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Dalla coscrizione obbligatoria alle forze armate semi-professionali

LA LEVA VOLONTARIA PER LE DONNE INCRUDIRÀ LA LORO OPPRESSIONE!

Indice

Scheda sulla riforma delle forze armate italiane
La prima guerra mondiale e le donne
Note

Alla fine di settembre il parlamento italiano ha approvato, a larga maggioranza, la legge che prevede l’arruolamento volontario delle donne nei vari corpi militari, nell’ambito del più ampio progetto governativo per la riorganizzazione dell’esercito sulla base di criteri di volontarietà e professionalità. Potranno arruolarsi le donne con meno di trentadue anni e il loro numero complessivo sarà fissato di anno in anno dal ministero della difesa con una percentuale pari almeno al 10% degli effettivi.

Come scriviamo qui sotto, con la scelta della professionalizzazione l’Italia si adegua alla tendenza degli altri paesi occidentali. In un articolo comparso su Limes (n.4, 1999) dal titolo "Un esercito vero per non restare un paese vassallo" è scritto: si tratta "di rimilitarizzare le forze armate, di non vergognarsi di dire che sono mantenute per esprimere la violenza legittima dello stato". Sì, la violenza necessaria per continuare a dominare e saccheggiare i popoli delle periferie, vicine e lontane; la violenza pronta all’uso contro i rischi di insubordinazione sociale all’interno dei confini nazionali. E si tratta di creare corpi scelti, che devono essere il veicolo per la presa in carico da parte dell’intera società degli interessi vitali della nazione: il nuovo esercito deve divenire un modello al quale tutti possano guardare con orgoglio, traendone l’esempio per fare ciascuno la propria parte; lo strumento per militarizzare l’intera società.

Non è un caso che esso preveda l’arruolamento volontario delle donne, e che esso venga prospettato come un’opportunità per la loro emancipazione. Esso consentirebbe occasioni di lavoro, di carriera e di affermazione personale, affidando alla "libera scelta individuale delle donne" la possibilità di salire un gradino nella scala sociale e verso la parità con l’uomo: "Cade l’ultimo bunker maschile" ha titolato l’Unità il giorno dopo l’approvazione della legge. E, ancora, secondo l’Unità del 30.9.99, "di fronte a una legge che rispetta, avanti a tutto, la scelta individuale… non c’è che da accettare le decisioni della donna". Non molti anni addietro le parlamentari del Pci ponevano, invece, il veto alla proposta delle donne soldato e contestavano la volontarietà come "un modo surrettizio per aprire la strada ad un esercito professionale volontario anche per gli uomini" (vedi l’Unità del 16.10.86).

Nell’arruolamento delle donne -già presente anch’esso in tutti i maggiori paesi imperialisti (1) -vive il senso della chiamata generale a fare proprie le necessità militari della patria. L’imperialismo prende atto che di fronte a sé ha un nuovo passaggio cruciale dello scontro tra le classi, dell’aggressione e dello scontro imperialisti, e attrezza di conseguenza il proprio fronte di guerra, mirando a compattare tutte le forze della società ai propri interessi. In questo contesto tutte le donne sono chiamate a svolgere un ruolo attivo, a "uscire dalle retrovie", a schierarsi a difesa dell’imperialismo e del capitale nazionale.

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Prevenire e utilizzare

Quest’appello non è privo di una certa "modernità". Dopo che le donne hanno raggiunto l’impiego nella quasi totalità delle professioni (benché con trattamenti differenziati e discriminatori) e la parità formale dei diritti nella società e in politica, oggi lo stato italiano acconsente anche all’ingresso delle donne nei corpi militari, tradizionalmente riservati all’uomo. Dopo le donne poliziotto, ora anche le donne soldato.

La borghesia avverte la necessità di disciplinare ed irregimentare le donne, affinché si abituino alla realtà delle guerre di aggressione imperialista e vi prendano parte attivamente. Al tempo stesso, essa deve prevenirne la ribellione contro i costi e i sacrifici aggiuntivi che la guerra comporta per le donne, che si sostanziano nell’incrudimento dell’oppressione che esse subiscono in tempi di pace. E insieme a ciò prevenire ogni pericolosa rottura del fronte interno e l’insorgenza classista (e, in essa, quella delle donne, che è potenzialmente la più radicale ed eversiva, quando esse prendono coscienza, a fianco del proletariato, delle vere cause della loro oppressione).

A tal fine il capitale e il suo stato hanno bisogno di conquistare le donne alla difesa della patria. Vi provvedono promuovendo misure di presunta "parificazione" ed "armonia tra i sessi", che fungono da premessa per la generale coesione ed "armonia tra le classi". Ecco dunque che le politiche del capitale, in funzione degli scenari di guerra, assumono i toni di una "promozione" del ruolo sociale della donna da parte dello stato borghese, il quale lancia l’idea di un "nuovo" protagonismo della donna del tutto congeniale ai suoi fini.

La chiamata delle donne nell’esercito entra in contraddizione solo apparente con le reazionarie politiche familiariste e di "sostegno" della maternità. La famiglia, infatti, è per il capitale una importante istituzione per la coesione e la tenuta del proprio ordine sociale. Ad essa anche la donna moderna, inserita nella produzione, deve dedicare un sempre maggior numero di cure e attenzioni e innanzitutto deve garantirne la coesione; in essa deve assumere il ruolo di madre. Non per proteggere i figli senza tener conto degli interessi superiori della nazione, ma per mettere a disposizione della patria i figli di cui essa ha bisogno. D’altra parte il capitalismo ha assunto da sempre un duplice volto: da una parte ha idolatrato le donne nei ruoli di "angeli del focolare" e di esseri "fragili ed eterei", dall’altra non ha esitato in nome del profitto e delle necessità belliche ad immetterle senza riguardi nelle produzioni più pesanti e nocive. Oggi come ieri, l’unico criterio guida che ispira il capitale è quello del dio profitto!

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Le schifose menzogne sulle pari opportunità

La propaganda secondo la quale il governo e le istituzioni dello stato borghese sarebbero promotori dell’uguaglianza della donna realizza un autentico capovolgimento della realtà.

Tutte le istituzioni e i rappresentanti dell’ordine borghese, infatti, con le loro politiche di preservazione dell’ordine sociale e con quelle specifiche verso le donne, non fanno che alimentare, tutti i giorni, le condizioni di questa oppressione. È vero che in passato le istituzioni borghesi hanno varato misure di parziale miglioramento della condizione della donna, ma ciò è accaduto solo grazie alla e sotto la spinta della lotta delle donne e della classe operaia. Oggi, invece, la generale offensiva antiproletaria del capitale, le difficoltà del movimento dei lavoratori e di quello delle donne comportano il progressivo smantellamento delle garanzie e dei diritti conquistati negli anni passati per le lavoratrici e le donne tutte. Il tutto, naturalmente, in nome della "parità", com’è accaduto con la reintroduzione dei turni di notte per le donne. Tanto più appare paradossale e falso che la pretesa misura di eguaglianza sia riferita all’esercito imperialista dell’Italia.

Perché, infatti, le caserme dovrebbero essere un luogo dove le donne si "emancipano"? Esse sono già il luogo dove i proletari vengono umiliati e costretti a sottostare alle gerarchie più repressive, e i maltrattamenti dei soldati semplici rappresentano il mezzo disciplinare più efficace. In esse si vuole che i proletari respirino un’aria di gratuita violenza, razzismo, nonnismo e squallido maschilismo. Lo "Zibaldone" in uso presso la Folgore non è il frutto dello spirito goliardico di un comandante in vena di divertimenti, ma uno dei riconosciuti manuali di "formazione" dei paracadutisti italiani. Ne sanno qualcosa le donne violentate in Somalia o quelle avviate alla prostituzione in Mozambico. I "valori" del razzismo, del nonnismo e del maschilismo servono ad annichilire la truppa, ad educarla al rispetto delle gerarchie militari e sociali e dunque a renderla disciplinata. Le caserme degli eserciti borghesi sono lo specchio più abbrutente e più immediato della divisione di classe e dei suoi rapporti di sfruttamento. Non è quindi senza fondamento il dubbio che ha sfiorato un giornalista della Padania, quando ha sarcasticamente rilevato che -con buona pace della propaganda governativa- le donne soldato saranno utilizzate per pulire latrine, cucinare il rancio, riassettare le brande e subire le "molestie sessuali" dell’ufficiale di turno, come già avviene in tanti altri eserciti (2).

Ma anche quando una sparuta minoranza di soldatesse fosse veramente messa in grado di accedere alle più alte vette della carriera militare, al di là di ciò che ne pensano le parlamentari dei DS e l’Unità, questa sarebbe tutto all’infuori di una "vittoria" per la causa dell’emancipazione femminile, perché queste donne verrebbero promosse ai più alti ruoli di un sistema che fa della conservazione dello sfruttamento classista e dell’oppressione femminile i suoi assi fondanti e vitali.

E guardando invece verso la truppa delle soldatesse comuni, delle Melisse dell’aeronautica o della marina militare statunitense o meno, che razza di emancipazione femminile ed umana è andare a straziare con bombardamenti a tappeto e missili all’uranio l’Iraq o la Jugoslavia?

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Le ipocrite lamentazioni pacifiste

Contro l’ingresso delle donne nelle forze armate si sono sentite voci di dissenso da parte di alcune donne delle associazioni femministe e di quelle che si sono mobilitate, su posizioni pacifiste, durante la guerra in Jugoslavia. Queste voci si appellano al rifiuto di "tutti gli eserciti" che sarebbero espressione del patriarcalismo dell’attuale società. Rifiutano la guerra perché la donna, che riproduce la vita, sarebbe "geneticamente" incompatibile con essa.

È un dato di fatto che l’esercito è sempre stata un’istituzione in cui il maschilismo si presenta in forma particolarmente concentrata, e che le donne sono state sempre escluse dalle operazioni militari. Questo non autorizza però a parlare di estraneità delle donne alle guerre, nelle quali esse, al contrario, sono sempre state chiamate a schierarsi, a sostenere ed appoggiare lo sforzo bellico in ogni modo, e le cui conseguenze hanno sempre subito. Valga per tutti l’esempio della prima guerra mondiale, a cui accenniamo nel riquadro a fianco. Allora la borghesia "promosse" e subordinò al tempo stesso le donne, favorendone l’accesso a settori produttivi prima preclusi. Anche oggi la borghesia, guardando avanti, chiama le donne a una più stretta integrazione con l’apparato militare, e fa appello, pro domo sua, anche alla loro determinazione e alla loro violenza (naturalmente "giusta e umanitaria"), e prospettando ad esse luminose carriere di bombardatrici, paracadutiste e quant’altro.

La nostra critica alle posizioni pacifiste non ci induce affatto però a deridere l’aspirazione alla pace che le masse femminili hanno tante volte dimostrato durante e contro le guerre dell’imperialismo. La recente aggressione Nato alla Jugoslavia ha mostrato che la guerra imperialista, che scarica la violenza più brutale sulle popolazioni attaccate, produce violenza anche sul fronte interno dei paesi aggressori. Essa produce un imbarbarimento della società, un innalzamento dei livelli di tolleranza della violenza che si "trasmette" a cascata sui vari gradini della gerarchia sociale, giù giù fino alle donne, incrudendo i rapporti di soggezione cui esse sono normalmente sottoposte.

Alle donne occidentali che aspirano alla pace diciamo che esse, per realizzare la loro volontà, devono organizzarsi e lottare contro i veri responsabili delle guerre imperialiste: i loro governi, i loro capitalisti. Che devono dare l’affondo a questo sistema sociale che alimenta il militarismo e la loro oppressione. La posizione sull’"estraneità" femminile alla guerra professata dall’opportunismo pacifista, invece, alla prova dei fatti giunge a legarsi alle proposte di "pace" del proprio governo borghese, e così si candida a truppa di complemento dell’aggressione imperialista. È quello che sta accadendo con le "Donne in nero". Guidate dall’euro-deputata di Rifondazione Comunista Morgantini, esse hanno indetto recentemente un meeting di fatto anti-jugoslavo con manifestazione a Podgorica, in meravigliosa coincidenza di intenti con l’azione di Albright e soci, che, proseguendo nell’azione di disgregazione della Jugoslavia, fomentano, ora, la separazione anche del Montenegro.

A differenza della inconsistenza, quando non delle vere e proprie complicità, di certo pacifismo al femminile, qualche reale segnale di insofferenza contro la guerra in Jugoslavia c’è stato. Lo hanno messo in campo un gruppo di madri tedesche che si sono organizzate per partecipare alla manifestazione tenutasi a Belgrado il 24 aprile contro i bombardamenti della Nato. Mosse essenzialmente dalla preoccupazione per la sorte dei propri figli, sono tornate in Germania come donne che lottano contro la guerra. Non è poco, pur se esse hanno indebolito la loro stessa iniziativa invitando le donne di Belgrado -cioè le donne del popolo aggredito dall’imperialismo- a non far partire i loro figli contro le truppe della Nato. E questo mentre in Montenegro le donne contestavano il loro governo per il motivo opposto. Anche qui, dunque, la presunta estraneità delle "madri" alla guerra porta a...

Spetta ai comunisti e alle donne comuniste il compito di favorire nella massa femminile la presa in carico di una battaglia coerente contro le aggressioni del proprio imperialismo, che richiede, laddove muova dalla rivendicazione dei sentimenti materni, l’integrazione di essa nella riconquista della prospettiva della guerra di classe alla guerra dell’imperialismo.

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Arruolarsi nell’esercito di classe!

È stato questo il senso dell’intervento della nostra Organizzazione verso le donne per chiamarle a scendere in lotta per fermare la guerra di aggressione alla Jugoslavia. Contro l’arruolamento volontario delle donne nell’esercito borghese noi non opponiamo appelli al pacifismo "genetico", ma la prospettiva dell’arruolamento delle masse femminili nel contrapposto esercito proletario, contro le aggressioni e le guerre dell’imperialismo, nella prospettiva della rivoluzione socialista.

Ma come far sì che le donne (comprese quelle che indosseranno la divisa) possano effettivamente contribuire a costruire ed entrare a far parte di quest’altro esercito? Già oggi ci sono le condizioni per muovere dei passi in questa direzione. Le masse femminili sono chiamate a fare un bilancio su quello che, al di là delle promesse, sanno offrire le istituzioni statali italiane e la società capitalistica all’ansia che sempre più le anima di riscattarsi dall’oppressione che ne fa serve domestiche e oggetti sessuali. Esse sanno blandire quest’ansia, ma per usarla contro le stesse donne e contro la causa del proletariato. La riforma della leva è solo l’ultimo esempio di questa accorta politica.

Le donne non potranno migliorare la loro condizione, né emanciparsi e né tantomeno liberarsi agguantando individualmente le opportunità lasciate cadere dal pero del sistema sociale borghese, suoi rami militari compresi. Di questo molte donne sono già, sebbene oscuramente, consapevoli: vivono profonde insoddisfazioni, sentono che le loro aspirazioni sono solo in apparenza realizzate. Noi invitiamo ogni donna che sente il peso, il malessere, il disagio di questa società ad uscire dall’isolamento, a cominciare a pensare che non è lei inadeguata, ma che ad essere "inadeguata" è la società che si mantiene sulla sua oppressione. La invitiamo a guardarsi attorno e a vedere nelle altre donne non potenziali concorrenti da battere sul piano della capacità di attrazione sessuale, dell’adeguamento ai modelli imposti o dell’accettazione alle regole del gioco, ma delle possibili alleate che condividono la stessa sorte: esse, come tante altre prima di loro, possono unirsi e lottare.

Esse potranno intanto arrestare gli arretramenti in atto su tutti i piani, accelerati dalla guerra contro i popoli jugoslavi, solo se cominceranno a contare sulle proprie forze, se non delegheranno a nessuno la propria causa, se passeranno a costruire la propria organizzazione collettiva e la propria lotta contro i responsabili di questi arretramenti, di queste azioni di guerra, di questa crescita del mostro del militarismo.

Per questo ci rivolgiamo alle donne che sono contrarie alla riforma dicendo che la sacrosanta lotta contro il militarismo non può limitarsi ad escludere se stesse dalle forze armate. Il militarismo oltre che nella vita militare si diffonde nella vita pubblica e, quanto più riesce a mostrarsi illuminato e democratico, tanto più tende ad infondere nell’intera società lo spirito della disciplina e dell’arrendevolezza dei proletari e delle donne nei confronti dello sfruttamento economico, sociale e politico. Il rifiuto della chiamata alle armi va quindi connessa all’organizzazione e alla mobilitazione contro tutte le conseguenze del militarismo e, da lì, contro le sue sorgenti.

Allo stesso tempo e nella stessa ottica, ci rivolgiamo anche a quelle donne che indosseranno la divisa perché non avranno trovato di meglio per poter campare o perché crederanno così di affermare -come donne- la loro legittima volontà di riscatto, affinché prendano coscienza della loro complessiva condizione, così come hanno cominciato a fare quelle donne-soldato americane che, tornate dai fronti di guerra in Iraq, si sono trasformate in determinate e coraggiose protagoniste delle denunce e delle mobilitazioni contro il militarismo imperialista del proprio governo.

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La riforma delle forze armate italiane

La riforma prevede di ridurre gli attuali 280 mila soldati di leva a 210 mila soldati "professionali" (di cui 20 mila donne). Il 50% in servizio permanente e l’altro 50% a ferma prolungata da 1 a 5 anni. Il passaggio all’esercito professionale non significa abolizione definitiva della leva generale obbligatoria. Essa viene soltanto progressivamente sospesa. All’occorrenza potrà tornare in tutti i casi di guerra o di crisi di particolare rilevanza.

La propaganda del governo ha fatto leva su ogni possibile "molla pubblicitaria". Da quella che prende in considerazione la legittima avversione del giovane proletario verso la coscrizione obbligatoria, vissuta come un anno perso, all’offerta della ferma volontaria anche di un solo anno, che consente di sostituire l’infruttuosità dell’anno perso con la prospettiva di una retribuzione (fino a ieri esclusivo appannaggio dei figli della borghesia e dei raccomandati, che potevano assolvere la leva obbligatoria frequentando il corso per allievi ufficiali). I giovani vengono invogliati all’arruolamento con una serie di ulteriori incentivi: offerta di uno stipendio pari a quello di carabinieri e poliziotti; riserva di un certo numero di posti nella pubblica amministrazione per quei volontari che decidono di congedarsi e lasciare la divisa; possibilità riservata ai volontari in ferma prolungata di accedere, dopo il servizio militare, ai corpi di polizia e carabinieri; sollecitazione a dedicare alcuni dei migliori anni della propria vita a qualche nobile missione in giro per il mondo.

Scognamiglio, nel presentare lo scorso aprile il disegno di legge, dichiarò che esso rappresentava "una necessità ineludibile per far fronte alle mutate esigenze cui l’Italia si trova davanti nel contesto internazionale e per mettere il nostro paese alla pari dei partners europei e della Nato". D’Alema, subito dopo la fine della guerra alla Jugoslavia, ribadì con forza lo stesso concetto. E quasi contemporaneamente all’Italia si sono mossi altri paesi europei. In Francia l’esercito di leva è stato di fatto abolito nell’ottobre del 1998, a partire dai giovani della classe 1980. In Spagna la nuova "Regimen militar professional", approvata nel 1988, prevede dal 2003 un esercito permanente e la riduzione graduale dell’esercito di leva. Perfino la più "penalizzata" Germania sta riconsiderando l’organizzazione della propria struttura militare.

Come mai questo cambiamento?

L’uso di forze armate fondate sulla leva obbligatoria nelle missioni di aggressione imperialista, che i paesi occidentali sono costretti ad aumentare ed estendere, comporta seri rischi politici. Davanti alla resistenza delle masse lavoratrici dell’Est e del Sud del mondo, i giovani in uniforme potrebbero riconoscere in esse dei "fratelli di classe" e nei loro comandanti dei nemici da combattere. Meglio ridurre questi rischi. L’Inghilterra e gli Usa lo hanno fatto per primi, nel 1962 e nel 1974 rispettivamente.

Da allora i governi e i vertici delle forze armate occidentali, in collaborazione con le direzioni aziendali e dei laboratori scientifici, hanno cercato di sviluppare sistemi d’arma in grado di ridurre -entro certi limiti- l’intervento a terra delle truppe imperialiste nelle guerre di aggressione "neo-coloniale". Il che ha reso tecnologicamente possibile affidare -ripetiamo: almeno entro certi limiti- l’intervento a un contingente ristretto, professionalmente preparato e motivato.

La riforma delle forze armate italiane si adegua dunque ad una tendenza europea o, meglio, a una tendenza dell’imperialismo tutto, sempre più necessitato a dover selezionare ed educare, con più attenzione, un corpo professionalizzato e più affidabile di militari, per reprimere con maggior efficienza le insorgenze "esterne", e anche quelle interne.

Le forze armate semi-professioniste non saranno comunque socialmente meno proletarie di quelle attuali e non smetteranno di trattare la massa dei militari come carne da cannone e cavie umane per le operazioni più a rischio. Lo hanno dimostrato gli Stati Uniti nella guerra del Golfo, dove gli intoccabili "rambo dell’aria" sono stati affiancati da decine di migliaia di soldati, reclutati "volontariamente" tra le comunità colorate più povere, per essere esposti alle radiazioni mortali dell’uranio impoverito. A dimostrazione che perfino nell’esercito più professionale del mondo, quello degli U.S.A., continuano a vigere profonde differenze di classe, quelle differenze che fanno sì che -nei campi di battaglia- siano innazitutto i proletari ad essere sacrificati sull’altare degli interessi della patria.

Solo l’ipocrisia opportunista di Rifondazione o dei Comunisti Italiani - questi ultimi ben appostati sugli scranni governativi - può polemizzare con la riforma del governo D’Alema, opponendo all’esercito professionale l’esercito di leva, che sarebbe l’esercito di popolo per il popolo. L’esercito di leva, per il solo fatto di essere costituito da proletari non "volontari" non ha, solo per questo, una funzione di classe diversa da quella propria dell’esercito professionale. Di diverso, l’esercito costruito sulla leva generale obbligatoria, ha che, a precise condizioni di surriscaldamento dello scontro di classe -quelle che vengono costantemente ritardate e allontanate dalla politica di questi "sinistri"- può essere più facilmente permeabile ai principi dell’insubordinazione di classe, del disfattismo e della fraternizzazione con il "nemico" (e questo in misura ancora maggiore ove la leva obbligatoria avesse coinvolto anche le donne!). Esso è semplicemente una trincea più favorevole per l’attività dei comunisti. Niente di più. E comunque la messa a frutto di questa potenzialità richiede che i comunisti denuncino -anche verso i proletari in divisa- il vero ruolo delle stesse forze armate democratiche fondate sulla leva obbligatoria. Principi questi che i comunisti si impegnano a far vivere anche tra i proletari arruolati "volontariamente" negli eserciti professionali al soldo dell’imperialismo.


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La prima guerra mondiale e le donne

Anche durante la prima guerra mondiale il capitale imperialista fece leva sulla volontà delle donne di farla finita con la posizione di subordinazione rispetto al sesso maschile per metterle al servizio dell’economia di guerra e della "difesa della patria".

A causa della scarsità della manodopera mobilitata per il fronte, esse furono inserite nella grande industria in settori e mansioni fino ad allora impensabili. Nello stesso tempo ricevettero la promessa di ottenere al termine delle operazioni militari il diritto di voto. Così la guerra -a detta dei governi e dei vertici monopolistici- si colorava di rosa: scorrevano fiumi di sangue, ma anche per il bene della donna.

Una parte del movimento delle donne cadde nel tranello. Un’altro settore riuscì a divincolarsene, a legare la causa della liberazione della donna a quella più generale dell’umanità lavoratrice e sofferente contro il capitalismo e la sua guerra, e a sfruttare a tal fine le posizioni di maggiore inserimento nella vita sociale cui il capitale era stato costretto ad acconsentire. Da armi nelle mani del capitale, queste posizioni furono trasformate in condizioni più favorevoli per lo sviluppo della lotta di liberazione della donna e della rivoluzione socialista.

Oggi, sotto mutate condizioni, si ripropone un analogo bivio. Non è dunque senza valore il ritornare su quegli anni ruggenti e sulle lezioni politiche che essi ci riconsegnano anche per quanto attiene al movimento femminile. È un lavoro che come OCI siamo determinati a portare avanti. E valga a mò di assaggio la riproduzione di un brano tratto dalla documentata cronaca politica degli avvenimenti del ’14-’18 in Germania, scritta da Paul Froelich.

"…Di anno in anno la percentuale delle donne al lavoro aumentava. La fame, l’impossibilità di cavarsela con i pochi centesimi dell’assistenza sociale, spinsero le donne del proletariato a lavorare per la produzione di granate, nelle fabbriche di polvere da sparo e in quelle terribili dove si producevano i gas nervini…Oggi abbiamo quasi del tutto dimenticato quanto si sia abusato della forza vitale delle donne e fino a che punto sia stata sacrificata tutta la forza dei lavoratori. Naturalmente, nell’approvare le leggi straordinarie, era stato assicurato che le misure di tutela sociale potevano essere soppresse solo in casi eccezionali. Ma l’eccezione divenne una regola senza eccezioni. Per anni, tutti i giorni, le donne dovettero lavorare 13-14 ore nelle industrie metalmeccaniche. Era diffuso il lavoro notturno, i bambini erano abbandonati. E le donne stesse! Che tipo di lavoro veniva loro richiesto? Dovevano impiegare i martelli pneumatici, attrezzi ai quali gli stessi uomini si erano sempre ribellati …Che importava? Le donne venivano messe al tornio ed erano costrette a sollevare granate del peso di quaranta chili. Quasi tutte subivano danni fisici irreversibili …Lavoravano nelle fabbriche di polvere da sparo nelle quali spesso si verificavano esplosioni con molte vittime. Chi ne sapeva qualcosa? La censura proibiva che si pubblicasse sui giornali anche una sola parola a proposito di queste vittime della guerra. Donne, adolescenti d’ambo i sessi, poco più che bambini, dovevano lavorare in ambienti saturi di veleni e di vapori acidi. Perché preoccuparsene? Occorrevano granate caricate a gas perché al fronte le cose andassero come volevano i capi militari; lontano dalle città, nella solitudine più completa, si costruivano lager, dove venivano trasferite le ragazze e giovani donne, rinchiuse a lavorare in veri inferni dove la pelle ingialliva e i capelli diventavano verdi. Che c’era di male? Per chi mai avrebbero dovuto mantenersi belle, visto che i loro amati venivano massacrati al fronte!…Le donne potevano essere pagate meno degli uomini, perché erano donne, non certo perché le donne rendessero meno degli uomini! La Metallarbeiterzeitung sosteneva: "In generale le donne ai torni percepiscono un cottimo che corrisponde alla metà di quanto prima pagato agli uomini".

Contro queste condizioni furono le donne tedesche, così come le donne degli altri paesi in guerra, a dare vita alle prime scintille di lotta contro la guerra imperialista. Così scrive Froelich:

"Le manifestazioni per la fame iniziarono già nell’estate del 1915. Il 18 e 28 maggio del 1915 le donne di Berlino, guidate dalla Lega Spartaco, sfilarono davanti al Reichstag, contro l’aumento dei prezzi e per la pace. Nell’ottobre del 1915 seguirono agitazioni per il burro, nel mese di dicembre per le patate. In queste occasioni la polizia caricò con le sciabole, sia a Berlino che a Chemnitz. I tribunali inflissero soltanto a Chemniz più di 200 anni di reclusione per violazione dell’ordine pubblico… Seguirono gli scioperi politici di protesta contro la condanna di Liebknecht con lo strascico di tutta una serie di agitazioni, dimostrazioni e scioperi. Questo elenco non è completo."

(Da Guerra e politica in Germania, 1914-1918)


Note

1. In Inghilterra è previsto su base volontaria il servizio femminile nella British Army, che riguarda ogni specialità ad esclusione dei reparti corazzati e di fanteria. In Olanda la presenza delle donne nell’esercito prevede un tetto del 10% negli enti logistici e del 5% nelle unità operative. Il Belgio ha iniziato nel 1989 l’integrazione totale delle donne nelle forze armate. In Spagna le donne vengono inserite in tutti i corpi dell’esercito dal 1988. In Francia l’impiego delle donne-soldato è previsto in tutte le unità combattenti e nella Gendarmeria, con esclusione dei reparti più direttamente operativi e della Legione Straniera. In Canada le donne accedono ad ogni incarico combattente dal 1986. Negli U.S.A. esse rappresentano, a tutti i livelli, l’11% delle forze attive e il 13, 7% di quelle di riserva.

2. Ne è un esempio per tutti quello americano, in cui negli ultimi anni ci sono state migliaia di denunce per le molestie sessuali dei sergenti-istruttori. Così, mentre gli ufficiali americani fanno a gara a chi si porta a letto più giovani reclute, per le donne soldato "adultere" il codice militare prevede la corte marziale.

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