America Latina |
Globalizzazione, euforia di borsa, new economy: il capitale, con Wall Street a tirare la volata, sembra festeggiare indisturbato i suoi successi. Ma è proprio così? No, neanche in America Latina, dove pure nel decennio appena trascorso i capi della finanza internazionale sono riusciti dapprima a scaricare i costi della crisi su paesi non propriamente dei più piccoli come Messico, Brasile, Argentina, per poi approfittarne e stringere ulteriormente le catene con cui tengono avvinte le economie latino-americane. Ma ciò non ha fatto altro che richiamare la reazione delle masse di tutto il centro-sud. La mobilitazione proletaria e contadina -di cui diamo conto in questa breve rassegna- si è nellultimo anno estesa a più ampi settori popolari e ha iniziato a mettere in campo temi e rivendicazioni che, questo è il punto, la costringeranno ad impattare direttamente con il cuore metropolitano da cui si dipartono le radici dei problemi sul tappeto. La parola dordine lanciata dal Wall Street Journal: "Lasciate che il dollaro regni sovrano da Seattle a Santiago" (8/3/99) inizia a mostrare, dallaltra parte della barricata, il suo oggettivo risvolto antagonista di potenziale globalizzazione della lotta proletaria: da Seattle, appunto, a Quito, Caracas e oltre... |
Il 21 gennaio migliaia di contadini e indios organizzati dalla Conaie (la Confederazione delle nazionalità indigene ecuadoregne, attiva dalla seconda metà degli anni 80) occupano il Parlamento della capitale Quito e proclamano un governo di salvezza nazionale. Sono appoggiati da una parte dellesercito -appoggio che vedono con favore- e della chiesa locale. La rivolta segue di pochi giorni lo sciopero di vasti settori di lavoratori (tra cui quelli dei trasporti e dellestrazione petrolifera) e la mobilitazione degli studenti scesi in piazza contro il presidente Mahuad.
Qual è stata la causa scatenante? La "dollarizzazione", decisa -si fa per dire- dal presidente. E cioè, la sostituzione completa e definitiva della moneta nazionale con il dollaro a un tasso di cambio sfavorevolissimo (25mila sucre per un dollaro, contro i 16mila precedenti e i 7mila di un anno fa). Il piano, va da sè, è stato caldamente consigliato dal Fmi. Il paese (legato alla monocultura delle banane e al petrolio in mano alle multinazionali estere, con un debito estero di oltre 15 miliardi di dollari, svalutazione e inflazione altissime, e già costretto a congelare per mesi tutti i depositi bancari per il mancato pagamento del servizio sul debito) si troverebbe così ancor più infeudato alla centrale imperialista number one. La Federal Reserve statunitense, attraverso l"adozione", si aggiudicherebbe di colpo il sistema finanziario e monetario del paese senza ulteriori intermediazioni; in mancanza della possibilità di una qualunque politica monetaria, lEcuador sarebbe costretto a concordare la stampa di valuta con contropartite ancor più pesanti delle attuali in termini di abbattimento dei dazi, tagli alle spese sociali, privatizzazioni, salari, ecc.
È contro questa prospettiva, giustamente individuata come preludio a un secco passo indietro nella condizione di tutte le masse lavoratrici e insieme come segno di ulteriore disfacimento e perdita di sovranità nazionale, che la popolazione si è sollevata. Significativo in questo il dato della mobilitazione organizzata degli indigeni (comunità di contadini scaraventate nel turbine del mercato mondiale dallespropriazione imperialista del suolo, costrette a inurbarsi andando a ingrossare così lesercito industriale di riserva) che, con la marcia su Quito, sono stati parte attiva della lotta e, in essa, della messa in campo di una prospettiva politica di soluzione dei problemi che stringono linsieme della popolazione.
Le ultime elezioni presidenziali sono state in pratica un plebiscito per Chavez, ex militare golpista presentatosi alle masse lavoratrici con un programma di riscatto nazionale e di radicale ripulitura dello stato da profittatori e corrotti. Chavez, il "presidente dei poveri", ha totalizzato l80% dei voti, mentre sono state spazzati via i partiti tradizionali, il socialdemocratico e il democristiano, percepiti dalle masse appunto come sedi di affarismo e parassitaggio. Successivamente è passato con ampio margine il referendum sulla proposta di Chavez di riforma istituzionale che prevede il ridimensionamento del parlamento, sede principe di corruzione, intrighi e camarille varie. È questo lelemento cui si è agganciata la voglia di riscatto della popolazione. Se a ciò aggiungiamo che il neo-presidente ha invitato Fidel Castro in occasione del suo insediamento, ha preso contatti con la guerriglia colombiana ed è stato lunico capo di stato latino-americano a non aver condannato la rivolta popolare in Ecuador; se consideriamo che il suo programma economico si basa sul recupero del controllo statale dei settori chiave quali lestrazione petrolifera (il Venezuela è il primo fornitore degli Usa e uno dei massimi produttori mondiali) e il sistema bancario contro i ventilati progetti di privatizzazione che circolavano con lamministrazione precedente: ce nè abbastanza per turbare i sonni degli yankee e dei concorrenti europei. Quello che è importante è il fatto che dietro questa elezione fa capolino la pressione del proletariato e delle masse venezuelane, già duramente provate dalle misure di politica economica dei governi precedenti sempre più piegati ai diktat delle centrali finanziarie internazionali e delle multinazionali delloro nero. Lo spettro che fa più paura allOccidente è proprio quello di un riemergere esplosivo e generalizzato dellinsorgenza sociale di queste masse che premono sul governo chiedendo, innanzi tutto, di spazzare via lintreccio ultraramificato di corrotti e pescecani, come premessa per una rigenerazione dello stato che possa così far da argine allimpoverimento del paese.
È con questo sentimento radicato -che non mancherà di tradursi in lotta di fronte allassalto neo-liberista che nessun nuovo caudillo potrà arrestare- che deve e ancor più dovrà fare i conti lo stesso Chavez, i cui margini di azione sono segnati in modo stringente da una pressione imperialista enormemente accresciuta e dalle istanze delle masse che con essa dovranno direttamente scontrarsi. Sarà allora importantissimo il percorso che questi sfruttati hanno intrapreso; il modo in cui faranno esperienza della inevitabile inconseguenza di Chavez, evitando di farsi irretire nei suoi inevitabili compromessi con lOccidente, dipenderà in misura rilevante dal sostegno che ad essi saprà dare la classe operaia dei paesi imperialisti.
Il sequestro da parte statunitense del piccolo Elian, sopravvissuto allaffondamento di un gommone di profughi cubani, ha riacceso la mobilitazione delle masse cubane. Alla richiesta del padre di poter riavere il bambino a Cuba, gli Stati Uniti hanno risposto negando lespatrio e facendo del caso lennesima occasione di aggressione politica allisola caraibica. La popolazione di Cuba, da sempre bersaglio dellimperialismo yankee e di quello europeo più "discreto" e per alcuni versi ancora più devastante socialmente, risponde con imponenti manifestazioni antimperialiste che, ovviamente, travalicano il caso specifico. (Ricordiamo le manifestazioni del primo maggio di un anno fa contro laggressione Nato alla Jugoslavia). A LAvana, a dicembre, sono più di due milioni a scendere in piazza.
A partire dal luglio 99 gli studenti dellUniversità di Città del Messico scendono ripetutamente in lotta contro le riforme neo-liberiste del presidente Zedillo, che tra laltro prevedono un insostenibile aumento delle tasse scolastiche. Il sei gennaio scorso la polizia, dopo unirruzione notturna nellateneo, arresta oltre 600 studenti. Ma quindici giorni dopo è lintera comunità del villaggio di Francisco Madero a sequestrare una sessantina di poliziotti, ammanettarli e circondarli di bidoni di benzina, ottenendo così il rilascio degli studenti arrestati per aver occupato una scuola che le autorità volevano chiudere.
Nellottobre scorso, in concomitanza con la ripresa delle trattative tra il governo e le Farc (unorganizzazione della guerriglia) milioni di colombiani si sono mobilitati per dire "no mas" (=basta) alla guerra interna foraggiata dalla Cia (in un anno più di un migliaio di contadini uccisi) e a quella esterna (la minacciata invasione Usa, ufficialmente per la lotta al narcotraffico, secondo la vulgata accolta e ritrasmessa dalla "libera" stampa, in realtà in funzione anti-Venezuela e anti-Ecuador. (A questo fine il Congresso americano ha già stanziato 1500 milioni di dollari).
Lo scorso gennaio decine di migliaia di peruviani sono scesi in piazza contro il tentativo del pupillo del Fmi e della Cia, Fujimori, di assicurarsi il terzo mandato presidenziale consecutivo.
Mentre il governo cileno concordava con gli Usa il suo ingresso nel Nafta, migliaia di lavoratori sono scesi in piazza la scorsa estate per rivendicare il diritto al lavoro. Bruciate numerose bandiere a stelle e strisce. Per tutta risposta limperialismo fa crollare il prezzo del rame, la principale risorsa del paese.
È continuata per tutta lestate scorsa la lotta dei sem terra brasiliani per loccupazione delle terre dei latifondisti. Ad essi si sono affiancati migliaia di lavoratori della Cut (il sindacato generale) mobilitatisi al grido di: "Fora FEC, fora FMI" (=fuori Fernando Enrique Cardoso, il presidente, fuori il Fmi).
Il quadro qui riportato, sicuramente incompleto, richiama alcune osservazioni. Esso segnala qualcosa di profondo che si muove nel grosso delle masse latino-americane. Innanzi tutto, appunto, il fatto che a muoversi siano sempre più anche gli strati profondi della popolazione. Significativa al riguardo la presenza nelle recenti lotte (come già in Chiapas) degli indios non come elemento marginale, "folkloristico", o residuo di rapporti superati da preservare in una o più riserve "liberate", -come qualcuno qui vorrebbe- ma piuttosto parte attiva delle mobilitazioni, che sempre più va a integrarsi nellinsieme dellinsorgenza delle masse. In secondo luogo, siamo di fronte a lotte che iniziano a mettere in campo tentativi di risposta anche sul piano politico, nel senso -per ora- di unistanza di riscatto nazional-democratica con la conseguente opera di ripulitura e messa sotto controllo, in un certo senso, dello stato da parte delle classi lavoratrici, condizione indispensabile per un rafforzamento ("dal basso" dellazione di massa e "dallalto" dellapparato politico e militare) della compagine nazionale di contro alle escrescenze interne e, anche, allingerenza sempre più evidente da "fuori". Ciò si manifesta in modo chiaro in un paese come il Venezuela, le cui ingenti ricchezze naturali palesano in modo eclatante la contraddizione con la loro appropriazione da parte di forze esterne. Questa esigenza di riscatto, che diventa sempre più spesso spinta alla lotta e allorganizzazione, è inevitabile e giusta! Ad essa il proletariato occidentale dovrebbe guardare con entusiasmo e sostegno militante! Perché su questa base -oggi, a dati rapporti di forza internazionali- riparte in America Latina la lotta di sterminate masse di sfruttati che, per realizzare le proprie rivendicazioni, sono e saranno sempre più costrette a fare immediatamente i conti con i meccanismi del mercato mondiale e la sua struttura di strozzinaggio, a doversi scontrare con esso e, dunque, a cercare la soluzione dei problemi a scala finalmente internazionale. Alla classe operaia delle metropoli, a tuttoggi assente, il compito di raccogliere questi segnali e appoggiare incondizionatamente la lotta dei popoli latino-americani, come condizione indispensabile per far realizzare le loro aspirazioni nellunico modo possibile: la lotta a fondo contro limperialismo.