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Letture

PRO O CONTRO LA JUGOSLAVIA,
MA TUTTI CONTRO IL MARXISMO

Una nostra recensone di vari libri pubblicati sulla vicenda Jugoslava tutti di stampo anti marxista.

Indice

L’esplosione delle nazioni. Le guerre balcaniche di fine secolo
Serbia ed Europa
Considerazioni del dopoguerra
La guerra nell’Europa orientale 1915

 

Tra la congerie di libri usciti sul tema-Jugoslavia segnaliamo per primo, quale esempio di sfacciata mistificazione dei problemi, L’esplosione delle nazioni. Le guerre balcaniche di fine secolo, di Nicole Janigro (Milano, Feltrinelli, 1999).

L’autrice, nata a Zagabria, vuol farci capire che scrive "dal di dentro", parla di cose familiari e in presa diretta (il testo originario è costituito da corrispondenze/frammenti del ’93). In effetti, alla superficie è proprio così: luoghi, personaggi e circostanze concrete sono esibite -con opportuni filtri- all’infinito; ed è persino vero che molti dati di riferimento possono essere utili per un lettore marxisticamente smaliziato per trovare ulteriori conferme a ciò che egli già sa, rivoltando come un calzino la furbesca trama della "narrazione" della Janigro.

Quello che non si troverà nel libro sarà proprio la spiegazione delle cause interne del dissesto jugoslavo su cui gli operatori esterni dell’imperialismo hanno potuto agevolmente lavorare per portare il paese ad un programmato disastro sotto il proprio controllo. Il "comunismo" di Tito, nei suoi successivi passaggi degenerativi obbligati, sino all’immondo post-titoismo degli anni ottanta -nel quadro del sistema capitalista mondiale ed in quello dei rapporti di forze proletariato-borghesia a scala interna ed internazionale-, sono allegramente saltati. Il perché lo si capisce: il comunismo senza virgolette è, per l’autrice, un grande male e lo è doppiamente per quel che riguarda i Balcani, dove esso significa unicamente un rivestimento ideologico della connaturata "barbarie" balcanica, per l’appunto. (Non a caso il sottotitolo parla di "guerre balcaniche di fine secolo" dimenticando che, dall’inizio alla fine del secolo le guerre in loco sono state guerre imperialiste nei e contro i Balcani, con l’eccezione della "rivoluzione" stalino-titoista che ambì e riuscì illusoriamente, in un primo tempo, ad unificare sino ad un certo punto la causa della liberazione nazionale e di classe al di fuori e contro il gioco del controllo imperialista, per poi rimanere vittima predestinata delle contraddizioni proprie, di quelle dello stalinismo egemone nel movimento proletario "rivoluzionario" internazionale e della ripresa offensiva aperta dell’imperialismo occidentale).

Se Tito altro non era che un ennesimo bandito balcanico e se i suoi successori od usurpatori lo sono altrettanto, per risolvere il "groviglio balcanico" non resta che l’opera pietosa dell’… Occidente. I balcanici, come in uno spregevole film di Paskaljevic, "hanno bisogno di quantità sempre più abbondanti di alcol, dosi sempre più raffinate di coca, violenze sempre più sadiche, per affermare la propria identità"; non c’è niente da fare. A questo punto è logico rimpiangere il fatto che, alla data 1991, "la comunità internazionale non è insorta, ha permesso che tutta la popolazione civile diventasse ostaggio, non ha imposto" le sue regole, rimandando a dopo il proprio intervento "umanitario". Un esempio di tale provvidenziale intervento: la Macedonia "finora salvata dagli americani e dall’oppio" che "dovrà per forza rimanere neutrale". Neutralità armata e drogata dai "liberatori"! Ma questo è un prezzo che si può ben pagare per evitare la… barbarie balcanica! L’aggiornatissima prefazione del maggio ’99, guarda caso, non ha troppe parole da spendere sull’intervento Nato, ed occorre davvero una bella faccia tosta per vedere, a questa data, solo dei selvaggi balcanici intenti a scannarsi tra loro non accorgendosi da dove e perché piovono le bombe che impongono la civiltà.

Non è detto, però, che qualcuno della Jugoslavia non si salvi. Per la Janigro i buoni ci sono anche lì, sono gli "intellettuali", gli "ambienti urbanizzati" in grado di guardare, come figli minori, alla madre Europa e al papà imperialismo. Solo che, sentite sentite!, il titoismo ha "ammazzato a migliaia" costoro ed ha "colonizzato" le città. Perché il segreto starebbe tutto qui: nella guerra delle arretrate campagne e dei monti contro i barlumi di civiltà occidentali importati od imposti nei Balcani dall’Occidente. "Questa è una guerra fra i contadini e le città considerate nemiche", tutto estremamente semplice e tutto privo di un senso di classe, perché, in ogni caso, non si tratterebbe della rivolta degli esclusi contro dei settori di classe dominante, ma semplicemente della "solita violenza connaturata" degli Attila contro "quello che resta" di una "società colta e cosmopolita". Per suffragare affermazioni del genere, la Janigro si inventa addirittura che in Serbia "oltre il 60% della popolazione è analfabeta", il che basterebbe a spiegare i conflitti in corso come lotta tra "analfabeti" e "colti". Se una parola di rimprovero ella si sente di pronunziare contro la NATO è perché, "incomprensibilmente", essa "si accanisce contro le città", così che "l’urbanicidio prosegue" al punto che "le campagne hanno accerchiato le città"! Noi, francamente, pensavamo che fosse l’imperialismo ad aver accerchiato, stritolato, insanguinato la Jugoslavia, e sicuramente non per "ruralizzarla". E pensavamo e pensiamo che l’odio delle masse, contadine e proletarie, contro le eleganti classi colte delle città cosmopolite abbia una valenza di classe contro questi manutengoli dell’Occidente (si pensi al coltissimo Djindjic!) che, disgraziatamente, non riesce ancora a darsi una bandiera adeguata per la propria liberazione di classe e quella del paese anche e soprattutto a causa della sordità dei loro "acculturati" fratelli di classe occidentali. Sono queste masse che la Nato ha voluto colpire e non a caso. Quando si è trattato di bombardare le "città", si è mirato, ad esempio, alla Zastava, alle grosse concentrazioni operaie; il tutto in linea coerente con l’opera di "preservazione" dei nuclei urbani "colti": quelli dei giornali e delle trasmittenti finanziate a suon di milioni di dollari, quelli dei traditori interni parcheggiati nelle sedi diplomatiche occidentali nel corso della guerra "inter-balcanica" per essere poi, integri e galvanizzati, riscaraventati nel "proprio" paese a fungervi da aspiranti quisling. Alla violenza degli "inurbanizzati" -masse proletarie pure in prima linea- non mancano le ragioni di un sacrosanto odio contro questo tipo di "città", seppure ad esse non soccorre ancora un’acconcia direzione di classe. Analfabeti? Lo fossero pure all’80%, quello che ci preoccupa è che lo siano non dell’abc della cultura del servilismo borghese, ma dell’abc della lotta di classe, del marxismo. Che essi, comunque, vi circondino e vi soffochino non può che farci piacere!

Un libro come questo andrebbe, in conclusione, letto e smontato pezzo a pezzo nelle nostre sezioni proprio in quanto si presta al meglio a ribadire, in un contraddittorio di fondo, le nostre posizioni in materia. Tutti i frammenti in cui esso articola la "complessità balcanica" possono riuscire utili, a questa stregua: non ci spaventa la congerie dei dati "concreti" che esso esibisce contro la nostra analisi "tagliata con l’accetta". Al contrario, ognuno di essi può servire a meglio affilare questa stessa accetta, rifuggendo da talune possibili "semplificazioni" e dal rischio di un certo "astrattismo". Perciò ne consigliamo l’uso prima di consegnarlo al luogo che esso si merita: un urbanissimo WC.

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Un libro "curioso" sul tema dello scontro NATO-Jugoslavia è quello che l’editrice Graphos di Genova -che in questo numero segnaliamo per un’opera di tutt’altro genere- è Serbia ed Europa (si vede proprio che la stessa parola Jugoslavia stenta ad andar giù!).

Si tratta di un’antologia di interventi "contro l’aggressione della NATO" curata da Maurizio Cabona e con una postfazione dell’Editore. Dopo un’epico-lirica introduzione, in buon italiano, perlomeno, del curatore, si apre la lista degli interventi: si va da Andreotti a de Benoist, da Romano a Tarchi, per quasi una trentina di nomi, in gran parte appartenenti all’establishement ufficiale europeo od all’opposizione di "nuova destra" ad esso, più qualche "libero pensatore" indipendente. Rigorosamente esclusa ogni e qualsiasi voce comunista, anche tra virgolette, salvo il postfattaccio di cui diremo.

Lo scopo della raccolta? Non offrire un quadro completo delle varie posizioni in campo sul tema, vista la delimitazione programmatica degli interventi. Non suggerire solidi elementi nuovi di analisi o sola "controinformazione" sugli avvenimenti, trattandosi, per lo più, di prese di posizione di principio. Lo scopo consiste, piuttosto, nel mettere assieme i diversi tasselli di quello che dovrebbe costituire un completo mosaico, e cioè il variegato ma coerente ventaglio delle posizioni "europeiste" indipendenti e contrapposte all’imperialismo USA, visto, innanzitutto, come imperialismo diretto strategicamente contro di noi -noi Europa-, anche quando l’oggetto immediato e di facciata può essere una qualsiasi "Serbia" od altro. Non si tratta solo di una rassegna su una determinata posizione politica, ma di mettersi su una determinata strada, perseguirla ed indicarla ai lettori come prospettiva.

La post-fazione non lascia dubbi in proposito. Ad onta delle "più disparate opzioni ideologiche" e dei "più svariati indirizzi politici" di partenza, gli interventi presentano un "comun denominatore (..) nel collegamento tra la condanna dell’aggressione in atto e la certezza" sul suo sbocco "nella lesione dei più generali interessi europei". Voci diverse di un unico "partito antiamericano"? No, perché esso, disgraziatamente per il nostro, tuttora non c’è, ma vi è solo "l’affiorare ancora magmatico di una coscienza borghese dell’esistenza di interessi contraddittori tra le due sponde sull’Atlantico": la vera e propria colata magmatica verrà dopo.

L’editore dichiara subito: "non ci identifichiamo certo con gli orientamenti e i riferimenti sociali" dei vari autori presenti nella raccolta; anzi partiamo "da una critica radicale al sistema capitalistico". Ma quel che si rimprovera agli attori della coscienza antiamericana borghese e, più, ai governi europei è il non aver capito che l’aggressione Nato "si inquadra in un’azione preventiva degli Stati Uniti contro l’Europa occidentale" e rappresenta "una pistola puntata contro la testa dell’Europa"; si stigmatizza la "sindrome di subordinazione" europea agli Usa, un’acquiescenza a Washington da parte dei "nostri" governi che attesta come essi siano "palesemente inferiori alla loro stessa funzione di rappresentanti degli interessi borghesi".

Che ne consegue? Che la costituzione di un solido partito antiamericano si impone ai "critici radicali del capitalismo" per sollevare dal fango le bandiere lasciate cadere dai "nani politici" borghesi, come si disse nel corso della resistenza, o per condurre a buon fine la guerra redentrice dei "paesi proletari" contro la demo-plutocrazia del dollaro, come più gagliardamente tuonava Benito.

Lo si evince chiaramente, al di là dei riferimenti d’obbligo alla rivoluzione, dal tipo di critica alle prese di posizione "insensate" "circolanti nell’area residuale che si richiama alla sinistra rivoluzionaria e alla Terza Internazionale", alla loro "concezione della militanza politica come adempimento di vuote pratiche liturgiche" prive di ogni "realismo rivoluzionario". E in che consisterebbe tale realismo? Nel comprendere che "il destino delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, tra questa e l’Europa dell’Est, come di quelle reciproche tra gli Stati del vecchio continente, si gioca nell’area della ex-Jugoslavia". Si osa persino prendere a prestito una frase cristallina di Bordiga ("I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe politica, sociale e bellica della signoria americana sul mondo capitalistico") per dire che "non si tratta di attendere fatalisticamente che ciò avvenga", ma occorre far subito qualcosa.

Non siamo riusciti a comprendere bene in che cosa si espliciterebbe il "realismo rivoluzionario" in questione, ma comprendiamo bene come ai marxisti che non sono oggi in grado di essere protagonisti della propria storia, si suggerisca di agire per un’altra storia, isolando la questione dell’antiamericanismo "europeo" da quella della ripresa, politica ed organizzativa, dell’antagonismo di classe e del suo partito condizionando, caso mai, quest’ultima al rimescolamento in positivo del destino delle relazioni interborghesi di cui sopra. Per quel che espressamente ci riguarda, non crediamo proprio di aver ripetuto vecchie attendiste liturgie, ma di aver dato "una certa battaglia" contro l’aggressione Usa ed europea senza rimproverare alla seconda il suo "nanismo politico" -se pur vero-, ma mettendo in luce i legami controrivoluzionari di classe tra padroni e padrini in tale aggressione, senza dire alla nostra "incosciente" borghesia: "levati di lì, che mi ci metto io". L’asse fondamentale della nostra azione è rimasto, come sempre da Marx a questa parte per dei comunisti, il proletariato, quello italiano, europeo, Usa persino e -non ultimo!- quello jugoslavo, assente nel corso del libro e nella post-fazione, per chiamarlo concretamente, rispettando la misura obbligata della sua debolezza organica e della pochezza delle nostre forze. La modifica dei rapporti di forza tra gli schieramenti borghesi costituisce, semmai, un effetto secondario, derivato dell’azione delle varie frazioni del proletariato internazionale, non il suo punto di richiamo quale obiettivo "transitorio" verso cui… transitare cedendo prioritariamente e programmaticamente le proprie armi per "surrogare" o "mettersi alla testa" della "riscossa europea".

Ci siamo dilungati su questo tasto perché non si tratta affatto di un’"idea" dell’autore della post-fazione in oggetto, ma di una oggettiva tendenza che sta facendosi strada in diversi gruppi borghesi europei "coscienti dei propri interessi nazionali" e che parecchi pseudo-comunisti tentano di veicolare in un proletariato tuttora torpido giocando sulla "comunanza di interessi" tra proletari e borghesi in chiave antiamericana. Orbene, i proletari hanno sì, come scriveva Bordiga, interesse a veder catastrofato Washington, ma quest’interesse è indissociabile dal "disfattismo interno" contro il proprio "nemico principale", che nessun "aggiornamento" del marxismo varrà a collocare al di fuori delle pareti domestiche. In caso contrario, non solo non si darà alcun rivolgimento di classe, non solo non si modificheranno i rapporti di forza all’interno dei vari paesi, ma, verosimilmente, non si avrà alcun indebolimento della centrale imperialista USA di cui godere come di un "primo passo".

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È molto logico e "realista", ad esempio, un La Grassa (Considerazioni del dopoguerra, Pistoia, C.R.T.) quando, dopo aver visceralmente (e fin qui tutto bene!) espresso il proprio odio contro l’imperialismo USA e la sua barbarie di cui ha visto la pistola puntata alla testa dei popoli jugoslavi prima ancora che a quella dell’Europa (e va ancora bene!), afferma, da stalinista andato a male, che lui "personalmente" ci sta con tutti quelli in grado di rispondervi ad hoc e, considerato il nullismo proletario e la stessa -"personalmente" assodata- nullità dell’antagonismo capitalismo-socialismo, non ha dubbi nel richiamarsi a chi di dovere e di potere, e cioè agli stati imperialisti "oppressi" dallo strapotere Usa. A) "Dobbiamo capire… qual è il nemico principale… Il mio avviso è che questo nemico decisivo sia nella sostanza il monoimperialismo americano… (Compiti di fase, di conseguenza) lotta a morte contro l’imperialismo americano; riconoscimento della nostra attuale debolezza (di stalinisti andati a male), aumentata dalla confusione che continuiamo a fare con la vecchia ideologia del periodo storico ormai chiuso da un pezzo, con l’internazionalismo (proletario…), con la dicotomia destra-sinistra, ecc.; alleanza con chiunque intenda combattere il monoimperialismo USA". B) "Quanto alla "masse" (di cui fa parte anche la, un tempo tanto osannata, classe operaia)… la loro strumentazione culturale è tale da essere difficilmente in grado di collegare l’insieme dei fatti… Solo in determinate contingenze (in presenza di grandi tragedie collettive) esse sono anche capaci di energici e violenti scatti, di essere (per un giorno) gli "eroi della Storia". A ciascuno i suoi interlocutori acculturati, a ciascuno i suoi "alleati"!

Lo stesso dicono, in sostanza, interi raggruppamenti "comunisti rivoluzionari" a perenne vocazione anti-imperialista nazional-frontista. E non diversa è stata la posizione dei Bertinotti o dei Cossutta (a parte ogni considerazione sul carattere clownesco del "protestarismo" del PdCI): tutte le batterie puntate contro gli Usa che "ci" umilia ed aggredisce per un’Europa "indipendente" e "diversa" sul tipo Jospin -altro buon bombarolo nell’occasione, ma solo perché tirato per la giacca e non sorretto da un efficace "movimento di massa" in grado di fargli recuperare i sensi!-. Il libro della Graphos avrebbe potuto utilmente inserire costoro tra i componenti del "magma in definizione" dato lo stesso "comun denominatore".

Noi felicemente esclusi.

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Infine va detto che è abbastanza curioso il "modo" con cui Lotta Comunista presenta il libro di John Reed La guerra nell’Europa orientale 1915 (Pantarei ed., 1997) per dire che "nel 1918… i Balcani vennero "stabilizzati" dai vincitori i quali ricostituivano lo Stato serbo e, appagandone le "aspirazioni", lo facevano diventare Jugoslavia", contribuendo alla coltivazione di "miti imperiali".

Quello che si vuole suggerire è che la Jugoslavia del ’18 sia stata unicamente il frutto di giochi imperialistici in chiave anti-tedesca senza alcuna connessione con della autentiche aspirazioni jugoslaviste, ancorché pregiudicate dall’impronta "panserbista" di Belgrado e che, nel ’45, la costituzione della Federativa titoista non abbia avuta altra spiegazione. I popoli balcanici, capaci al massimo di "odi etnici" frutto di "sacche di arretratezza", contano zero, alla data ’18, ’45 e… fine millennio.

In realtà, il libro di un John Reed non ancora comunista, ma attento osservatore della realtà di una guerra imperialista giocata sugli interessi delle masse oppresse, rappresenta un’ottima circospezione diaristica sui diversi caratteri delle popolazioni coinvolte nel conflitto e non manca di una viva simpatia verso le tendenze che potremmo definire "risorgimentali" del popolo serbo. Non vi è, qui, traccia di conoscenza delle posizioni internazionaliste già allora assunte dal partito socialdemocratico serbo, avversario implacabile della guerra imperialista e dell’ union sacrée nazionale, ma fautore altrettanto deciso di quella unità di classe tra tutti i popoli jugoslavi che già allora costituiva un elemento fondante essenziale, di cui la prima Jugoslavia avrebbe rappresentato sì il frutto "avvelenato" dal panserbismo belgradese, ma non già una pura e semplice "creazione" dell’imperialismo. Reed si limita a registrare qui i sentimenti del "popolo" serbo, e comprende, tuttavia, come l’idea di una Jugoslavia non sia un semplice portato delle manovre imperialistiche, ma il portato di un largo movimento popolare. Nel ’21 avrebbe detto: di un movimento di classe in grado di impostare su questa prospettiva una lotta dal di dentro contro le tendenze egemoniche borghesi del "panserbismo". Contro la Jugoslavia di Versailles l’Internazionale di Lenin propugnò precisamente una Jugoslavia dei popoli e delle masse sfruttate legate alla causa dell’Internazionale. Lo poté fare perché questa esigenza era viva e diffusa, portata avanti con coraggio da un partito comunista.

Ma agli "internazionalisti" di Lotta Comunista giova meglio sostenere che, né allora né mai, i proletari balcanici, legati alle proprie "sacche di arretratezza" ed ai propri "odi etnici", possono avere voce in capitolo. L’aggressione della Nato contro la Jugoslavia non rappresenta, a questa stregua, che un ennesimo "gioco imperialista" su cui i popoli balcanici non hanno nulla da dire, salvo mettersi a disposizione dell’"internazionalismo" di questi signori, che non abbiamo in nessuna occasione avuto modo di vedere mobilitati contro l’aggressione imperialista. Il tutto con la scusa, molto comoda, che gli "arretrati" balcanici non stavano all’altezza delle prestazioni "internazionaliste" richieste.

Cosa c’entri tutto questo con la riedizione del bel libro "impressionista" del pre-comunista John Reed solo dio può spiegarcelo…

 

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