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RITORNA IN CAMPO
IL PROLETARIATO IMMIGRATO

Indice

La repressione e l’inganno della "sanatoria" in Italia
Dalla fiducia nell’ "integrazione"…
...alla necessità di auto-organizzarsi
Una lezione e un invito alla lotta al proletariato bianco
Gli scioperi e le manifestazioni di lavoratori immigrati impegnati nelle raccolte agricole nel sud Italia, la manifestazione dei lavoratori nigeriani contro l’assassinio di un connazionale a Roma, quella dei lavoratori asiatici di cui diamo resoconto nella pagina a fianco, il corteo di Torino degli immigrati islamici, hanno riportato in scena i lavoratori immigrati come protagonisti della propria vicenda. Sono eventi ancora isolati, ma significativi, in cui si cominciano ad affrontare i problemi che si parano innanzi al sempre più necessario percorso di organizzazione del proletariato immigrato. Essi mettono alla prova anche il proletariato bianco, invocandone la scesa in lotta su un terreno autonomo di classe.

La ripresa d’iniziativa degli sfruttati immigrati non è nata per caso. Un insieme di eventi interni e internazionali hanno accelerato l’aggressione alle masse del terzo mondo e ricondotto nelle metropoli le contraddizioni esportate dalla barbarie imperialista. Nello stesso tempo e per gli stessi motivi il disciplinamento interno degli sfruttati immigrati si è fatto più violento anche per paesi come l’Italia. È cambiata la condizione degli immigrati presenti da più tempo (con cui l’imperialismo italiano, nel passato, si premurava in qualche modo di mostrare il suo "volto buono") e, soprattutto, dei "nuovi arrivati", sospinti qui dalle infamità imperialiste degli anni novanta nell’Est europeo, in Africa e in Oriente.

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La repressione e l’inganno della "sanatoria" in Italia

La recente legislazione e la "sanatoria" varata dal governo D’Alema hanno introdotto dei vincoli durissimi e un ricatto permanente nei loro confronti. Il dato saliente delle nuove "regole" è l’ampia facoltà data alle questure di decidere sulla permanenza degli immigrati. Sono costretti a presentare la prova della loro presenza in Italia prima del varo della sanatoria, un contratto d’affitto e un certificato del datore di lavoro. La rivoltante ipocrisia del governo ha indicato in queste norme delle garanzie per gli stessi immigrati che intendono regolarizzarsi. Le circolari ministeriali che hanno seguito la legge di "sanatoria" e l’operato pratico delle questure, hanno dimostrato agli immigrati che la stessa promessa di regolarizzazione contenuta nella "sanatoria" non era altro che un inganno. Mentre la legge ha dato via libera alle espulsioni forzate e consentito un clima di continua repressione nei loro confronti, dall’altro ha tentato di dividere gli immigrati fissando il famoso tetto alla concessione dei permessi, ma soprattutto ha sancito, con la legislazione che l’accompagna, la perenne precarietà del permesso di soggiorno. Gli immigrati, anche quelli già "sanati", sono costretti a dover fornire certificati che non molti datori di lavoro o proprietari di abitazione intendono rilasciare e di conseguenza sono soggetti al "mercato dei certificati illegali" attraverso cui vengono ulteriormente spolpati, e con cui -soprattutto- vengono resi ancor più deboli e ricattabili dalle questure e dall’apparato repressivo.

Il governo, inoltre, ha scientificamente ritardato la concessione dei pur precari permessi di soggiorno, lasciando gli immigrati con la sola ricevuta della domanda d’ammissione, e questo ritardo ha costituito un ulteriore strumento per tenerli in una condizione di ultra-precarietà. D’altro lato, i recenti accordi di Milano sulla possibilità di assumere senza alcuna garanzia o tutela gli immigrati per periodi brevi, costituiscono lo schema di ciò che si intende per "integrazione" dei più "fortunati regolari" che sfuggono all’inferno dei campi di raccolta e dei cantieri edili del centro-sud per essere inseriti nell’apparato produttivo "garantito" e in fabbrica. Il caso dei lavoratori del Bangladesh che lavoravano in fabbrica privi anche del diritto alla mensa la dice lunga sulla stessa condizione degli immigrati in fabbrica.

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Dalla fiducia nell’ "integrazione"…

Gli immigrati in Italia hanno sempre esercitato una pressione per richiedere con la lotta parità di diritti. Per un certo periodo il governo, i partiti della "sinistra" e le organizzazioni sindacali hanno dato una sponda a questa richiesta, a patto che venisse contenuta nel rispetto delle "compatibilità economiche" e politiche del capitale italiano. Le grandi manifestazioni degli anni ottanta venivano organizzate all’insegna dell’integrazione, della società multi-etnica e colorata, e dell’illusione residua che si potesse sviluppare una crescita comune e non eccessivamente conflittuale tra sviluppo democratico del capitale, interessi del movimento operaio e quelli dei proletari immigrati (ognuno naturalmente -per i teorici dell’integrazione- doveva restare al proprio posto nella gerarchia imperialista internazionale).

L’episodio della Pantanella (un edificio disabitato che, a Roma nel 1990, venne occupato e utilizzato come sede di organizzazione da parte di immigrati di diverse nazionalità ) fu anticipatore di come gli immigrati dovevano prendere atto dell’infondatezza di quell’illusione e reagire di conseguenza. Nella Pantanella gli immigrati si organizzavano senza chinare la testa e al di fuori degli organismi istituzionali in cui venivano tollerate le loro richieste. Non solo: all’interno dell’edificio si tenevano riunioni e si viveva un clima di calda partecipazione contro l’intervento imperialista in Iraq. La polizia sgombrò il locale e gli immigrati furono lasciati, nei fatti, soli da tutti i partiti, a eccezione della solidarietà nostra e di qualche centro sociale.

Quest’abbandono è divenuto totale man mano che il capitalismo ha dimostrato che l’unica integrazione che può riservare è la sottomissione a colpi di bombe all’uranio dei paesi del terzo mondo e lo sfruttamento spietato delle sue masse. La necessità di una permanente organizzazione degli immigrati diviene così più impellente e meno legata a singoli episodi.

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...alla necessità di auto-organizzarsi

Ciò spiega perché hanno cominciato a prodursi forme di lotta e d’organizzazione degli immigrati su basi del tutto autonome.

Le lotte di cui riferiamo nascono come iniziative organizzate nell’ambito di comunità nazionali, ma con caratteristiche ben diverse dai precedenti rapporti tra comunità e istituzioni. Queste ultime, nel passato, si sono premurate di concedere qualche sottobriciola alle comunità "amiche", per ottenere consenso e costruire al contempo una gerarchia tra le stesse nazionalità straniere presenti in Italia. Le organizzazioni ufficiali delle comunità divenivano, così, uno degli strumenti per imbrigliare e contenere la rabbia degli immigrati. Oggi, mentre anche le strutture filo-istituzionali delle comunità immigrate più disponibili vengono emarginate dallo stato (o vengono ridotte a una cerchia sempre più ristretta e lontana dalla massa degli immigrati), lo stesso spirito di comunità viene evocato e rivendicato non per chiedere benevola considerazione al governo, ma per salvaguardare dal governo l’identità e le condizioni di vita degli immigrati, richiedendo sempre più spesso, con la lotta, la tutela dei propri diritti, ivi compresi quelli di autonomia politico-religiosa (chador incluso).

La manifestazione dei nigeriani a Roma contro l’assassinio dell’operaio connazionale alla stazione Termini ha offerto un importante esempio di ciò. Nel corso della commemorazione si è ascoltata la presa d’atto della fine del rapporto privilegiato tra governo e comunità. Ma si è ascoltata anche la voce di una parte di questa che rivendicava il ricorso alla lotta per imporre i propri bisogni e uscire dalla melma di rapporti istituzioni-membri della comunità, da cui la maggior parte dei nigeriani non ha ottenuto altro se non lacrime, sangue e sfruttamento. Ancor più significativo il percorso avviato dai lavoratori asiatici a Roma.

Le esperienze di lotta e organizzazione degli immigrati non potevano non incrociare le recenti manifestazioni contro il degrado dei quartieri. Proprio il caso degli immigrati asiatici organizzati nel Dhuumcatu a Roma ha messo in rilievo come i lavoratori immigrati possono rispondere in avanti alla contraddizione con i proletari bianchi. Essi hanno cercato di dialogare con il quartiere mettendo in rilievo come:

  1. "…siamo qui perché i nostri paesi sono sfruttati dal vostro governo e dalle vostre multinazionali e non possiamo tornare perché non vi sono più risorse per la nostra sopravvivenza";
  2. "…siamo vittime come voi della criminalità, perché attraverso di essa i nostri fratelli più disperati sono sfruttati e utilizzati oltre che nel lavoro legale anche in quello illegale";
  3. "…siamo stati i primi a combattere il degrado dei nostri fratelli; organizzandoci in associazione per difendere i nostri diritti li abbiamo sottratti alla disperazione e abbiamo dato loro una prospettiva. Da quando ci organizziamo e lottiamo, le strade intorno alle nostre sedi sono state ripulite dagli elementi indesiderati e dal traffico di droga";
  4. "…ci sentiamo abitanti del quartiere come voi e ne soffriamo al degrado; per questo siamo disponibili con voi a condurre quelle iniziative che possono ottenere un miglioramento delle condizioni di vita nel quartiere".

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Una lezione e un invito alla lotta al proletariato bianco

È la strada giusta per superare in avanti sia l’inconcludente appello all’accoglienza umanitaria alla Rifondazione (umanitarismo fa sempre rima con sciovinismo) sia la critica monca al mondialismo sfruttatore della Lega al Nord e della destra al Centro-Sud.

Ai primi si risponde denunciando il legame tra sfruttamento imperialista e afflusso di manodopera immigrata. Questo è il vero problema che nessuna "politica di accoglienza" può risolvere, ma solo una vera lotta in comune dei lavoratori bianchi e immigrati contro il meccanismo d’oppressione capitalista.

Ai secondi, e in particolare ai settori proletari della Lega, si illustra come lo sfruttamento mondiale centralizzato dell’imperialismo non conosce frontiere e non si può esorcizzare chiedendo all’imperialismo stesso e allo stato di cacciare via gli immigrati. Ciò è, innanzitutto, praticamente impossibile, perché le ragioni che spingono gli immigrati in Occidente sono molto più forti di qualsiasi campagna anti-immigrati o legge repressiva. Ma, porta, poi, dritti dritti a dare una mano al governo mondiale del capitalismo che pure si vorrebbe criticare e combattere. L’illusione che si possa contrastarlo con stati autonomi e indipendenti, in cui ciascuno nel ristretto ambito di casa propria rifugga il mondialismo oppressore, non solo è falsa, ma è ciò che conviene di più all’imperialismo stesso. Gli immigrati -e noi con loro- invitano, invece, chi vuole battersi realmente e fino in fondo contro lo sfruttamento mondiale del capitale a costruire un’altrettanto solido e organizzato fronte mondiale dei proletari. E questo non si può fare se da un lato si solidarizza, per esempio, con i lavoratori jugoslavi quando sono attaccati in casa propria e dall’altra si rifiuta il sostegno -o peggio- quando l’attacco è portato in casa nostra. L’oppressione è unica, così come la soluzione.

Queste prime esperienze degli immigrati potranno subire una battuta d’arresto per le minacce e i colpi della repressione o per le lusinghe di chi li invita a dismettere le armi della lotta per accreditarsi come ligi e rispettosi aspiranti all’"integrazione" multicolorata. Ma ciò sarà solo il segno della debolezza e dell’arrendevolezza del proletariato bianco e delle sua avanguardie attuali. Noi, scevri da opportunistica accondiscendenza verso ogni scorciatoia, cerchiamo di instaurare un franco dialogo con questi lavoratori e, tenendo ferma la barra della nostra impostazione di classe e internazionalista, da essi andiamo a scuola senza timore di perdere consensi tra di loro per la chiarezza e la coerenza del nostro lavoro. E anche se ciò non bastasse a impedire momentanei arretramenti, nulla toglierebbe agli insegnamenti e al sedimento che queste esperienze lasciano per la ripresa della lotta e dell’organizzazione del proletariato di colore e della classe operaia tutta.

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UN ESEMPIO DI LOTTA ED AUTORGANIZZAZIONE

Roma, 3 ottobre. I lavoratori asiatici riuniti ed organizzati dal Dhuumcatu, danno vita ad una manifestazione nel centro della città. Nonostante i divieti della polizia e le minacce ai propri dirigenti, la manifestazione è un successo e si conclude con la partecipazione di circa 3000 lavoratori in piazzale Aldo Moro dopo aver percorso le strade del quartiere Esquilino, teatro negli stessi giorni di manifestazioni contro il degrado del quartiere.

Con la loro mobilitazione contro le angherie ed i ricatti subiti dal governo e dai commissariati di polizia -che negli ultimi mesi hanno inasprito la repressione, aumentato le espulsioni, le retate anti-immigrati ed hanno bloccato la concessione dei permessi di soggiorno- essi hanno risposto al tentativo in atto di isolarli e privarli di ogni diritto per farne manodopera sottopagata e ricattabile. Alzando la testa contro i veri produttori del degrado (padroni e governo), essi hanno indicato agli stessi lavoratori italiani la vera strada per combattere il degrado e la concorrenza tra sfruttati. Con la lotta e l’organizzazione essi lavorano per sottrarre dalla duplice gogna del super- sfruttamento legale ed illegale (di una malavita organizzata e finanziata dal profitto e dal capitale) le giovani braccia che si sono levate insieme per rivendicare i propri diritti.
La nostra organizzazione è stata quasi sola, e di questo non ci rallegriamo, a sostenere attivamente l’iniziativa. Dal palco abbiamo ribadito il nostro incondizionato sostegno alla lotta dei lavoratori immigrati e rinnovato il nostro impegno a sostenerla.

Dopo pochi giorni è arrivata la risposta dello stato italiano che attraverso i commissariati ha denunciato il principale leader dell’associazione con l’accusa di aver "diffamato" la questura per le puntuali denunce della repressione e del traffico dei falsi certificati che è fiorito intorno alla "sanatoria". È un attacco a tutti i lavoratori, a cui rispondere rinnovando gli sforzi per allargare la lotta dei lavoratori immigrati e per unirla a quella dei lavoratori italiani.

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