[che fare 51]   [fine pagina] 

CORRISPONDENZA COI LETTORI

In margine a delle critiche circa il nostro atteggiamento politico verso i proletari leghisti

 

Un simpatico compagno, studente diciassettenne iscritto a Rifondazione Comunista, ci ha scritto dalla Sardegna dopo aver letto qualcosina di nostro esprimendo, su più punti, il proprio accordo.
Noi, però, non pubblichiamo queste parti della sua lettera, sia perché non siamo talmente interessati a farci la pubblicità, addirittura "fabbricandoci" da noi stessi attestati di consenso -come qualcuno ha scioccamente pensato-, sia perché l’accordo che il compagno esprime pone a noi delle riserve in quanto si situa tuttora alla superficie dei problemi affrontati (e se il giovanissimo compagno vorrà continuare a leggerci potrà rendersene meglio conto ed anche, ponendoci con la massima franchezza tutte le questioni che più sente, aiutarci ad essere più chiari e, si spera, convincenti nell’esporre posizioni nostre che, ahinoi!, si distanziano nella sostanza dall’insieme di quelle di Rifondazione ed altri anche quando possono parere "simili"; questo non per spaccare il capello in quattro, ma per… salvare la chioma del marxismo).
Riteniamo utile, invece, dar voce alle riserve ed alle contestazioni che il compagno ci muove su una questione inerente alla nostra attività sulla quale possono insorgere molte confusioni -come abbiamo costatato perfino in taluni che ci seguono da più tempo- e che esige una precisa definizione di "dottrina".

Scrive il compagno:
"Mi ha lasciato invece perplesso il fatto che voi diate credito all’opposizione alla guerra dei leghisti… Proprio a pagina 10 del n° 50 del vostro giornale, nell’articolo in cui manifestate giustamente la vostra solidarietà con gli operai della Zastava, parlate di "nazionalismo degli oppressi". Sotto questo articolo date spazio alle lettere scritte a "La Padania" che manifestano sentimenti di solidarietà nei confronti del popolo serbo. In particolare la lettera che più mi ha disgustato è quella dal titolo "Popoli in lotta, è il momento!". Guardate un po’, tra quell’accozzaglia di popoli citati alcuni di essi (baschi, catalani, irlandesi) lottano per una repubblica socialista; altrettanto non si può dire per i "padani" e per gli altri nazionalisti borghesi!!! E noi sardi, popolo che ha subito numerose invasioni, che ha lottato contro i colonialisti piemontesi? Per i "padani" siamo solo "terùn"! Forse voi non conoscete la storia della Sardegna, di come i sardi, ad esempio, resistettero eroicamente alla chiusura dei pascoli comuni (tancas) attuata dalla borghesia compradora locale e dai piemontesi. Detto questo, non credo che una organizzazione di internazionalisti si debba baloccare con i "padani"…".

Non una, ma tante questioni fondamentali, come si vede.
La prima. Noi non ci balocchiamo e non "blocchiamo", chiaramente, ci mancherebbe altro!, col movimento di Bossi. Quello che ci "limitiamo" a fare è rivolgerci ai proletari -e dai sentimenti proletari!- della Lega con lo spirito fronte-unitario che Lenin ci insegna precisamente per evidenziare il dissidio tra la loro situazione ed i loro sentimenti di classe e la linea del movimento cui essi, contingentemente, aderiscono. Non senza comprendere a fondo il perché di questa loro collocazione provvisoria, che non dipende dal fatto che essi si siano inopinatamente trasformati in "nazionalisti borghesi" per un vizio di natura o per le astuzie di un Bossi, ma, principalmente, per il tradimento dei postulati comunisti da parte della "sinistra". Il fatto che sul serio negli ambienti proletari della Lega si sia manifestato un sentimento di opposizione alla guerra della NATO e di solidarietà coi popoli jugoslavi sta assieme al fatto che la "sinistra" ufficiale (da D’Alema a Cossutta) ha invece imboccato concretamente la via della guerra imperialista contro la Jugoslavia legando ad essa le "proprie" masse. Ciò rappresenta un elemento di contraddizione di classe la cui soluzione non affidiamo certamente a Bossi, ma al suo sviluppo contro il bossismo, il che comporta la necessità per noi di intervenire su di essa per evidenziarla e farla esplodere a partire dalle condizioni entro cui essa si manifesta. È per questo che noi abbiamo costantemente tallonato e continuiamo a tallonare i proletari leghisti senza nulla concedere a blocchi e balocchi, come ognuno potrà constatare dall’esame attento e sereno delle nostre posizioni, di cui anche in questo numero offriamo un’ampia documentazione.

I marxisti non stanno mai in adorazione, come diceva Trotzkij, del "sedere delle masse", ma sono altrettanto attenti a non confondere le masse con i movimenti e i capi cui provvisoriamente possono aderire perché la base di un forte partito comunista è sempre costituita dalle masse, dalla loro posizione oggettiva nella società, e, quindi, dalla contraddizione permanente, che, a seconda dei tempi e dei luoghi, deve manifestarsi tra questo loro essere oggettivo e l’"accidente" della loro collocazione politica contingente. Valeva per l’Inghilterra di Engels, con un movimento operaio "alla coda del liberalismo borghese" -motivo di più per rivolgersi a quella massa senza etichettarla ed abbandonarla per definizione al ruolo di "liberali borghesi"!-; valeva per l’Italia del primo dopoguerra, allorché i comunisti si rivolgevano apertamente ai "lavoratori fascisti" per conquistarli alla propria causa contro il fascismo-; vale oggi nei confronti dei proletari della Lega (primo partito "proletario" al Nord, per chi non lo sapesse). E, sempre, quest’attitudine fronte-unitaria comporta una delimitazione ed una lotta implacabile contro il "riformismo", responsabile primo della divisione e delle deviazioni della nostra classe. Tanto più oggi e qui, noi crediamo, allorché tale "riformismo" assume in proprio le consegne di una chiara politica liberista e social-sciovinista imperialista.

Ci sarebbe, naturalmente, un altro modo di combattere contro la Lega o consimili. Ed è quello di certa "sinistra" -ne sa qualcosa anche Rifondazione, come abbiamo abbondantemente documentato- che invoca una soluzione ad opera… dello Stato, delle sue polizie, della sua magistratura. I riformisti nostrani del primo dopoguerra stavano "più a sinistra" di noi perché si rifiutavano di parlare ai "lavoratori fascisti"; in compenso invocavano l’intervento di Sua Maestà e dei suoi organi in nome della "democrazia" da tutelare. Quelli odierni, dopo aver provocato l’esodo di una marea proletaria verso la Lega grazie alla loro sporca politica anticlassista, fanno altrettanto. E lo fanno al punto di invocare la repressione statale contro chi si oppone da quella parte alla guerra imperialista da essi condotta in nome degli "interessi nazionali" dell’Italia… imperialista. Non è un bel vedere, come non lo è quello degli "antiguerrafondai" rifondaroli che alle prime scadenze elettorali dimenticano d’un tratto chi erano e dove stavano, e stanno!, i guerrafondai per lanciare invariabili appelli all’"unità delle sinistre" contro il "pericolo di destra". Dimentichiamo la guerra, allora, e pensiamo a costruire dei cartelli elettorali e parlamentari con chi la guerra l’ha fatta, la fa e la farà, perché se no….arriva il lupo mannaro della destra cui proprio questa sinistra dà alimento.

Per noi, i lavoratori della Lega sono compagni da conquistare alla nostra causa, come lo sono quelli che aderiscono a Rifondazione e come lo sono anche quelli che seguono i DS. Tanto più lo sono nel momento in cui abbozzano delle posizioni che vanno nel nostro senso su una questione cruciale e dirimente qual è quella della guerra. Lì vi è la possibilità di una rottura; lì e per questo noi lavoriamo. Chiaro che non possiamo immaginarci che tale rottura vi sia già, bell’e completa e con cui basterebbe far "blocco". Chi ha scritto quelle cose a "La Padania" non esprime, è ovvio!, le nostre posizioni. Ma esprime delle posizioni che entrano in contrasto oggettivo con quelle del movimento di riferimento e che spetta a noi liberare soggettivamente evidenziando tale contrasto e portandolo avanti.

Quanto all’"accozzaglia di popoli citati" nella lettera che ha disgustato il compagno, stia egli bene attento ad alcune cose. La rivendicazione di una "repubblica socialista" da parte di baschi, catalani ed irlandesi è una bella favola che non corrisponde a nulla, neppure, oggi, nelle dichiarazioni di facciata di quei movimenti, tutti chiaramente ed espressamente votati alla costituzione di uno stato borghese indipendente od all’interno del quadro borghese "plurinazionale" entro cui si muovono. Non a caso la Lega intrattiene con essi dei rapporti privilegiati sulla base del "comune interesse" dei "piccoli popoli oppressi" a liberarsi dal centralismo locale in nome di un… microcentralismo nazionalista borghese in proprio. Al raduno di Venezia di qualche tempo fa abbiamo visto ed ascoltato proprio alcuni di questi presunti "socialisti" portare il proprio saluto fraterno alla lotta indipendentista della Lega… Anche l’indipendentismo sardo non fa eccezione: al contrario di quello che il compagno scrive, la Lega non lo qualifica di "terronismo", ma dà ad esso ampio spazio sentendolo e salutandolo, non senza ragione, quale consentaneo alla propria lotta.

Per quanto concerne nello specifico la Sardegna vogliamo rassicurare il compagno. La sua storia non ci è affatto ignota. Ed è la storia di una struttura precapitalista, con caratteri anche di "comunismo primitivo" (vedi le richiamate tancas) che il nascente, e storicamente progressivo, capitalismo risorgimentale italiano ha da un lato distrutto, dall’altro inglobato a sé nell’ambito di uno sviluppo combinato e diseguale affermatosi a prezzi mostruosi di sudore e sangue. La Sardegna prerisorgimentale è stata divelta dal suo ambito chiuso ed arretrato dal nuovo stato piemontese e direttamente tuffata in quello capitalistico in via di sviluppo con tutti i costi che il compagno e noi sappiamo. Ma, a questo punto, il problema non poteva più consistere nella difesa della precedente, arretrata, struttura economico-sociale sarda e, sulla base di essa, di una difesa dell’"indipendenza del popolo sardo". Si trattava di affrontare il capitalismo "colonizzatore" sul proprio terreno per dargli battaglia in avanti nell’unità di classe degli sfruttati per il socialismo rompendo con la propria stessa arretratezza o di capitolare. I resti di "comunismo primitivo" tuttora esistenti avrebbero, nel primo caso, potuto utilmente inscriversi nella lotta per il socialismo "senza dover passare per tutti gli orrori del capitalismo", ma a questa sola condizione, come Marx ed Engels scrivono, fatte le debite differenze, per l’obscina russa.

Persa quest’alea per l’arretratezza del complessivo movimento proletario nazionale italiano, la causa dell’"indipendentismo sardo" si è tramutata in una tragica farsa. Gli indipendentisti, poi più modestamente autonomisti, sardi rappresentavano una tendenza borghese "nazionale" necessariamente compromessa e collusa con la borghesia nazionale "italiana". Non era più questione di tancas "comunitarie", ma di ripartizione degli utili del complessivo sistema borghese secondo "regole" ed "interessi" nazional-locali in quanto parte del tutto.

Il gramscismo, nella sua fase degenerativa estrema, abbozzò precisamente un "blocco" con l’autonomismo sardo nell’assurda ipotesi di usarlo quale arma di indebolimento dello stato nazionale fascista e, di qui, per il socialismo. Tale "blocco" comportò unicamente queste conseguenze: l’"autonomismo" sardo, indissolubilmente legato al capitalismo nazionale italiano "dal suo punto di vista", non volle e non poté rompere in alcun modo con esso, col suo stato, col suo regime; in compenso, il movimento proletario sardo, chiamato a "bloccare" con esso nell’illusione di dare uno scrollone al regime fascista, ripiegò su posizioni non di classe, ma di alleanza suicida con la propria presunta "borghesia nazionale". Il seguito lo conosciamo tutti a memoria e l’attuale Partito Sardo d’Azione ben rappresenta, nella sua nullità, l’eredità del "potenziale rivoluzionario" cui si riferiva Gramsci.

E comunque: anche ammesso -il che non è- un retaggio rivoluzionario-socialista "sardista" (attenti all’aggettivo!) per il passato, esso non avrebbe oggi alcuna tradizione "nazionale" da rivendicare, ma si troverebbe direttamente a lottare per la rivoluzione sociale su di una scala necessariamente italiana ed internazionale -cosa attuale già ai tempi dell’improvvido Gramsci-. Speriamo vivamente che nei circoli sardi di Rifondazione non torni ad affiorare questa storia, vecchia e sepolta, della "causa sarda", perché sarebbe davvero il colmo! La "causa della libertà padana" è, di per sé stessa, un’enormità tale che l’affiorare di una spinta proletaria, pur deviata, l’ha, dopo averle impresso un primo impulso, messa in crisi per la manifesta impossibilità di conciliare interessi proletari e piccola-media borghesia imprenditoriale (anche perché quest’ultima si sente, ne tenga ben nota il compagno!, maggiormente garantita dall’attuale governo di sinistra da cui può molto spremere, facendo la voce grossa, senza ricorrere ad avventure secessioniste; e quanto alla grande borghesia, Agnelli capintesta, si è sempre mantenuta di stretta osservanza "romana"). Un’analoga "causa della libertà sarda" rappresenterebbe qualcosa di ancor più mostruoso, ad onta dei maggiori appigli sull’ipersfruttamento cui l’isola è sottoposta, a misura che vi è meno presente il peso dell’oggettiva contraddizione proletaria.

D’altra parte, il compagno che ci scrive, in quanto ha partecipato alle mobilitazioni contro la guerra alla Jugoslavia schierandosi a fianco delle masse "serbe" -termine riduttivo, ma ci capiamo!- in nome dell’"internazionalismo proletario", ammetterà facilmente che non era lì in gioco la causa della "libertà serba" "in un paese solo", ma quella della rivoluzione proletaria internazionale, cui la Jugoslavia ci chiama e cui gli jugoslavi sono chiamati in un’unica falange di classe. Questo è precisamente ciò che abbiamo detto ai proletari della Lega: i fatti di Jugoslavia vi mostrano sino a qual punto le sorti della vostra classe siano internazionalmente intrecciate, vi mostrano come la borghesia padana (quel tanto di essa che si rifà a Polo ed Ulivo e quel pochissimo che appoggia la Lega) a tutto sia disposta meno che ad attaccare il sistema mondiale dell’oppressione imperialista contro il quale voi sentite di dover alzare la voce; vi mostrano come, proseguendo sulla strada della solidarietà anti-imperialista che avete appena appena imboccato, vi troverete di fronte il blocco reazionario delle forze borghesi poliste, uliviste e padane, ma, in compenso, potrete attingere all’unità internazionale di classe cui la vostra liberazione è affidata. E troverete qui, ad indicarvelo con le parole e l’organizzazione, noi comunisti internazionalisti.

[che fare 51]  [inizio pagina]