente, e non solo quando è in visita in Israele.

La tenuta dell’alleanza è, poi, messa a dura prova anche sul terreno propriamente federalista. Bossi e Berlusconi più che proporlo, devono inseguirlo. E la situazione è talmente più avanti di loro che un Tremonti, artefice della nuova alleanza, deve dichiarare a la Padania (20.2): "La democrazia non è particolarismo. Il federalismo non è localismo esasperato. Bisogna poter governare, non si può continuare a governare in questa palude".

Poteri troppi forti per la sola Padania

Per Bossi l’alleanza con il Polo era, in certo senso, obbligata. Non tanto perché il maggioritario marginalizza ogni forza diversa dai poli principali, quando perché doveva trarsi d’impaccio da una situazione di grande difficoltà. La lotta per l’indipendenza padana lo aveva naturalmente condotto a scontrarsi con i veri poteri forti che dominano il mondo. Egli aveva raccolto la sfida lanciando, dopo l’inclusione dell’Italia nell’euro e dopo l’aggressione alla Jugoslavia, il suo movimento su una strada di "anti-imperialismo" borghese europeo anti-Usa. Ma, sul piano internazionale era rimasto pressoché solo (lo stesso Haider, nell’occasione, si distinse con una critica al governo austriaco per eccessivo neutralismo e perorò la causa dell’adesione dell’Austria alla Nato). E, in un certo senso, solo rimase anche sul piano interno: la piccola e media borghesia gli disse in modo esplicito di aver paura di svincolarsi dal tradizionale protettore americano per avventurarsi in strategie dense di rischi e che richiedevano una lotta ben più dura che contro i declinanti "poteri forti" italici. Proseguire su quella strada significava affrontare un periodo (quanto lungo?) di duro isolamento e di esistenza minoritaria, per di più, sempre più fondata su interessi "operai", cioè sull’unico strato che, sia pure non nella totalità, aveva risposto positivamente all’appello anti-americano. Ha dovuto, gioco forza, ri-orientarsi verso gli strati borghesi, i quali non avevano abbandonato i motivi per cui erano stati in passato attratti dalla Lega -la soluzione federalista per disfarsi del peso dello statalismo centralistico-, però s’erano spaventati per l’"estremismo" della Lega, troppo anti-americana e troppo "concessiva" con gli operai, ed erano approdati ad altri lidi. Alcuni col Polo o con Bonino, altri, addirittura, con D’Alema, disponendosi a una questua verso i poteri centrali di misure a vantaggio di piccoli territori.

La dimostrazione di quanto convinta sia la sua "svolta", Bossi l’ha data con la spettacolare conversione fatta sul caso-Haider. Dopo alcuni giorni di difesa del sodale austriaco è stato sufficiente la minaccia israeliana di boicottare i rapporti economici con il Friuli a convincere Bossi a scrivere una lettera all’ambasciatore israeliano per "partecipare alla vostra angoscia per quanto sta succedendo in Europa" (dichiarando, cioè, di condividere il punto di vista dello stato d’Israele su Haider). È pur vero che pochi giorni dopo Borghezio ha salutato l’accordo Arafat-Vaticano (criticato da Israele) riaffermando lo schieramento della Lega dal lato delle "giuste aspirazioni nazionali dei palestinesi in forza del diritto all’autodeterminazione dei popoli", ma, questo parlare a più voci dissonanti sembra, più che altro, indicare come la Lega stia velocemente adeguandosi all’italicissima politica del piede in due staffe, tipica di chi vorrebbe contrastare i poteri che lo condizionano, ma teme le conseguenze di una esplicita dichiarazione di lotta.

Disorientamento proletario

La corsa della Lega a convergere verso il "centro", depurando tutte le sue spigolosità "estremistiche", produce un’inevitabile disorientamento nella sua base militante. Nel tentativo di alimentarne la declinante combattività, non rimangono ai suoi dirigenti che i motivi legati alla lotta contro il binomio immigrazione-criminalità. Non a caso il tema ha dominato nelle ultime manifestazioni leghiste. Dalle piazze sono emerse spinte, pur non maggioritarie, apertamente razziste, più radicalizzate delle intenzioni dei vertici. Bossi cerca di bilanciarle con un’educazione politica che promuova una scelta di tipo "cristiano" (aiutiamoli a casa loro) rieditando la cooperazione internazionale ripulita dal malaffarismo craxiano (il classico imperialismo delle piccole e medie potenze). Ma il disorientamento della base non diminuisce. Già le sconfitte elettorali, le espulsioni, il cambio di linea da "Padania subito" a "Padania sempre" avevano demotivato i militanti e ricacciato nell’astensione vaste parti di elettorato. Ora il rinnovo del patto con Berlusconi galvanizza poco (lo stesso Bossi ha detto che il 45% del partito era contrario) e preoccupa soprattutto la base di lavoratori che comprende bene le intenzioni del cavaliere e crede poco che si possa fare un patto contro i poteri forti assieme a uno dei loro rappresentanti. Salvo che il potere forte non venga ritenuto esclusivamente quello della Fiat (per Bossi: il Re torinese dell’Italia).

Nonostante questo quadro di difficoltà, molti operai continueranno sicuramente a votare Lega fidando sul fatto che le svolte tattiche del capo non siano l’abbandono delle finalità strategiche, allo stesso modo di come si interpretavano le scelte tattiche di un Togliatti o di un Berlinguer. Ma non c’è dubbio anche che parte degli operai che hanno creduto al progetto leghista siano, ora, delusi anche da esso, e meditino, purtroppo, non un’immediata radicalizzazione del loro protagonismo sulla base dei contenuti propri con i quali avevano aderito alla Lega, ma, piuttosto, un ritiro nelle maglie delle sfiducia e del disimpegno. Per loro il ciclone-Lega che li aveva sospinti a un protagonismo diretto, si è esaurito nel breve lasso di pochi anni.

I problemi che l’adesione operaia alla Lega ha evidenziato non sono, però, scomparsi, anzi vanno assumendo caratteri sempre più esplosivi, e chiamano alla distanza, ineluttabilmente, alla ripresa della mobilitazione. Il filone politico cui la Lega si riconnette (un europeismo che concorra apertamente con gli Usa nel dominare il mondo) non è esaurito. Nuove e più impellenti occasioni lo richiameranno in campo. Ci saranno la Lega e Bossi a interpretarne il ruolo? Per certo, il senatur ne ha piena coscienza e non abbandona il terreno, sia pure con un argomentare che ha più dell’analista politico che dell’agitatore. Sa che prima o poi bisognerà affrontare per le corna il problema della supremazia americana. Sa che questo non lo si potrà fare con le mezze misure, ma contrastando decisamente sia il potere finanziario che quello militare degli Usa. Non a caso è stato l’unico tra i politici a dichiarare che l’acquisto della Fiat da parte di General Motors è stato favorito dallo strapotere del dollaro, e a dedurre che il rafforzamento finanziario della moneta europea si potrà avere solo rendendola autonoma dal dollaro, cioè con un’Europa davvero autonoma dall’ingombrante fratello d’oltre-oceano sul piano politico, e, di conseguenza, militare. Un’Europa (v. la Padania del 14.3) da costruire sulle orme del "Sacro Romano Impero che era una federazione di città-stato, di territori, di popoli autonomi" che non si chiuda ai popoli poveri, ma li aiuti a casa loro "ricorrendo a missioni di natura laica". Che una tale Europa possa mai infastidire l’amico-concorrente imperialista americano è, come minimo, ridicolo. Ma questo è solo un modo per ripartire, le necessarie misure di centralizzazione dispotica seguirebbero, inevitabilmente, a ruota. Pena il fallimento garantito delle aspirazioni imperialiste autonome.

Ci sia o no Bossi a rivestire i panni dell’europeismo coerente, non muta il fatto che uno schieramento a suo sostegno debba fondarsi sul proletariato e, pur affogandolo nell’interclassismo nazional-europeista anti-plutocratico e anti-americano, debba chiamarlo alla lotta sulla base dei suoi interessi immediati. Questa fusione infame tra interessi operai e politiche borghesi può essere spezzata solo da un’iniziativa proletaria che rimanga sul proprio esclusivo terreno di classe e che, perciò, individui come propri nemici l’uno e l’altro campo imperialista, l’uno e l’altro "polo".

Il miglior modo per prepararla è quello di tracciare fin da ora le barriere di classe, di lavorare fin da subito nelle masse che, mettendosi in movimento, aderiscono alle sue sirene, affinchè separino le loro forze da ognuna delle prospettive che hanno come unico scopo quello di schiacciarle ancora di più sotto l’oppressione capitalista e imperialista. Per questo chiamiamo quanti sono mossi da un serio sentimento di classe a disporsi immediatamente nelle fila di questa battaglia. A lavorare per darsi gli strumenti teorici, politici, organizzativi per sostenerla e, nel contempo, a cominciare già a sostenerla ovunque il proletariato indirizzi la sua iniziativa per difendere i suoi interessi di classe.

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